Il gallo

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 7 minuti


Adesso che gli hanno tirato il collo, si può parlare, di questo gallo, senza odio e senza disprezzo! Per un mese buono, e il più bello e santo dell’anno, il mese di maggio, il mese di Maria incoronata di rose, l’ardente volatile fu il terrore, il palpito, la passione di tutto un quartiere cittadino abitato da persone di valore e di ingegno: e se non generò la strage della famosa gallina della novella di Tolstoi è perché appunto i fatti si svolsero in una zona di intellettualità civilissima e, diciamo pure, di spregiudicatezza stracittadina.
I fatti sono questi (e un giorno forse saranno, con documenti alla mano, rievocati da qualche spulciatore di piccole ma pittoresche cronache antiche).
In un villino di un quartiere nuovo di zecca, e quindi ancora guarnito di fette di orti, di angoli campestri, di siepi di sambuco, viveva una signora malaticcia: i suoi malanni erano forse alquanto immaginarî, come quelli della gente che ha poche preoccupazioni; ad ogni modo, dopo una giornata di fantastiche sofferenze, alla notte essa aveva assoluto bisogno di dormire. Ed ecco una notte, verso le due, un canto di gallo la sveglia quasi di soprassalto. Ma è un canto straordinario, potente, mai sentito: sembra la voce di un uomo, e di un uomo in gamba, nerboruto, che non conosce legge né disciplina. La signora prova quasi un senso di sgomento. Per chi canta il gallo terribile, a quell’ora? Non certo per le galline, che dormono ancora, e che, del resto, ne devono avere abbastanza di lui e del suo sultanesco dominio, durante la giornata: non canta neppure per sé stesso, perché sa la sua potenza e non gli importa di essere vanitoso: e tanto meno per l’altro gallo, lontano, che gli risponde per dovere, assonnato e flebile come l’eco di una caverna: per chi, dunque? Sembra lo squillo di una tromba che desta i morti per il Giudizio Universale, con tutta la loro coscienza di peccatori: e la signora, al terzo canto dell’infernale araldo, ebbe quasi voglia di piangere. Ricordava la profezia di Gesù, la serva nel cortile di Caifa, e San Pietro, San Pietro, il fondatore della Chiesa, che rinnegava il suo Maestro.

E adesso che il gallo ha cantato tre volte, nella notte cristallina di maggio, voltiamoci nel grande letto ancora deliziosamente freschino; e riprendiamo a navigare sulle acque azzurre dell’oblio. Ma che! Il canto si ripete, a intervalli brevissimi; anzi si rinforza, batte davvero gli echi più lontani, spaventa persino i cani da guardia. Altro che ordinato e spicciativo Giudizio Universale: sembra la sveglia di un bivacco di guerrieri barbari: alzatevi, stringete la cintura, e rallegratevi: ché oggi c’è da mordere il fegato del nemico.

