Giannino e Ghitina
Traduzione dalle fiabe dei fratelli Grimm
di
Antonio Gramsci
tempo di lettura: 12 minuti
Vicino a una grande foresta abitava un boscaiolo, con la moglie e i suoi due figli: il maschietto si chiamava Giannino e la femminuccia Ghitina. Egli aveva poco da mangiare e quando nel paese ci fu una grande carestia, non riuscì neanche a guadagnarsi il pane quotidiano.
Una notte, mentre era a letto, questi pensieri lo preoccupavano tanto che non poteva dormire. Sospirava, si voltava continuamente e finalmente disse alla moglie: «Che cosa sarà di noi? Come potremo nutrire i nostri poveri figli, se non abbiamo più nulla neanche per noi?».
«Sai cosa dobbiamo fare marito mio – rispose la moglie, – domattina, prestissimo, condurremo i bambini nella foresta, dove è più fitta; là accenderemo il fuoco e daremo a ognuno un pezzo di pane; poi ci recheremo al lavoro e li lasceremo soli. Essi non troveranno più la strada per tornare a casa e ce ne saremo liberati».
«No, moglie – disse il marito, – non lo farò; come potrebbe il mio cuore aver la forza di lasciare i miei bambini soli nella foresta, con le belve che accorrerebbero e li sbranerebbero?».
«Pazzo – disse la moglie, – moriremo dunque tutti e quattro e non ti resta che piallare le assi per le bare», e non gli lasciò pace finché non ebbe acconsentito. «Ma quanto mi fanno pietà quei poveri bambini!», concluse l’uomo.
I due bambini non si erano potuti addormentare per la fame e avevano sentito ciò che la matrigna aveva detto al padre. Ghitina pianse disperatamente e disse a Giannino: «Adesso è finita per noi».
«Zitta, Ghitina – disse Giannino, – non accorarti, io saprò salvare ambedue».
E appena i vecchi si furono addormentati, egli si levò, indossò il suo vestitino, aprì la porticina di dietro e uscì pian piano. Gli apparve la luna chiarissima e i piccoli sassolini di selce che erano dinanzi alla casa splendevano come dei soldini nuovi.
Giannino si chinò e ne riempì la tasca tanto quanto ce ne stava. Poi rientrò e disse a Ghitina: «Cara sorellina, consolati e dormi tranquilla: tutto andrà bene per noi», e si rimise a letto.
Appena si fece un po’ di luce, prima ancora che spuntasse il sole, la donna svegliò i due bambini: «Levatevi, infingardi, dobbiamo andare nella foresta a far legna».
Poi diede loro un tozzerello di pane e disse: «Ecco qualcosa per il pranzo, ma non mangiatelo prima, perché non avrete altro».
Ghitina si mise il pane sotto il grembiule, perché Giannino aveva i sassolini in tasca. Poi tutti insieme si misero in cammino per la foresta. Dopo che ebbe camminato un po’, Giannino silenziosamente si fermò e guardò indietro parecchie volte verso la casa.
Disse il padre: «Giannino, tu guardi qualcosa e rimani indietro; sta’ attento e muoviti».
«Oh, papà – disse Giannino, – guardo il mio gattino bianco, che è seduto sopra il tetto e mi vuol dire addio».
La donna disse: «Stupido, non è il tuo gattino, è il sole che appare sul camino».
Ma Giannino non guardava per nulla il gatto, e invece ogni volta gettava sulla strada una delle pietruzze bianche di selce.
Quando arrivarono nel folto della foresta, il padre disse: «Bambini, raccogliete legna, voglio accendervi un bel fuoco, perché non abbiate freddo».
Giannino e Ghitina portarono dei rami secchi fecero un mucchio a cui fu dato fuoco e quando le fiamme si alzarono, la donna disse: «Adesso, bambini, sedete vicino al fuoco e riposatevi; noi andremo a tagliare legna. Quando avremo finito, ritorneremo e vi condurremo a casa».
Giannino e Ghitina sedettero vicino al fuoco e, a mezzogiorno, mangiarono il loro tozzo di pane. Poiché sentivano i colpi della scure, credevano che il loro padre fosse nelle vicinanze. Ma si trattava solo di un pezzo di legno che l’uomo aveva legato ad un albero secco e che il vento sbatteva qua e là. Dopo che rimasero a lungo seduti, gli occhi per la stanchezza si chiusero ed essi si addormentarono profondamente.
