Coelidea è una bellissima donna sposata con il molto più anziano di lei barone Passio. Dal nome insolito al diminutivo “Dea” il passo è breve. Dietro l’amore travolgente tra la sempre sentimentalmente attivissima Dea e il nobile decaduto, travolto dai debiti di gioco, Carlo Valdena si dipanano le malignità, la curiosità, le maldicenze dei notabili e dei meno altolocati abitanti del paesino, localizzabile nella zona dei Volsci e quindi non estraneo alle esperienze giovanili dell’autore. Ma tutto si muove in uno scenario dove la corruzione e le indebite appropriazioni che Valdena, come regio rappresentante, era stato inviato per mettere a nudo nell’ambito dell’attività della locale Congregazione di Carità, sono la leva che l’autore adopera per rappresentare in maniera magistrale il clima morale e politico dell’epoca.

La collocazione temporale della narrazione è attorno al 1890, proprio l’anno nel quale la legge Crispi imponeva a ciascun comune l’obbligo di dotarsi di una Congregazione di carità. Tale istituzione, poi soppressa definitivamente nel 1937, prefigurava la pubblica assistenza gestita dallo stato e non era stata certamente accolta con giubilo dalle autorità ecclesiastiche che avevano visti requisiti i beni immobili delle proprie associazioni caritatevoli allo scopo di finanziare la nuova rete di carità pubblica. Quasi inevitabilmente questa opportunità di gestire e dispensare aiuti aveva già generato arricchimenti illeciti e sospetti, reti di clientele e di corruzione. Ma Valdena, a sua volta ricattabile e ricattatore – nei confronti di un cugino deputato che, appunto, favorisce l’incarico di regio commissario proprio nella zona dove raccoglie i consensi per il suo mandato – dietro la burbanza del burocrate nasconde l’abitudine al tirocinio del male e solo apparentemente si muove a disagio negli intrallazzi della politica locale, spesso in contrasto, pur con l’appartenenza a medesimi schieramenti, con quella nazionale.

Il lasciarsi travolgere dalla passione da parte di Valdena consente all’autore di fondere in maniera magistrale vari elementi narrativi; la critica e la satira sociale sfumano nei tratti macabri e di tensione introdotti da sentimenti travolgenti che la penna dell’autore non nasconde troppo di giudicare come torbidi. Pubblicato con il sottotitolo “Studio di vita provinciale” Dea Passio fu scritto nel 1907, apparve a puntate sulla «Tribuna» e raccolto in volume dall’editore Ricciardi nel 1910. Nel 1943 l’editore Apollon ne ha riproposto una riedizione manipolata e mutilata in direzione moralistica. Il testo di riferimento per questa edizione elettronica è, naturalmente, quello dell’editore Ricciardi, dove i refusi tipografici sono copiosi e sono stati corretti con estrema prudenza per non correre il rischio di non presentare al lettore il testo nella sua completa integrità originale, comprensiva di peculiarità ortografiche e lessicali.

Insieme ad altri romanzi di Ferri, questo testo è senza dubbio uno dei tentativi meglio riusciti di rappresentare in veste narrativa quel periodo importante della vita italiana che va dal 1880 fino alla vigilia del primo conflitto mondiale. E costituisce inoltre il primo passo del tentativo del progetto Manuzio di riproporre quanto più possibile ampiamente l’opera di un troppo presto e ingiustamente dimenticato Giustino Ferri.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

— Ecco la locanda della Posta. – disse il vetturino, fermandosi dinanzi a un portone dai battenti spalancati e dalla soglia consunta. Sopra uno dei battenti era sgorbiato col gesso un bamboccio di profilo: la pipa in bocca e il cappello di bersagliere. Quindi, per una brusca girata, il vetturino fece entrare nell’andito la carrozzella attorno a cui già si affrettavano quattro o cinque uomini poco e mal vestiti, per impadronirsi delle valige. Il forestiere fu costretto a fare un salto, se volle sfuggire al contatto di quelle mani sudice che si protendevano verso lui con gesti servili e sgarbati, meno per aiutarlo a scendere che per chiedere una mancia.
Sopravvenne un altro uomo, robusto e corpulento. Era in maniche di camicia, quantunque la stagione fosse già inoltrata verso l’inverno precoce dei luoghi montuosi. Il viso fortemente colorito, gli occhi iniettati di sangue con un grosso orzaiolo sotto il sinistro, le palpebre infiammate. Massicci baffi grigi gli invadevano lo spazio fra il labbro e un gran naso aquilino. Si avanzò gridando e, senz’ira, prese a lenti e formidabili scapaccioni quella marmaglia. Il vocione era tranquillo e profondo, l’accento quasi napoletano.
— Andatevene, questi pezzenti! Volete che il signore «smontasse»? Andate a lavorare, vagabondi! Prego, signore…
Il signore volgeva intorno un’occhiata poco soddisfatta per tutto il cortile dell’albergo della Posta. Era un rettangolo abbastanza spazioso in cui un avancorpo di costruzione recente sporgeva a guisa di L sdraiata e capovolta.

Scarica gratis: Dea Passio di Giustino Ferri.