Marianno
di
Italo Svevo
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I
Quando si domandavano a Marianno particolari della sua gioventù egli ben poco ne sapeva dire. Del suo soggiorno all‘Ospizio egli poco ricordava. La mente dovette aprirglisi il giorno in cui lasciò l‘Ospizio. Alessandro il suo futuro padrone vestito a festa era venuto a prenderlo ed egli lo ricordava come prometteva di aver cura di lui con quel suo sorriso bonario e affettuoso. Poi di quello stesso giorno ricordava qualche cosa d‘altro ma come parlarne quando non sapeva di chi si trattava? Ecco! Qualcuno staccandosi da lui aveva pianto. Egli che anelava di esser fuori di quel povero luogo era stato stupito al sentirsi bagnare la faccia da lagrime. Chi poteva aver pianto per lui? Egli stesso subito si mise a piangere e perciò ricordò con tanta precisione la sua partenza dall‘Ospizio e perciò dimenticò anche di guardare bene chi aveva pianto per lui. All‘Osteria facilmente si inventa e parlando di quel giorno della sua uscita dall‘Ospizio, Marianno raccontava che gli era stata consegnata una medaglia d‘oro che avrebbe servito a farlo riconoscere da sua madre. Egli poi l‘aveva venduta. Non c‘era di vero una parola. Vero era invece che quel giorno atteso con tanta impazienza aveva finito coll‘essere un giorno di lagrime.
Poi venne una lunga epoca grigia. Mamma Berta gli voleva bene ma nella casa non ricca egli occupava uno stanzino privo di finestre ove d‘estate si soffocava, nido di zanzare e d‘altri insetti. Mangiava polenta a sazietà condita da brodo di pesce o accompagnata da qualche pezzo di cacio. Il padrone Alessandro che aveva preso Marianno per farsi aiutare nella sua bottega di bottaio lo trattava con abbastanza umanità. Gli permetteva di venir a bottega più tardi ed anche nella giornata gli permetteva di prendersi qualche svago nella Calle con altri ragazzi della sua età. Nella bottega era solo col botte. Alessandro era un uomo sorridente che amava di raccontare barzellette e Marianno inconsciamente lo adulava fermando il lavoro e standolo ad ascoltare. Era bello cessare di squadrare doghe! Il coltellaccio gli pesava nella piccola mano! E del mestiere di bottaio non gli fu insegnato altro che squadrare doghe e segarle. Ne squadrò e segò a montagne di quelle grezze e nodose di resina. Alessandro era quarantenne e si vedeva invecchiare. Non avendo che una figlia aveva pensato di andarsi a cercare un aiuto all‘Ospizio. S‘era innamorato dei riccioli biondi e dei buoni occhi azzurri di Marianno. L‘aveva scelto come al mercato. Poi anche Berta per varii anni volle bene al fanciullo. E molti anni dopo Marianno ricordò una sua malattia e le cure che gli furono prodigate. Si rivedeva giacere esausto in un letto bianco nella stanza più luminosa della casa. Mamma Berta gli faceva degli impacchi alla testa scottante e Alessandro correva su ad ogni tratto da bottega a vedere come andava. Gli veniva accanto al letto col traversone di lavoro e gli raccontava barzellette per incuorarlo. Anche nella febbre Marianno sorrideva ma ogni parola che gli si diceva batteva sulla sua testa come il coltellaccio sulle doghe. Ma sorrideva e Alessandro chiamò Berta per farle vedere come sorrideva e Berta lo baciava dalla contentezza. Poi finalmente se ne andarono e Marianno veniva lasciato solo col suo delirio. Vogava solo in un sandolo popparino di quelli che esigono dal vogatore tanta forza e tanto equilibrio. Usciva da un rio stretto e arrivava al Canalazzo che il sole inondava di luce e di calore. E il suo sandolo correva come se egli gli avesse dato un impulso troppo forte o che l‘acqua lo trascinasse; egli sciava ma i suoi sforzi non servivano e presto gli sarebbe scappato di mano il remo. Un vaporino s‘avanzava proprio verso di lui e accanto al suo sandolo un gondoliere eretto e calmo sul suo remo diceva: «El voga inveze de tetàr». Marianno si mise ad urlare dallo spavento e dalla vergogna. Berta pronta si chinava a lui e per molti anni in famiglia si rise delle parole che Marianno aveva dette: «Aiuto! El remo me scampa de man!». A convalescenza finita Alessandro gli disse: «Mola el remo e tol el cortelazo!». Proprio dopo questa malattia ci fu una piccola ombra fra lui e la sua famiglia adottiva. Il ragazzino avrebbe amato di vedersi continuare le cure che gli erano state prodigate durante la sua malattia. Ma Alessandro aveva bisogno di lavoro. Il ragazzino che in dicembre al tramonto avrebbe voluto andare a casa aveva abbandonato la doga su cui lavorava e, copertasi la faccia con ambedue le mani, s‘era messo a piangere. Oh! com‘era bella la malattia e come i sani erano infelici perché dovevano lavorare. Anche Alessandro cessò di lavorare per tenergli una predica che non voleva finire più. Marianno era stato accolto in casa loro per pietà. Che cosa sarebbe avvenuto di lui se loro non ne avessero avuto pietà? Poi s‘era ammalato e loro lo avevano curato: Il medico aveva costato… tanto, le medicine… tanto e poi per tutto quel tempo Alessandro aveva dovuto squadrarsi le doghe da solo. È vero ch‘egli le squadrava meglio perché dopo due anni di pratica Marianno ancora non aveva capito di tener giuste le misure. E Alessandro tirava fuori un barile fatto con le doghe squadrate da Marianno prima della sua malattia e dimostrava che le doghe erano state segate fuori di posto così che la pancia del barile non risultava al centro.