Quando si svegliarono era già notte oscura. Ghitina cominciò a piangere e disse: «Come faremo ad uscire dalla foresta!».
Ma Giannino la consolò: «Aspetta ancora un po’, fino a quando sorgerà la luna e allora ritroveremo la strada».
Appena la luna piena apparve all’orizzonte, Giannino prese la sorellina per la mano e camminò seguendo la traccia delle pietruzze bianche che brillavano come soldini nuovi e che indicavano loro la via. Camminarono tutta la notte e giunsero a casa ai primi albori. Bussarono alla porta e quando la donna capì che erano Giannino e Ghitina gridò: «Cattivi ragazzi, perché avete dormito tanto nella foresta? Abbiamo creduto che non voleste più tornare a casa!».
Ma il padre si rallegrò, perché il cuore gli si era spezzato per averli lasciati così soli nella foresta.
Poco tempo dopo la carestia tornò dappertutto e i bambini sentirono che la matrigna una notte, mentre erano a letto, diceva al padre: «Abbiamo consumato tutto, abbiamo solo una mezza pagnotta, e poi è finita. Bisogna portare via i bambini: li condurremo nella foresta, ma così in fondo, che non ritroveranno più la strada; altrimenti non c’è salvezza per noi».
All’uomo ciò pesava sul cuore ed egli pensava: «Sarebbe meglio che tu dividessi coi tuoi figli l’ultimo boccone di pane».
Ma la donna non voleva sentir ragioni, lo sgridò e lo rimproverò. Chi ha detto A, deve dire B, e poiché egli la prima volta aveva acconsentito, così dovette farlo anche la seconda volta.
I bambini erano ancora desti e avevano sentito la conversazione. Appena i vecchi si addormentarono, Giannino si levò di nuovo, per uscire e fare provvista di pietruzze bianche, come la volta precedente, ma la donna aveva chiuso la porta e non poté uscire.
Ma consolò la sorellina ugualmente dicendole: «Non piangere Ghitina e dormi tranquilla; ce la caveremo anche questa volta».
All’indomani prestissimo, la donna fece levare i bambini, e diede loro un tozzo di pane, che però era anche più piccolo dell’altra volta. Durante la strada Giannino sbriciolò la sua porzione in tasca e spesso si fermava a gettare un minuzzolo per terra.
«Giannino perché ti fermi e guardi indietro? – diceva il padre – va’ diritto per la tua strada».
«Guardo la mia colomba che è sul tetto, e mi vuol dire addio», rispose Giannino.
«Pazzo – disse la donna, – non è la tua colombella, è il sole che appare sopra il fumaiolo».
Intanto Giannino buttava sulla strada i minuzzoli di pane.
La donna condusse i bambini nella parte più lontana della foresta, dove essi non avrebbero potuto scamparla. Anche questa volta fu acceso un gran fuoco e la matrigna disse: «Rimanete seduti qui, e quando sarete stanchi potrete dormire un po’; noi andiamo a tagliar legna e stasera, quando avremo finito, verremo a prendervi».
A mezzogiorno Ghitina divise il suo pane con Giannino, che aveva sparso il suo per la strada. Poi si addormentarono e quando venne la sera, nessuno venne a cercarli. Si svegliarono a notte buia e Giannino consolò la sorellina: «Aspetta un po’ Ghitina, quando sorgerà la luna, vedremo i minuzzoli di pane che ho sparso, e ritroveremo la via per ritornare a casa».
Quando si levò la luna, si alzarono, ma non trovarono più neanche una briciola di pane poiché le migliaia di uccelli che volavano nella foresta e nei campi, avevano beccato tutto.
Giannino disse a Ghitina: «Vedrai che troveremo la strada lo stesso», ma intanto non la trovarono.
Camminarono tutta la notte e anche la giornata appresso, dall’alba al tramonto, ma non riuscirono a uscire dalla foresta; erano affamatissimi, perché avevano mangiato solo alcune bacche trovate per terra. Quando furono così stanchi che le gambe non li potevano più portare, si sdraiarono sotto un albero e si addormentarono.