Chi non si rallegrava era la signora: tutti i suoi malanni l’aggredivano di nuovo, come quell’oste crudele, pungendola con le loro freccie avvelenate. Volta, rivolta, le tenere lenzuola di lino si cambiarono in tela d’ortica; all’alba ella vedeva rosso, in cielo e in terra: sangue e fuoco; e vedeva un capo-tribù di pellirosse, piumato e cannibale, che invitava il suo seguito a un banchetto di carne umana. Era il gallo.
— Se un’altra notte si ripete la stessa cosa me ne vado in una casa di salute; o ricorro a un avvocato.
— Senta, — consiglia la vecchia saggia domestica, — ricorra all’avvocato; è meglio: al suo bravo avvocato, che sta qui accanto; lo vedo tutte le mattine, che corre con una borsa come debba sempre partire.
— Aspettiamo un’altra notte.
Un’altra notte d’inferno; all’alba la signora si alza come una morta risuscitata, negli occhi la verde luce della follìa. Partire, fuggire, emigrare; introdurre una volpe nel pollaio; o ricorrere all’avvocato. La serva, suggestionata, ha pure lei sentito la tromba incessante del gallo, e vede la sua antica saggezza liquefarsi come il burro nelle sue casseruole. Però dice:
— Senta, non sarebbe bene pregare quei signori che hanno il pollaio, di chiudere il gallo? Un piacere ai vicini non si nega mai, fra gente educata.
— Proviamo un po’.
La buona donna prova: torna disfatta.
— Senta, la colpa è tutta della loro serva: è una prepotente, e mi ha risposto male. Il gallo è di razza; le galline fanno, adesso, molte uova grosse e anche col doppio torlo.
E qui la buona donna pronunziò, all’indirizzo della serva del pollaio, una sequela d’ingiurie e insinuazioni impossibili a ripetersi fra “gente educata”.
Non restava che consultare l’avvocato, che non domandava di meglio. E quando egli sentì di che razza di causa si trattava, non si scompose: gli articoli della legge erano lì, pronti, fra le sue dita agili e bianche, come i fili di una rete che pesca le più introvabili marachelle umane: leggi di pubblica sicurezza, di pubblica quiete, di vivere civile. Anche lui però è del parere che prima bisogna tentare con le buone, di fare appello alla cortesia dei vicini. «Lasci fare a me, signora: vedrà che questa notte riposa».
Quella notte il gallo cominciò a cantare a un’ora: e pareva si beffasse della signora, della serva, dell’avvocato, dell’universo intero: persino le stelle, sul fresco cielo di giada, tremavano di rabbia.
Torna l’avvocato: la malattia gli si era attaccata come il morbillo; e infatti egli aveva una specie di prurito nascosto, un principio di febbre.
— Ma non sa che né io, né i miei fratelli abbiamo chiuso occhio tutta la notte? E da noi il maledetto bestione si sente più forte che qui. E dire che ieri la padrona stessa ha promesso al mio fattorino di chiudere il gallo: ma adesso tocca a noi. Ecco il ricorso, in carta da bollo da lire tre: e fatto bene, con arte: me lo ha riveduto, anzi, fra il burlesco e l’impegnato, poiché anche lui questa notte non ha dormito, mio fratello Gioele. Senta – poi firmerà – è un capolavoro di arguzia e di stile.
Ella ascolta, e respira un’atmosfera di epopea. Poiché il signor Gioele è uno dei più celebri scrittori lirici moderni.

Ma ne passarono, di notti tormentose, prima che la legge, la quale è necessario proceda con la stessa calma lentezza della giustizia divina, desse respiro agli abitanti del quartiere. Poiché l’epidemia si era rapidamente diffusa, un po’ anche per raffinata vendetta della vecchia domestica, che metteva in avviso tutti i rivenditori e le persone di servizio; un po’ perché, nel bar del quartiere, si rideva e si scherzava – ma non tanto – della faccenda. Si erano persino formati due partiti, avversi e contrarî, e qualche litigio ne nasceva. Ma alla notte tutti sentivano il gallo diabolico; le finestre si aprivano, i moccoli facevano accordo col tremolìo degli astri. È vero che cominciavano le notti calde e nervose: e anche l’insonnia di quelli ai quali il giorno dopo scadeva una cambiale veniva incolpata al gallo fecondo.

Finalmente una notte, – la luna nuova guardava col suo occhio di casta pietà le rose che si lasciavano impuramente succhiare il cuore dai maggiolini, – il gallo fu chiuso in un reparto coperto del pollaio: si sentiva egualmente, è vero, ma la sua voce era quasi musicale, piacevole a udirsi come il canto represso, monodico, nostalgico, di un esiliato: oltre i monti, oltre i fiumi e le torri della patria perduta; cose belle, antiche verità diceva, lamentandosi della crudeltà della sorte, della prepotenza del forte contro il debole, del dolore che incombe su tutte le creature di Dio. E si rivolgeva a Dio, adesso, col canto religioso del guerriero vinto e dissanguato: «Dio, se la mia vita è questa, riprenditela: te la offro con gioia, come offro il fiore purpureo della mia cresta alla cattiva serva che se la mangerà di nascosto, e offro l’onda gloriosa e volante delle mie piume lunghe nate dall’iride, ai pennacchi dei nostri divini bersaglieri. Amen».

La signora, nel suo letto tornato dolce come una spiaggia marina dopo la tempesta, lo sentiva e ne provava sincera, umana pietà: e le veniva persino cristianamente da piangere; ma si tratteneva, per paura che le sue lagrime avessero il sapore di quelle del coccodrillo. Chi non si placava era l’avvocato: aveva perduto una sfumatura del suo prestigio col non essere riuscito completamente nel suo intento, e non tollerava la beffa pungente, per quanto elegantissima, del suo collaboratore nel ricorso su carta bollata da lire tre; e allora si creò una procedura tutta sua: andò dalla padrona del pollaio e le disse che se non tirava entro quel giorno il collo al gallo glielo avrebbe tirato lui a lei. Così giustizia, o ingiustizia, fu fatta.


Fine.


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TITOLO: Il gallo
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)