Il ragazzino mostrò di comprendere e ritornò al lavoro. Della romanzina non serbò rancore; soltanto era stato un po‘ istruito sul proprio essere. In conclusione gli era rimasto nella coscienza l‘avvertimento che doveva lavorare per non farsi mandar via.
Egli amava Alessandro. Accanto a lui si sentiva sicuro nella sua debolezza infantile. Alessandro era tanto buono che diveniva anche più buono quand‘era ubriaco. Secondo la tradizione dei bottegai ciò avveniva al lunedì. Alessandro spariva nella mattina dalla bottega per una mezz‘ora. Parlava di aver bevuto un quintino ma a giudicare dall‘effetto doveva essere stato un quintino abbondante. Poi lavorava ancora per un paio d‘ore ma non sapeva tacere e Marianno per rispetto stava ad ascoltarlo col coltellaccio sospeso per aria sulla doga che non era mai finita. Alessandro raccontava della sua gioventù e come era stato per sei anni nella stessa classe. Aveva dunque studiato. Eppoi della sua mancanza di forza per cui era stato tutta la sua vita un uomo tanto pacifico. Gli era stato proposto una volta di metterlo in aceto perché acquistasse vigoria ma egli aveva rifiutato perché l‘uomo forte corre di grandi rischi. E giù tutta la sua esperienza di tutte le persone forti che aveva visto in pericolo trascinatevi dalla coscienza della loro forza. Quando c‘era una baruffa sulla strada i forti accorrevano mentre egli correva in casa ove era meglio protetto di tutti i forti di questa terra. E precisamente in quello stato di ebrietà Alessandro aveva costantemente sul labbro un sorriso di uomo sicuro e superiore. E la sua piccola faccina imbruttita da un paio di mustacchi radi neri e grigi arrossata dal vino diventava tutta malizia.
Adele la figlia di Berta era di qualche anno più vecchia di Marianno. Era carina tanto nel suo scialle nero troppo grande e pesante sulle spalle esili di quattordicenne. Marianno ch‘era entrato in casa a 12 anni s‘attaccò a lei di un grande affetto. Il suo visetto rotondo contorno dalla capigliatura ancora piccola fulva nereggiante coi piccoli occhi bruni di suo padre ma meglio tagliati di quelli era dolce a baciarsi. Dapprima essa si mise a proteggere il piccolo collaboratore di suo padre con arie di mammina pretenziosa, e talvolta tale protezione gli giovò. Così quando essa ammalò poco dopo la guarigione di Marianno e con manifestazioni che al dottore parvero simili a quelle del malore avuto dal giovinetto, ciò che gli fece credere che essa avesse preso la febbre da lui, mamma Berta sentì nel suo cuore materno un bisogno imperioso di vendetta e, in presenza dell‘ammalata, gli lasciò andare un ceffone seguito da un calcio che lo fece rotolare fuori della stanza. Egli se ne sarebbe andato grattandosi la parte lesa conscio della sua colpa, e senza lagrime, lieto che l‘ultimo colpo lo avesse portato al sicuro. Ma Adele febbricitante si mise a strillare come se i colpi li avesse ricevuti lei e bisognò che mamma Berta corresse in cerca di Marianno che s‘era nascosto e, con promesse di non fargli dell‘altro male, lo facesse uscire da un armadione vuoto in cui s‘era nascosto. Berta poi non tenne la parola data perché lo prese con tanta violenza per il braccio da lasciargli dei segni e lo gettò sul letto di Adele. E i due giovinetti piansero insieme. Adele agitata dalla febbre non arrivava più a fermarsi; supina, con una manina nei ricci di Marianno si vuotava addirittura di lagrime. Marianno poi che così restava scoperto ad altri colpi esagerava il suo pianto ma questo era prodotto proprio dal rimorso di aver fatto tanto del male alla sua piccola mammina.
Lo fece ricredersi Alessandro che arrivò a casa un po‘ brillo e perciò ancora più buono del solito. Fu dapprima commosso della bontà di sua figlia eppoi enormemente irritato dalla brutalità di sua moglie. E non la finiva più! Quando era ubriaco parlava per via di esempi. Proponeva alla moglie di figurarsi che la malattia avrebbe còlta lei invece di Marianno. Chi l‘avrebbe picchiata allora? E se ne fosse stato colto lui chi avrebbe picchiato lui? Lui che non si lasciava picchiare da nessuno.
Era un impeto di bontà che lo rendeva eroico perché di solito e specialmente quando era cibato soleva usare dei grandi riguardi a mamma Berta tanto più che costei con certi affarucci di pegni rappresentava una parte abbastanza importante del reddito della famiglia.