Erano già passati tre giorni, da quando avevano lasciato la casa paterna. Ricominciarono a camminare, ma si perdevano sempre più nel folto della foresta, e se non avessero avuto presto un aiuto, sarebbero morti di fame. Verso mezzogiorno videro un bellissimo uccellino bianco come la neve che, posato su un ramo, cantava così dolcemente che i bambini si fermarono per ascoltarlo. Quando ebbe finito spiegò le ali e volò dinanzi a loro, ed essi lo seguirono, finché giunsero ad una casetta sul cui tetto si posò.
Quando i bambini si avvicinarono videro che la casetta era fabbricata con pagnotte, ed era ricoperta di focaccine invece che di tegole, le finestre poi erano di zucchero candito.
«Ci avvicineremo – disse Giannino, – e faremo una mangiata straordinaria. Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Ghitina, mangia un po’ di finestra, chissà com’è dolce».
Giannino salì sul tetto e ne staccò un pezzetto per sentire se era saporito, mentre Ghitina si avvicinò ai vetri e cominciò a grattare. Dall’interno una voce gridò: «Sgranocchia, sgranocchia. Chi raspa la mia casetta?».
I bambini risposero: «Il vento, il vento, il figlio dell’aria», e continuarono a mangiare senza sconcertarsi. Giannino, al quale il tetto pareva di ottimo sapore, ne strappò un grosso pezzo, e Ghitina staccò un intero sportello da una finestra, si sedette per terra e se la mangiò allegramente.
All’improvviso si aprì la porta e una vecchia decrepita, che si reggeva su una gruccia, uscì di soppiatto. Giannino e Ghitina si spaventarono così fortemente da lasciar cadere ciò che tenevano in mano. Ma la vecchia tentennò la testa e disse: «Eh, cari ragazzi, chi vi ha condotto fin qua? Entrate in casa e restateci quanto volete, ché non vi capiterà nulla di male».
Li prese ambedue per la mano e li fece entrare nella casetta, dove c’erano grandi quantità di migliori cibi, latte e frittelle inzuccherate, mele e noci. Vi erano inoltre due bei lettini coperti di bianco, dove Giannino e Ghitina si coricarono, pensando di essere in cielo.
La vecchia li aveva accolti così perché era una cattiva strega, che attendeva al varco i bambini; perciò aveva costruito quella casetta di pagnotte, per adescarli. Ma quando uno cadeva in suo potere, lo ammazzava, lo cucinava e se lo mangiava ed era quello un giorno di festa per lei. Le streghe hanno gli occhi rossi e non possono vedere più in là del proprio naso, ma hanno un fiuto finissimo, come gli animali, e sentono all’odore quando si avvicina una creatura umana.
Infatti, quando Giannino e Ghitina si erano avvicinati alla casetta, la malvagia femmina aveva sghignazzato e aveva detto con scherno: «Sono in mia mano, non mi scapperanno!».
Il mattino presto, prima che i bambini si fossero svegliati ella era già levata, e come li vide riposare così dolcemente, con le guance rosee e pienotte, mormorò dentro di sé: «Questo sì che sarà uno squisito boccone».
Ghermì quindi Giannino con le sue manacce secche e lo portò in un piccolo porcile che era chiuso da una cancellata; poteva gridare quanto voleva, a nulla gli avrebbe giovato.
La vecchia andò poi da Ghitina, le dette uno scossone per svegliarla e le gridò: «Levati, infingarda, porta l’acqua e cuoci qualcosa di buono per tuo fratello che si trova fuori nel porcile e deve ingrassare. Quando sarà ben grasso, me lo voglio mangiare».
Ghitina cominciò a piangere disperatamente, ma era tutto inutile: dovette fare ciò che la malvagia strega voleva.
Per il povero Giannino fu preparato un magnifico pranzo, ma Ghitina ricevette solo degli avanzi.
Ogni mattina la vecchia zoppicava verso il porcile e gridava: «Giannino, caccia fuori un dito, perché senta se diventi grasso».
Giannino però cacciava fuori un ossicino, e la vecchia che aveva la vista appannata e non poteva vedere nulla, credeva che quello fosse il dito di Giannino e si meravigliava che il ragazzo non ingrassasse.
Passarono quattro settimane e Giannino rimaneva sempre magro; la vecchia non poté resistere dall’impazienza e non volle aspettare oltre.
«Olà, Ghitina – gridò alla bambina, – svelta, porta dell’acqua, Giannino, grasso o magro, lo macellerò e lo cuocerò domani»,
Ah, come gemeva la povera sorellina mentre doveva portare l’acqua, e quante lacrime le scorrevano sulle guance!