Stizzita mamma Berta uscì dalla stanza e nell‘uscire lo spinse in modo ch‘egli traballò e finì seduto su una sedia che per fortuna gli era vicina. Là – per prudenza – stette ma non tacque. E così Marianno fu reso edotto per lungo e per largo del grande torto che gli era stato fatto ciò che lo commosse profondamente. E pianse ancora sul petto di Adele: «Io non avevo voluto farle del male. Se lo avessi saputo non avrei mai accettato ch‘ella venisse accanto al mio letto». E Alessandro che aveva trovato uno sfogo al suo vino s‘intenerì sulla bontà di sua figlia e sull‘innocenza di Marianno.
La giornata terminò bene. Il dottore disse di trovar Adele priva di febbre. Era giusto che Marianno ch‘era stato punito per la malattia di Adele fosse anche premiato per la sua guarigione. Mamma Berta con l‘aspetto di cedere alle preghiere di Alessandro e di Adele si chinò su Marianno e gli diede un bacio. Gelido bacio! E Marianno pensò:“Ho vinto io, ma tu non mi vuoi bene!“.
La vita lascia solchi meno profondi di quanto si creda, o almeno essa procede come l‘aratro; il solco nuovo cancella l‘antico. Quel giorno mamma Berta non gli aveva voluto bene ma essa gli dava il soldino quando aveva bisogno di lui per correre fuori d‘ora per un acquisto o per un‘ambasciata. Alessandro invece gli voleva bene ma i pochi soldini che aveva in tasca li beveva tutti. Ora finché durò quel suo affetto infantile e sommesso per Adele i soldini che gli venivano dati da Adele erano tutti impiegati col massimo entusiasmo per comperarle dei dolci. E questo egli ricordava anche negli anni più tardi. Ricordava la lunga calle tortuosa ch‘egli percorreva col piccolo passo rumoroso dei zoccoletti. Aveva 15 cent. in tasca e calcolava che avrebbe potuto spenderne 10 e conservarne 5 per girarli per qualche giorno nella sua tasca. La venditrice nella piccola botteguccia, inforcava gli occhiali e metteva sulla stadera un minuscolo mucchietto di dolci. Già voleva metterli in una carta quando Marianno rapidamente deciso tirava fuori gli ultimi suoi cinque centesimi e faceva aumentare la quantità di dolci. La vecchia stizzita aggiungeva meno di quanto, secondo Marianno, gli sarebbe stato dovuto e allora Marianno discuteva: Dieci centesimi avevano prodotto tanto; cinque dovevano dare la metà in più. La vecchietta aggiungeva qualche altro pezzetto di zucchero e allora Marianno volava a casa aspettandosi a una esplosione di gioia della sua mammina. Essa era la più assennata: Dava qualche pezzettino di zucchero a Marianno e si limitava anche lei a mangiarne pochissimi. Lo slancio di generosità e d‘affetto che aveva indotto Marianno all‘acquisto dei dolci, nei prossimi giorni diminuiva. Due o tre volte riceveva un pezzettino di zucchero e presto non ce n‘era più. Con una certa amarezza Marianno constatava che la sua amica doveva aver finiti i dolci da sola. Poi la mammina s‘era abituata sull‘esempio della madre a menar anch‘essa le mani e Marianno si ribellò. Gli schiaffi che provenivano da mamma Berta gli sembravano abbastanza legittimi; quelli di Adele lo indignavano ed un giorno li restituì con usura. Mai Adele avrebbe supposto tanta forza a Marianno cui l‘uso continuo del coltellaccio aveva reso muscoloso il braccio. Adele ebbe per varii giorni una guancia enfiata. Berta naturalmente intervenne a tutto danno di Marianno ciò che spiacque ad Adele che amava di picchiarlo ma non di farlo picchiare da altri. E il suo pianto riconciliò i due giovini. In complesso non c‘era nulla da rilevare nei loro rapporti. Già nella prima infanzia il sesso getta la sua grande ombra ed essi non seppero perché tanto di frequente si mettevano le mani addosso. Adele ricordò di aver picchiato con piacere colui ch‘ella riteneva un intruso in casa. Marianno raccontò a chi voleva starlo a sentire che aveva sofferto di orribili persecuzioni in casa Perdini. Era stato picchiato persino dalla piccola Adele.
Perché divenuto grandicello nella mente di Marianno nacque infine il concetto ch‘egli era una vittima. Nella calle ove abitava conobbe un giovinetto della sua età certo Menina il quale lo condusse a casa sua da sua madre. Costei aveva certo desiderato di conoscere il nuovo amico di suo figlio. Lo aveva visto passare per la Calle ed era rimasta stupita di vederlo tanto biondo e bianco. Marianno non era ancora entrato nella cucina a piano terra che già la Teresa abbandonato il suo bucato e il suo mastello s‘era messa a compiangerlo perché non aveva conosciuto né padre né madre. «Poveretto! Mai non aveva vista sua madre, proprio mai?». E il piccolo Menina (questo era il nomignolo che si eredita dal padre come il nome di famiglia) s‘intenerì anche lui. La faccia oblunga e gialla con due occhietti da giapponese contornati da rughe prodotte da quello sforzo per vedere per cui vengono tesi dei muscoli vicini che non servono, i capelli ricci come quelli dei mori, il corpicino esile, Menina non avrebbe dovuto compiangere il forte e bel Marianno. Ma come si fa a non compiangere chi non aveva neppur conosciuta la propria madre? E Menina aveva un‘aria di protezione che commoveva Marianno. Si battevano qualche volta per quistioni di giuoco sulla via e regolarmente Marianno lo stendeva a terra e lo picchiava come se fosse stato un cerchio di barile. E il povero Menina si rialzava diceva di non aver visto, di essere scivolato e così via. Ma poi concludeva con un‘aria di comica ragionevolezza: «Già il torto l‘ho io che ho voluto picchiare te che non hai madre». E affettuosamente tirava a sé il bel giovinetto biondo della cui amicizia andava superbo. Certo l‘influenza di Menina non fu buona perché mise in bocca a Marianno delle parole che resero più fredde le sue relazioni con mamma Berta. Ma questa mancanza di madre non fu sentita che quando egli si trovava accanto ad Adele la quale per avere una madre aveva anche un destino migliore del suo. Infatti Adele passò la convalescenza per metà della giornata nel suo lettino addobbata degli ori della madre, il manin, di oro di zecchino al collo, i grandi orecchini di oro alle orecchie, tutta lucciante insomma come una Madonnina. E Marianno in un momento in cui voleva meno bene ad Adele disse a Berta di ricordare che la propria convalescenza era stata altra. Mamma Berta infuriò contro il piccolo sfacciato concorrente di sua figlia e con la sua lingua viperina confermava le teorie dei Menina. Alessandro a bottega lo rabbonì. Non si trattava di avere madre o di non averla. Si trattava di nascere maschio o femmina. Gli uomini facevano la convalescenza in bottega e le babe in letto. Guardasse Menina che ritornava ogni sera a casa coperto di catrame dal piccolo cantiere ove era impiegato; anzi di quel catrame non arrivava a liberarsi mai. Il loro mestiere era ben migliore perché almeno le doghe non andavano a coricarsi con loro e restavano ad aspettarli in bottega. Marianno non era tanto d‘accordo nell‘elogio del loro mestiere e guardava sconsolato il monte di doghe che lo aspettava e che non voleva andar via. Ce n‘erano di quelle piene di nodi sui quali il coltellaccio sonava come sulla pietra, altre avevano la venatura alternata e abbisognavano di colpi ripetuti in tutti i versi per assottigliarle e ce n‘erano di quelle che parevano regolari e invece il coltellaccio le divideva fuori di posto lasciando Marianno che pur aveva calcolato il colpo stupito e malcontento. E del resto quand‘erano battute emettevano una polvere di resina che impiastricciava la faccia e metteva in bocca un sapore amaro da cui era difficile liberarsi. Il mestiere di Menina doveva essere più gradevole. Certo più bello di tutti era il mestiere del frittolino ed egli giacché non aveva madre avrebbe voluto nascere figlio di quella che aveva la bottega vicino alla loro Calle e smerciava ogni giorno quintali di polenta e quintali di pesce fritto.
Ma insomma mamma Berta gli dava poco da fare tutt‘al più qualche boccaccia quando gli volgeva le spalle. Ricordò invece un problema che lo occupò intensamente per qualche giorno tanto che non dimenticò più l‘ansietà con la quale lo studiò. Mamma Berta gli diceva sempre ch‘egli era cattivo mentre Alessandro e Adele gli dicevano ora ch‘era cattivo ed ora ch‘era buono. Un giorno fra doga e doga egli si domandò:“Sono io cattivo o buono?“. Non pensò neppure per sogno ch‘egli avrebbe potuto essere quello ch‘egli voleva. No! Si era cattivi o buoni come si era cane o gatto. Il curioso era ch‘egli non pensò di esaminare alcuna sua azione per vedere se era cattivo o buono. Teneva il coltellaccio inerte nella destra e pensava. Tentava di guardare se stesso come ci si guarda in uno specchio. Naturalmente vedeva di sé la grandezza, la grossezza e il colore ma non altro. «Vuoi andare avanti?» gli gridò Alessandro. E allora Marianno con gravità infantile gli disse esattamente i suoi pensieri: «Mamma Berta dice sempre che sono cattivo, Adele e tu lo dite talvolta. Sono io cattivo o buono?». Alessandro si mise a ridere: «Quando uno è arrabbiato con te e ti dice cattivo, non devi credergli. E se ti dice buono quando gli hai fatto un favore, non devi credergli neppure». Poi Marianno lavorò in silenzio su varie doghe e finalmente scoperse che non gli era stata data una risposta precisa: «Ma io sono cattivo o buono?». Alessandro si stizzì perché vide che il lavoro non procedeva: «Sarai buono se arrivi a tagliare molte doghe!». E Marianno dovette sorridere. Nella prima gioventù ogni sorriso pervade le più intime fibre e qualunque pensiero ne viene interrotto. Poi, a casa, a cena, Alessandro infocato e reso più geniale per il vino, ritornò sull‘argomento. «Quando mamma ti dice cattivo devi crederle e devi credere quando io ti dico che sei buono! Devi vedere con chi parli. E quando io cambio di parere e ti dico che sei cattivo devi credermi pure! Si è cattivi o buoni anche secondo l‘orologio. Devi guardare anche quello!». E tirò fuori il suo orologio d‘argento di cui andava superbo. «Ecco! Ora che mangi sei buono! E quando dormi, poi!». Ma Marianno col naso nel piatto al problema non ci pensava più. Trascorsero molti anni prima ch‘egli arrivasse a comprendere l‘importanza della domanda ch‘egli si era rivolta.