«Ahimè, chi ci aiuterà – esclamava, – almeno le fiere ci avessero divorato nella foresta, saremmo così morti insieme».
«Risparmia pure i tuoi lamenti – sghignazzava la vecchia, – tanto non ti gioverà a nulla».
La mattina presto Ghitina dovette appendere fuori il paiolo e accendervi il fuoco sotto.
«Prima cuoceremo il pane – disse la vecchia, – ho già riscaldato il forno e preparato la pasta».
Spinse la povera Ghitina verso il forno, dal quale sfuggivano violente fiammate.
«Va’ dentro – disse la strega, – e vedi se si è riscaldato giusto affinché possiamo infornare il pane».
Appena Ghitina fosse entrata, pensava di chiudere il forno e così la bambina sarebbe arrostita, ed essa se la sarebbe mangiata con Giannino. Ma Ghitina capì quale intenzione avesse e disse: «Non capisco cosa debbo fare; come faccio ad entrare?».
«Stupida oca – disse la vecchia, – l’apertura è abbastanza grande, come tu puoi vedere benissimo, anche io potrei entrarci!» si avanzò e cacciò la testa nel forno.
Ghitina, senza perder tempo, le dette una spinta in modo che la strega cadde dentro il forno, ne chiuse la porticina di ferro e mise il chiavistello.
«U, u, u», cominciò a ululare la vecchia che arrostiva in modo orribile; ma Ghitina scappò e la malvagia strega continuò a bruciare miseramente.
Ghitina corse direttamente da Giannino, aprì il porcile e gridò: «Giannino, siamo liberi, la vecchia strega è morta».
Giannino saltò fuori, come un uccello dalla gabbia, appena la porta gli fu aperta. Come erano contenti i due bambini: si abbracciavano, ballavano il giro tondo, si baciavano! E poiché non avevano più nulla da temere, entrarono nella casetta della strega, dove in ogni angolo c’erano bauli pieni di perle e di gemme.
«Queste sono molto più belle delle pietruzze bianche», disse Giannino, e se ne riempì le tasche colme.
E Ghitina disse: «Anch’io voglio portare qualcosa a casa» e se ne riempì il grembiule.
«Adesso però andiamo via – disse Giannino, – per uscire finalmente dalla foresta della strega».
Avevano fatto qualche ora di cammino, quando incontrarono un grosso fiume.
«Non possiamo passare – disse Giannino, – non vedo né guadi né ponti».
«E qui non passano neanche battelli – rispose Ghitina, – ma vedo nuotare un’anitra bianca; se la prego, ci aiuterà a passare». E gridò:
«Anitrina, anitrina,
siamo qui Giannino e Ghitina,
nessun guado e nessun ponte
portaci sulle tue bianche spalle».
L’anitra accorse e Giannino si sedette sulle sue spalle, e pregò la sua sorellina di attaccarsi a lui.
«No – rispose Ghitina, – sarebbe troppo pesante per l’anitra, essa ci farà passare uno dopo l’altro».
La buona bestiolina fece così e quando i due bambini si trovarono felicemente sull’altra riva, e camminarono un po’, la foresta diventava per loro sempre più nota e finalmente videro da lontano la loro casa paterna. Cominciarono allora a correre, entrarono dentro e si attaccarono al collo del loro padre. L’uomo non aveva avuto più un’ora lieta da quando aveva abbandonato i figli nella foresta; la matrigna intanto era morta.
Ghitina scosse il grembiule e perle e gemme saltarono intorno alla stanza; Giannino vuotò le sue tasche a manate piene.
Tutte le preoccupazioni ebbero fine da allora ed essi vissero insieme in grande gioia.
Il mio racconto è finito, là salta un sorcio, chi lo prende può cavarne una pelliccia grande grande.
Fine.
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TITOLO: Giannino e Ghitina
AUTORE: Antonio Gramsci
CURATORI: Fubini, Elsa e Paulesu, Mimma
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Favole di liberta / Antonio Gramsci ; a cura di Elsa Fubini e Mimma Paulesu ; introduzione di Carlo Muscetta. - Firenze : Vallecchi, 1980. - XXXIII, 164 p. ; 22 cm.
SOGGETTO:
JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti
JUV012030 FICTION PER RAGAZZI / Fiabe e Folclore / Generale