E ci furono altri istanti di serietà nella sua piccola mente che doveva intorpidirsi nel lavoro manuale. La piccola Adele passava la giornata insieme ad altre sue coetanee presso una maestra che le insegnava a cucire ma anche leggere, scrivere e far di conti. Mamma Berta pagò per un anno intero quindici lire al mese per compiere l‘educazione della figlia; e se ne vantava dimenticando di dire che in quelle quindici lire era compresa anche la spesa per la colazione. Ma insomma così venne qualche libro in casa e Marianno non dimenticò quel poco che aveva appreso all‘Ospizio. Ricordò sempre l‘impressione che gli aveva fatto un libro di lettura che Adele e lui lessero da capo a fondo più volte. Era la storia di un ragazzo che aveva dato grandi dispiaceri a suo padre e che poi aveva voluto avere prontamente la sua parte d‘eredità e con quella s‘era allontanato dalla casa paterna. In poco tempo a forza di giuoco e di altre cose che il libro non diceva, era rimasto privo di tutto. Poi col dolore era venuto il pentimento ed egli s‘era dato al lavoro indefessamente. Prima come manuale; poi inventò una macchina e con quella guadagnò milioni. Naturalmente quando ritornò con tutti quei denari al padre, costui lo accolse molto bene. E tutti furono felici. Questo fu il libro che si convertì nella mente giovanile di Marianno in tanto sangue. Perché la carta stampata racconta la vita ma ne crea una e del tutto diversa ed è per essa in primo luogo che accanto alla vita di tutti, comune, grigia, c‘è la vita del più importante uomo dell‘universo, se stesso. E l‘occhio giovanile che toglieva dalla carta stampata il puerile racconto brillava come se assistesse alle vicende dell‘eroe. Quelle lettere allineate con tanta regolarità procedevano come il tempo, inesorabili; e si arrivava lentamente a sentire come il giovine si fosse ingiustamente ribellato al vecchio e come poi col lavoro l‘ingiustizia fosse stata cancellata. E quando si tornava a leggere era doloroso di non poter intervenire e gridare al giovane: «Bada, ti pentirai!». Una pagina seguiva all‘altra e non si poteva influire sugli avvenimenti quantunque mai appartenessero al passato. Diventavano passato solo quando il libro era finito e chiuso.
Così il piccolo operaio che fino ad allora aveva fantasticato sulle storielle che gli aveva raccontato Alessandro, piccole storielle che correvano le Calli, di tiri bricconi fatti ai vigili o di risposte salaci che il bottaio con tutta ingenuità attribuiva a se stesso anche quando le aveva sentite da altri, ora non contava più le doghe che tagliava per arrivare a sera. Quell‘uomo di cui aveva lette le avventure egli lo amava più che non amasse il Menina o lo stesso Alessandro o persino Adele. Perché quell‘uomo di cui aveva letto poteva essere lui stesso. Perché non avrebbe potuto andare da suo padre e carico di milioni farsi amare e ricevere con feste? Fu da quel libro ch‘egli per la prima volta apprese a dolersi del proprio destino. Gli pareva che l‘unico ostacolo per fantasticarsi con qualche fondatezza nella posizione di quel suo eroe era il fatto ch‘egli non conosceva il proprio padre. Come faceva a immaginare quel padre?
E come al solito smise di battere doghe per indirizzarsi ad Alessandro: «Chissà che mestiere fa mio padre?» rifletté. «Sarà un poltrone come te!» scherzò Alessandro. Ma vedendo che Marianno, deluso di non trovare un appoggio in lui per le sue fantasticherie, faceva un viso triste esclamò: «Una figura ludra el deve esser de zerto». Una figura ludra era già una descrizione e Marianno che si raccontava il proprio futuro vedeva come dopo conquistato il milione andasse a portarlo a quella figura ludra di suo padre, un ubriacone come il padre di Menina. Tanto lui che il milione venivano accolti molto bene e il padre anzi smetteva subito la figura ludra.
Un‘altra volta e sempre suggerita da quel libro Marianno ebbe un‘altra idea: «Perché non inventiamo una macchina per tagliare doghe?». Alessandro lo guardò stupito dall‘originalità dell‘idea. Poi protestò: Tutto a questo mondo si poteva fare a macchina ma tagliare quella sorta di doghe non poteva altra macchina che quella che ha occhi e senno. (Vedi che tu non ne hai abbastanza.) E i bitorzoli e la venatura? Chi la vedrebbe e come sarebbe corretta? Sì! Si deve fare non una macchina ma centinaia di macchine per tagliare doghe. Bisognerebbe prima guardare la doga e poi scegliere la macchina. Dapprima esitante Alessandro aveva finito col convincersi che l‘idea di Marianno era balorda. E lo seccò per varii giorni anche a casa per quell‘idea di costruire una macchina che lo esonerasse di far altro a questo mondo. Mamma Berta gli dava dello stupido; Adele ne rideva come di uno che avesse pensato di asciugare il mare. Finì che Marianno si vergognò e protestò di aver parlato per ischerzo. Ma non trovò grazia. Ed anzi la sua macchina ch‘era stata intesa a tagliare delle doghe resistenti, finì coll‘essere una macchina per creare le doghe. E quando Alessandro prendeva da sua moglie i denari per andar a comperare le doghe, diceva sempre a Marianno: «Peccato che non c‘è la tua macchina».
L‘istruzione che veniva impartita ad Adele gli giovò per altri versi. La sua passione erano i“conti“ come egli li chiamava. La matematica era debole in famiglia di Alessandro il quale quando comperava doghe o vendeva barili si aiutava col libro dei conti fatti, sbagliando talvolta di grosso per lo spostamento di una riga. Marianno presto seppe fare le moltiplicazioni ed anche la prova; tanto che il libro dei conti fatti poté esser messo via. E il suo pensiero si giovava del facile trionfo avuto nella bottega del bottaio per nuovi sforzi. Adele era stupita di vederlo sciogliere con facilità i compiti che a lei parevano insolubili, le più lunghe moltipliche e le più complesse divisioni. Ma Marianno sognava anche matematica. Il numero uno egli lo personificava e lo vedeva meno mobile degli altri. Moltiplicava e divideva un numero lasciandolo inalterato; diventava importante solo quand‘era lasciato a sé o seguito da zeri o quando si sommava o si deduceva. Il numero due aveva la sua personificazione in una pagina su cui si scriveva un numero con l‘inchiostro e si piegava in due per riprodurlo esattamente sull‘altra parte. Ma non occorreva un numero, bastava anche una figura e il numero due da quell‘operazione nasceva. E nel due egli vedeva l‘uno senza del quale non sarebbero esistiti altri numeri. Egli guardava i numeri nelle doghe. Quando arrivava a farne più di quante Alessandro ne consumasse egli le distribuiva bellamente in cubo. Alla base ne metteva dieci e poi lavorava presto per vedere elevarsi il mucchio e contarle. Così, a occhio, finì col saper calcolare la quantità di doghe preparate contando soltanto i tre lati. Era già un bel progresso. Poi egli apprese a fare delle scoperte meravigliose. Intanto quando aveva da moltiplicare per nove sapeva facilitarsi il compito moltiplicando due volte per tre. Si fermò per lungo tempo su tale scoperta ma poi seppe procedere e scomporre qualunque moltiplicatore. E queste scoperte svegliavano la giovine mente ne erano il cibo tanto nutritivo perché accompagnato dallo sforzo della conquista. Adele vedeva le decimali come una cosa nuova che bisognava studiare come se fossero del tutto differenti dalle unità. Egli subito comprese ch‘erano la stessa cosa pensata in altro modo e passava con piena facilità dalle frazioni alle decimali. La doga era una unità un po‘ dura e pesante e più oltre egli non arrivò. Egli presto scoperse di sapere più e meglio di quanti lo contornavano e questa scoperta contribuì a fargli cessare i suoi sforzi. Continuava a baloccarsi con quanto sapeva ma non tentò di procedere. Gli mancava ogni visione della via da percorrere. Neppure la maestra di Adele a quanto raccontava la fanciulla sapeva fare le moltipliche con la rapidità di Marianno; dunque egli era arrivato alla meta.
La monotonia della vita di bottega era interrotta da una o due gite che si facevano ogni mese per andare a prendere doghe e cerchi. Alessandro vogava sulla grossa buria a poppa. Non dirigeva bene la barca e dov‘egli passava sorgevano quistioni. Egli che non voleva mai intendere le ferree regole del rio si meravigliava che con lui tutti volessero aver ragione. Già! Lo vedevano debole! In barca si sentiva abbastanza sicuro ed era anche capace di lanciare delle insolenze, un po‘ masticando ma le diceva. Aveva in certo qual modo la convinzione che nei rii non si potesse procedere senza bestemmiare. Quello che non aveva capito era che per procedere bisognava anche vogare pur essendo a poppa. Egli si spingeva da un palazzo all‘altro con le mani o coi piedi e il remo si moveva proprio soltanto quando le sue membra non servivano.
Marianno vogava ma senza troppo affannarsi. Egli non amava quella gita. Preferiva le Calli affollate ai rii deserti e guardava con desiderio la folla di gente che passava sui ponti. Le due città di cui una lieta e affollata e l‘altra triste e dura s‘incontravano per brevi tratti. Il silenzio del rio era interrotto bruscamente da una fondamenta rumorosa o da un ponte ch‘era parte di un‘arteria principale e come la barca s‘allontanava da quel punto si ritornava al silenzio interrotto dalle bestemmie di qualche gondoliere cui la barca di doghe dava noia.
Poi si arrivava al rio deserto in vicinanza della bottega. Alessandro respirava. Marianno legava la barca e s‘improvvisava un ponticello alla riva. Il trasporto delle doghe si faceva su un piccolo carretto a una ruota. Quand‘era colmo, Marianno lo spingeva a bottega traverso una calle stretta e deserta ove i suoni si prolungavano per un‘eco. Per far presto, nella bottega, Marianno ribaltava in un canto il carretto e ritornava alla barca non senza aver avuto il pensiero matematico che ogni catasta di doghe in lui destava:“Quanti lati di una simile catasta dovrei contare per sapere la quantità di doghe?“.
A notte la barca era vuota e bisognava riportarla. Una volta accadde che durante lo scarico della barca Alessandro trovò il modo di ubriacarsi. Da uomo prudente anche quando era ubriaco rifiutò di stare a poppa e così avrebbe dovuto starci Marianno che non aveva idea del lavoro tutt‘altro che semplice che bisognava fare a poppa di una barca per dirigerla. Per fortuna passò di là Menina e i due ragazzetti si misero a vogare. Menina trovava dolce di poter insegnare lui qualche cosa a Marianno e gli dava istruzioni. Alessandro era tutto vivo eccitato, beato di essersi liberato dal remo. Correva da uno all‘altro a far confusione. Diceva che se lui fosse stato a poppa la barca sarebbe andata meglio ma lui certo peggio; perciò lasciava che Menina si divertisse. Menina veramente aveva calcolato su qualche centesimo di mancia ma non volle farlo vedere. Tanto più volle compensarsi con istruzioni esagerate a Marianno. Egli sapeva dirigere una barca ma un po‘ per la sua vista corta e un po‘ distratto dalle troppe istruzioni che voleva impartire lasciò andare la prora contro un ponte. La corrente fece il resto e la barca andò ad ostruire il passaggio sotto il ponte fermando una gondola ed una barca. Incominciarono a udirsi le solite recriminazioni aumentate perché dall‘alto del ponte alcuni buontemponi si misero a gridare contro i due fanciulli che, svergognati, facevano del loro meglio per liberare la barca. Alessandro non fermava mai la sua chiacchiera. Per calmare il gondoliere gli offriva di andar lui a terra a portare qualunque ambasciata che avesse voluto. L‘ubriaco parlava sul serio. Si offriva di andar dalla moglie del gondoliere – era certo che dietro di quell‘impazienza doveva esserci una moglie furiosa – a testificare che quella gondola era stata fermata in quel Rio dalla barca del bottaio Alessandro Perdini, quel bottaio che aveva bottega in Calle…
Il gondoliere disarmato si mise a ridere e, libero da ogni paura, rise anche Alessandro. Non era mica tanto brutto – diceva – di passare il tempo sotto di quel ponte. Se avesse cominciato a piovere si poteva rifugiarvisi di sotto naturalmente quando la barca del bottaio Perdini fosse andata per la sua strada. Eppoi perché arrabbiarsi che si poteva correre il rischio di avvelenarsi di fiele?
L‘unico inferocito era Menina che spingeva la prora di qua e di là senza arrivare a liberarsi. «El tasa» gridò ad Alessandro. «No ‘l vede che ‘l ne fa perder le forze co le so ciacole?».
Alessandro, di Menina poi non aveva paura. Gli disse un paio d‘insolenze prima a bassa voce, poi – vedendo che non gli capitava niente di male – addirittura urlando. E dall‘alto del ponte ci si divertiva. «Ciò, fioi, dove mené quel matto?». Alessandro pareva fuori di senno. Aveva levato il berretto perché si sentiva caldo alla testa. Così con la faccia congestionata e i capelli grigi e arruffati pareva una maschera. Spiegava a Menina ch‘egli era stato in barca quando lui non aveva ancora neppure aperto un occhio. Ma le interruzioni dall‘alto lo lasciarono perplesso. Evidentemente, di lassù gli poteva capitare qualche cosa sulla testa e non bisognava offendere quelli che occupavano quella posizione favorevole. Spiegò loro che per far piacere a Menina gli aveva ceduto il posto a poppa e che n‘era rimeritato così: adesso lasciava che i ragazzi si levassero d‘impaccio da soli. Così avrebbero imparato. Era strano che la prudenza accompagnasse Alessandro anche nella sbornia. Una giovine donna gli gridò: «No ‘l se vergogna de lassar sgobar i fioi?». «Cara, cara!» mormorava Alessandro per rabbonirla e per guadagnare tempo. Poi ebbe un‘idea: «Go lassà le done e la vol che me dedica alle barche?». Il riso fu ora tutto in favore di Alessandro il quale s‘assise sul banchetto per riposare e, privo d‘idee, ripeté pur di non star zitto la sua ultima frase.
Infine la barca si svincolò quando l‘altra barca e la gondola si ritirarono. Allora procedette attraverso allo stretto Rio con la prora innanzi. Si camminava piano e nel tepore del vino e del giugno Alessandro s‘addormentò.
Di quell‘epoca a Marianno che passava tutto il suo tempo in bottega e nelle strette Calli non rimase alcuna impressione sia di bellezze naturali che artistiche. Quella sera nella luce crepuscolare sentì la bellezza modesta e persino rustica nella sua serietà del vasto Rio di Noal. Fu un‘impressione di pace e di sollievo nel giovinetto cuore. Non parlò mai di quel Rio perché a lui parve che quel sentimento fosse stato ispirato unicamente da un suo speciale, felice stato d‘animo.“Come sono bello!“ pensò.
Poi lui e Menina decisero di lasciare Alessandro a smaltire la sua sbornia in barca e s‘allontanarono rincorrendosi nelle Calli tanto più oscure del vasto Rio.
II
Da un giorno all‘altro Alessandro restò privo di lavoro. Era una cosa inaspettata perché la bottega che Alessandro aveva ereditata da suo padre non aveva mai mancato di lavoro. In complesso già pel padre il cliente maggiore era stato un grande esportatore di perle di Murano. La bottega poi forniva dei mastelli alle case del rione, lavoro che aveva avuto qualche importanza prima della costruzione dell‘Acquedotto ed ora non ne aveva alcuna.
Un giorno capitò da Murano un impiegato della fabbrica ad avvisare Alessandro che intendevano di non prendere altri barili avendo finalmente scoperto che l‘impacco buono per le perle era la cassa.
Anche questa scena rimase impressa a Marianno. Il povero Alessandro non arrivava a capire bene. Dubitava della verità della comunicazione. Aveva i sudori freddi alla fronte. Volle mostrarsi disinvolto e ironico: «Gavé trovà el modo de far rodolar le casse?». Poi però sentendo che gli minacciava un colpo andò ai suoi ordigni in fondo alla bottega e disse a Marianno di parlar lui perché egli cominciava a non capire più niente. «No segàr quella doga perché no ghe ne gavemo più bisogno!».
Marianno che aveva allora quattordici anni si mise di buona volontà a parlare con l‘impiegato. Egli non intendeva bene l‘importanza che Alessandro attribuiva alla comunicazione del loro cliente. Si figurava che a questo mondo si sarebbero fatti sempre dei barili, nel modo che li facevano loro; anzi il difetto era che il mondo ne domandava troppi di barili.
L‘impiegato, un giovinotto cortesissimo però più disposto a ridere che a piangere ripeté volentieri la sua missiva a Marianno che sorrideva anche lui incantato di vedersi divenuto uomo d‘affari.
Marianno aveva capito e gli pareva che non ci fosse nulla a ridire. La ditta di Murano non voleva altri barili; perciò non bisognava dargliene altri. Si rivolse al padrone per vedere se volesse suggerirgli qualche cosa.
Alessandro sentì il bisogno di arrabbiarsi e se la prese con Marianno che non intendeva quale torto enorme fosse fatto alla bottega. Dopo ch‘egli aveva servita la fabbrica per più di mezzo secolo veniva gettato in disparte come un ferro consumato. E chi avrebbe pagato l‘affitto della bottega per i varii mesi che l‘affittanza durava?
L‘impiegato alzò le spalle. Bisognava discutere col suo principale. Egli non c‘entrava né punto né poco. E se ne andò.
Alessandro corse a casa a consultarsi con la moglie. Mamma Berta era la sola in casa che potesse dare un buon consiglio. Si vestì, si addobbò e accompagnò il marito a Murano dopo di aver contati i barili già fatti, le doghe tagliate e – separatamente – quelle non ancora tocche. Prima di lasciare la bottega diede ordine a Marianno di continuare a lavorare ad onta che Alessandro pretendesse che la doga tagliata non si poteva più vendere. Essa ottenne infatti che la fabbrica avrebbe preso tutto il materiale ch‘era in bottega e seppe nella giornata stessa far venire una bella colma barca di doghe così che il lavoro si prolungò per un mese intero.
Un mese intero! Mamma Berta lo passò vantandosi del suo successo, Alessandro lavorò come prima non omettendo di far festa ogni lunedì. A Marianno parve interminabile. Era pieno di curiosità di sapere quello che avrebbe fatto quando avrebbe finito di tagliare l‘ultima doga.
Un bel giorno Alessandro venne a bottega e trovò che Marianno gettatosi supino sul mucchio di doghe cantava a gola spiegata. «Perché non lavori?» gli domandò stupito.
«Non ho più doghe!» disse Marianno.
Alessandro si congestionò come quando quell‘impiegato era venuto a dargli la grave notizia. Era un nuovo, nuovissimo colpo.
«Andiamo da Berta» disse risoluto.
Mamma Berta fu anche lei stupita di vedersi così presto fuori del suo successo. Essa aveva calcolato su un mese intero di tempo non ricordando che il lavoro di Marianno precedeva di molti giorni quello di Alessandro. Si rimandò la decisione a qualche giorno appresso. Intanto Marianno avrebbe aiutato Alessandro nel suo lavoro. Era però difficile di aiutare Alessandro che con la sua piccola mente era incapace di deviare di un solo movimento dal suo lavoro solito. Finì ch‘egli intendeva la collaborazione così: Dava i suoi ordini a Marianno e poi usciva di bottega ma non sempre andava a bere perché Berta non gli lasciava i denari necessari. Così lavorava sempre uno o l‘altro in bottega. Ora soltanto Marianno apprese a mettere insieme un barile. Alessandro cercava di dargli delle istruzioni teoriche ma le interrompeva arrabbiandosi con se stesso: «Insomma i barili non devono spandere o almeno non avere dei buchi pei quali possano passare delle collane di perle». E, cessando da ogni istruzione, si metteva a rifare il barile intero. Così passarono gli altri 15 giorni e Alessandro di nuovo apparve di essere colto alla sprovvista. Si congestionò e corse da mamma Berta. Mamma Berta non volle prendere subito una decisione e andò a consultarsi con una sua comare che abitava in una calle vicina. Poi ritornò in bottega ove i due uomini l‘aspettavano e comunicò quanto aveva deciso: Per Marianno si sarebbe cercato un altro impiego e Alessandro sarebbe rimasto a bottega a tentare di guadagnarsi“el polentin“ facendo dei mastelloni per bucato. Intanto Alessandro e Marianno dovevano andar a comperare un paio di quei barili da petrolio che si segavano in due per fare di quei mastelloni. Alessandro fu subito tranquillo.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Marianno
AUTORE: Svevo, Italo
CURATORE: Contini, Gabriella
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: I racconti / Italo Svevo ; Introduzione di Gabriella Contini ; Presentazione di Claudio Magris; Milano : Garzanti, 1985 – XXXVIII, 597 p. ; 18 cm – (I grandi libri Garzanti ; 319)
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti