L‘avvenire dei ricordi
di
Italo Svevo
tempo di lettura: 13 minuti
Un paese lontano dall‘Italia e da Trieste. Roberto ricordava meglio che il paese stesso, la crisi che ce l‘aveva portato. Cioè l‘enorme viaggio. Verona! Un omnibus d‘albergo dalle grandi finestre e anche due specchi adorni che cantavano come il veicolo sobbalzava sull‘acciottolato. Ricordava l‘arrivo e la partenza e non il soggiorno, probabilmente una notte dal sonno profondo dopo la giornata di ferrovia. Poi ricordava il Brennero ed un inglese che spiegava a lui bambino in pessimo italiano che a piedi si avrebbe potuto raggiungere più presto la cima della montagna che con la ferrovia la quale vi si arrampicava con giri enormi. Poi Innsbruck e la neve, solo la neve senza un solo profilo di casa. La notte passata ad Innsbruck non esisteva più di quella di Verona.
Certamente dopo Innsbruck molte ore dopo la partenza dovette essere avvenuta una scena che il vecchio uomo ritrovò nel ricordo: un proprio scoppio di pianto violento e padre e madre che volevano frenarlo e addolcirlo. Un grande dolore, la scoperta di una propria inferiorità. Il padre che si preparava a lasciarli soli nel collegio voleva cominciare subito con l‘organizzare la vita dei due bambini. Armando, che aveva tredici anni, avrebbe dovuto dirigere Roberto che ne aveva solo undici e mezzo. Fino ad allora certamente non era stato così e da ciò la stupefazione e il dolore di Roberto. Perché Roberto era violento e veramente Armando s‘era piuttosto lasciato dirigere da Roberto. Venivano inviati in collegio proprio per domare Roberto che appena messo il naso fuori del nido s‘era dimostrato troppo forte per la debole madre (forse già allora malata?) e per il padre occupato il giorno intero nel suo ufficio. Il piccolo omino aveva trovato subito delle compagnie che non facevano per lui. Il padre e la madre non sapevano che cosa egli faceva nelle lunghe ore in cui non era né a scuola né a casa. Sapevano che si vergognava dei vestiti nuovi e che faceva del suo meglio per renderli subito stracci, che fumava e che sapeva una quantità di brutte parole. Le raccoglieva anche nei libri e sapeva della Divina Commedia tutte le parole sconce e solo quelle.
La madre tentò di calmare il grande dolore e anche il padre. Incombeva su di loro la grande lunga separazione e avrebbero voluto fosse dolce.
Kufstein! Una lunga sosta su una stazione di molte piattaforme all‘aperto accanto ai bagagli deposti a terra. Fa freddo ad onta che si sia in Giugno. Dio sa che ora della giornata sia. È inutile ricercarlo perché il ricordo lontano non conosce tanta esattezza. Alba o tramonto o forse mezzodì di un giorno tutto penombra. Chissà? Forse quella giornata aveva il sole sbiadito dalla lontananza nel tempo.
Curioso! Non fu obliato quel soggiorno su quella piattaforma non riempito da nessuna parola, nessun avvenimento memorando. Ma può essere che Roberto avesse sentito di aver varcato le Alpi e di trovarsi al di là della muraglia che chiudeva la sua patria. Egli sapeva anche in quale direzione sarebbe continuato il viaggio, verso quella vasta interminabile pianura su cui vedeva sorgere qualche collina molto regolare come in un disegno ingenuo forse anche questo semplificato dalla memoria imperfetta che aveva lasciato crollare i dettagli, la montagna complessa, i boschi, le strade e le case. Il paesaggio doveva ancora esistere immutato. Il vecchio si propose di andar a rivedere quel luogo a convalescenza finita. Curioso ch‘era la prima volta ch‘egli avesse sentito tale desiderio. Come dedicandovisi la memoria lavora! È una forza attiva e non dà molto quando viene lasciata inerte.
Würzburg! Una città pulita, fine, poco popolosa. Degli studenti in berretto azzurro. La famigliuola visitò un palazzo enorme contenente dipinti di autori italiani. Roberto ricordava una stanza dall‘eco che ridava moltiplicato il suono che la provocava. Stracciando un pezzo di carta si otteneva il suono di una tromba.
Ma a Würzburg ci fu anche l‘avventura che mise in subbuglio la famigliuola. Il padre offerse in pagamento all‘albergo delle banconote della Banca Triestina allora autorizzata per diritto antico ad emetterne. L‘albergatore scese dal corto suo trono dietro una balaustrata di legno spaventato che si volesse appioppargli della moneta simile in pagamento e uscì a sorvegliare l‘ospite. Urlò, proprio urlò e così il padre di Roberto fu obbligato ad andare da un banchiere per ottenere verso le sue banconote delle monete correnti e lasciare nel frattempo la famiglia e i bagagli in pegno.
Roberto non si spaventò. Non ricordava nulla che fosse somigliato ad uno spavento. La vita era sempre trascorsa così sicura per lui che non sentiva potesse dipendere dal denaro. Era un suo diritto la vita e non vedeva l‘importanza della cosa. Ma la madre che non intendeva il tedesco s‘era spaventata. Aveva alzata la veletta per asciugarsi delle lagrime che le bagnavano le guance. Piangeva con grande facilità agitata dal lungo viaggio, dall‘imminenza del distacco dai suoi figliuoli e anche dalla preoccupazione per la salute del terzo dei suoi maschi rimasto alquanto indisposto a casa. Dalla partenza da Trieste in poi non erano stati raggiunti da alcuna comunicazione da casa.
Il padre ritornò rasserenato. Aveva le tasche piene di grosse monete d‘argento. Si lagnava del cambio che gli avevano fatto e si sfogò in italiano con la moglie mentre pagava: «Che paese di ladri!». Eppoi: «Che ignoranza! Non conoscono le banconote della Banca Triestina!». Erano le prime parole contro la Germania che Roberto da lui avesse udite. Ammirava tanto quel paese che serenamente vi portava i proprii bimbi per farli educare. Ma quando si viene toccati nel proprio interesse il mondo cambia spesso di aspetto.
Poi seguirono tre quarti d‘ora di treno. Qui il vecchio non aveva bisogno di sforzo per ricordare quel viaggio che rifece poi tante volte. La ferrovia correva su un argine costruito a mezza costa della collina alla sinistra del Meno. Dall‘altra parte del fiume c‘erano delle colline che a queste somigliavano, quasi che queste si fossero riprodotte in uno specchio. Però le cime di alcune di queste finivano nella macchia bruna intensa del bosco. Poi Roberto apprese che quelle che gli parevano colline, sporgenti talvolta quasi fino al fiume, tale altra allontanandosene per delle miglia, non erano altro che dei macigni capricciosi di un unico altipiano. Tardi, molto tardi, comprese che il fiume aveva scavato il suolo e s‘era costruita la sua valle, un‘opera paziente di secoli. E il vecchio che ricordava, sorrise di se stesso: ogni uomo è cieco per una parte del mondo. Roberto aveva abbandonato da lunghi anni il villaggio in cui aveva soggiornato per oltre sei anni prima di vedere come era costituita quella valle ove egli era nato al sentimento e alla ragione. L‘osservazione precisa non era mai stata la sua qualità. Probabilmente nello stesso modo aveva inteso gli uomini con cui aveva avuto a fare. È tanto importante a chi vuole intenderlo di piazzare l‘individuo nel ceppo da cui esce e in quella valle del Meno egli si sarebbe mosso con gli occhi meglio aperti se non avesse sempre distinto una collina dall‘altra e se avesse visto come un‘altura unica. Certo s‘erano individuate radicalmente perché talvolta il giovinetto aveva dovuto scendere a valle per passare dall‘una all‘altra non avendo fatto l‘esperienza che con un giro più lungo avrebbe potuto rimanere sempre alla stessa altezza per raggiungere un‘altra cima. E la cecità continuava in riguardo all‘origine delle cose. Se il fanciullo avesse saputo che il fiume, piccolo e insignificante in confronto alla valle talvolta estesissima su cui serpeggiava, l‘aveva appianata o lisciata lui, l‘aspetto di tutta la regione avrebbe cambiato. Dove la valle s‘allargava, là s‘annidavano villaggi e cittadine e all‘occhio ingenuo del bambino pareva che l‘industre popolazione avesse scavato nella collina per adagiare poi le proprie case ai suoi piedi.
Abbandonarono il treno ad una piccola stazione tutta verde per piante arrampicanti. Il signor Beer, il direttore del collegio, li aspettava alla stazione. Il padre di Roberto lo salutò con grande enfasi. Il signor Beer era stato a Trieste a trovare la famiglia da cui gli provenivano due scolari. Al padre di Roberto egli aveva fatta l‘impressione di uomo di alto intelletto e di grande sapere. Il signor Dento era pronto nei suoi giudizi su cose e persone ma lentissimo a cambiar di parere. Una volta che aveva detto il suo parere ci viveva con l‘ostinazione di chi si è fabbricato da solo la casa. Le cose si mutavano, l‘individuo ch‘egli amava diveniva sospetto e lui trovava tutti gli argomenti per difenderlo e spiegarlo. Quando poi, infine, sentiva i colpi che il traditore gli menava, allora appena egli se la prendeva con la nequizia della natura umana. Tanto per poter dire che la persona ch‘egli aveva amata era tuttavia migliore di tutti gli altri.
Il signor Beer un uomo forse quarantenne era vestito sempre di un lungo palamidone nero. Una barbina biondiccia che partiva dal mento metteva un margine alla sua faccia alquanto legnosa dal naso sottile, le guancie nude poco fresche, tutta una faccia regolarissima e povera che pareva fatta con ordigni di falegname. Aveva una capigliatura ricciuta abbondante più bruna del barbino e dei mustacchi.
Poi si scese per una via ripida alla cittadina sottostante, una di quelle piccole città che forse in antico tempo ebbero qualche sviluppo segnato da qualche palazzina barocca, di un piano altissimo dalle vaste finestre addobbate da intarsi in legno, il piano di sotto e il terzo dalle finestrelle quadrate piccole a una lastra sola.
Tutto questo il vecchio ricordava per averlo rivisto poi tante volte. Di quell‘arrivo, di tutta quell‘ora egli non ricordò né il signor Beer, né tutti i suoi compagni di viaggio e alcun loro atteggiamento, vestito o parola. L‘erta, la cittadina, il fiume non erano di quell‘ora. Egli ricordava solo con piena sicurezza il facchino del collegio, un ragazzotto un po‘ zoppo che pochi giorni appresso doveva abbandonare il luogo senza ch‘egli più lo rivedesse. Fortunata l‘ora che può essere individuata da un particolare qualunque anche se non poté avere importanza alcuna. Lo zoppo trasportando i tanti bagagli giù per l‘erta faceva sentire il suo respiro affannoso. Forse fu visto e ricordato per tale sua sonorità.
Al fiume s‘imbarcarono tutti su un barcone lungo e alto spinto e guidato con un lungo punteruolo puntato sul fondo non grande e approdarono ad un‘enorme penisola di sabbia che sporgeva sul fiume per forse mezzo chilometro. Sbarcarono su delle tavole poste sul greto dalle quali giunsero ad uno sbarcatoio in pietra costruito sulla sabbia e così arrivarono dinanzi al villaggio.
Su questo posto, dieci o dodici anni prima, il vecchio s‘era recato in compagnia della moglie e della figlia per rinnovare i ricordi. Vi aveva trovato delle alterazioni tanto grandi che adesso lo sforzo di ricordare era reso più difficile. Intanto tutto il villaggio gli apparve più piccolo, più misero, più sucido. Il collegio ne era sparito ed il letame l‘aveva invaso. Ma poi il paesaggio stesso s‘era mutato perché le colline alla destra del fiume avevano perduto la loro corona di alberi visibili dal basso eppoi il fiume stesso che correva fra grandi bacini ch‘erano la sua unica riserva per mitigare l‘effetto delle inondazioni e per rallentare l‘abbassamento delle acque ora era stato approfondito e i bacini messi a secco coltivati. Persino il barcone di traghetto era scomparso e al suo posto era subentrato un ponte in pietra per varcare il quale bisognava pagare una lieve tassa, un grande ponte che s‘erge maestoso sull‘acqua perché parte da un punto elevato della cittadina e raggiunge proprio il villaggio al disopra del banco di sabbia e anche al disopra di campi già più elevati coltivati a barbabietole. Sul fiume stesso corrono oramai degli agili vaporini in luogo di certa specie di piroghe sottili cariche di sabbia o delle zattere lunghe un chilometro formate dal legname che diretto da due o tre uomini arrivava nel Belgio dalla Selva Nera.
Bisognò poi volgere a destra per entrare nel villaggio: una specie di sentiero fra case povere qua e là allontanate dal sentiero che si allargava allora a piccoli spiazzi non selciati e coperti d‘erba dove le ruote dei veicoli non li avevano solcati. Alcuni di quei casolari volgevano alla strada una facciata rigata da scale e un ballatoio in legno brunito dal tempo e dalle intemperie. Anche allora su quel sentiero si sentiva intenso l‘odore di letame.
Così entrarono nella via principale dalla parte della piccola chiesa gotica che sorgeva in mezzo a un prato verde pulito, abbellito da alcune quercie e due ippocastani allora in fiore. Le case della via principale abbastanza larga e non lunga, chiusa dalle case anche all‘altra estremità, perciò una specie di piazza selciata a ciottoli, erano più belle e linde delle altre, alcune abbellite dallo zoccolo e dal suo coronamento, altre con una certa civetteria dell‘erto tetto sporgente.
La signora Beer uscì dalla casa per incontrare i viaggiatori. Era una bella signora elegante, alta, bruna, dai grandi occhi espressivi, un profilo puro dal naso aquilino.
Il vecchio sul poggiuolo di Opicina sospirò. Chissà se era proprio di quel giorno ch‘egli la ricordava uscire dalla casa con un sorriso lieto sulle labbra, i grandi occhi neri ansiosi nel saluto, il passo celere, tutta la bella figura equilibrata in uno slancio che ricordava un movimento di danza ma allora o dopo in quell‘istante essa era stata adorabile. Allorché a diciott‘anni egli l‘aveva abbandonata per sempre essa alquanto ingrassata era stata tuttavia bella. Eppure egli non l‘aveva mai veduta bella. I suoi sensi giovanili, eccitabili, avevano cercato tutt‘altra via. Perché? Il vecchio cercava indarno tale ragione e concluse: gli uomini non sanno vedere tutto; per certe cose hanno gli occhi chiusi. Doveva essere l‘avvenire che l‘avrebbe informato meglio. Naturalmente l‘avvenire dei ricordi! Egli doveva apprendere che il lavoro della memoria può muoversi nel tempo come gli avvenimenti stessi. Questa doveva essere un‘esperienza importante sebbene non la più importante di quel delizioso lavorio ch‘egli stava facendo. Riviveva proprio le cose e le persone.
Il suo desiderio l‘avrebbe trascinato a ricercare delle epoche più vicine in cui avrebbe scoperta la continuità, la luce, l‘aria, la parola di ogni singolo avvenimento. Ma non volle! Bisognava continuare a ricercare in quel mare le poche e piccole isole emergenti e rivederle attentamente quanto era possibile per ritrovarci qualche comunicazione fra l‘una e l‘altra.
Eccone una di queste isole: piena di luce e di dolore, e proprio marcata in modo da poterla vedere tutta e nello spazio suo.
Il signor Beer dimostrò quel giorno la sua abilità politica. Dopo il pranzo padre e madre si divisero dai due fanciulli, la madre in dirotto pianto così che il padre era più occupato a incuorarla che a congedarsi dai figliuoli. I due fanciulli diedero anche segno di una emozione grande e allora intervenne il signor Beer che parlò col padre. Questi annuì fortemente come a proposta che confaccia e subito spiegò ai fanciulli che se si fossero mossi subito avrebbero potuto arrivare in luogo donde avrebbero avuto l‘opportunità di rivedere per l‘ultima volta i genitori.
E così i due fanciulli tenendosi per mano seguirono il signor Beer nel suo eterno palandrone. Abbandonavano i genitori ma subito si apprestavano a raggiungerli ancora una volta.
Il signor Beer indirizzava loro di tempo in tempo qualche parola ch‘essi non intendevano e fiduciosi continuarono a seguirlo. Camminavano per un sentiero dal quale non vedevano il fiume ch‘era lontano ma solo il fitto rigoglio di piante e canne alle sue rive. Presto il signor Beer che oramai li precedeva parve assorto in profondi pensieri e precedeva di poco con passo lento i due fanciulli che tenendosi per mano lo seguivano. Com‘era fatta quella linea ferroviaria da permettere con quel passo di raggiungere il treno che poco prima era partito? Un‘impazienza spingeva i due fanciulli e indusse Armando a battere i tacchetti in ritmo accelerato abbreviando il passo per non urtare il signor Beer che li precedeva. Roberto lo imitò. E avvenne una cosa che meravigliò i due fanciulli. Il ritmo d‘Armando s‘impose al signor Beer il cui passo s‘accelerò senza ch‘egli se ne accorgesse. Il sognatore procedeva senza volgersi.
Armando rise, non Roberto che aspettava ansiosamente di rivedere i suoi genitori. Nella sua anima giovanile c‘era la speranza di poter riattaccarsi alla madre e definitivamente. Perché la separazione minacciata doveva aver luogo?
Il signor Beer si riaccostò ai fanciulli e li avviò per un sentiero che s‘allontanava dal fiume e li portava verso la collina. Ai piedi della stessa e arrampicandovisi di poco il sentiero piegava verso il villaggio. Poi il signor Beer rimase col passo e col pensiero accanto ai fanciulli incuorandoli ad ogni tratto con qualche parola che doveva essere francese e ch‘essi non intendevano.
Da quella parte il villaggio si diluiva nei campi in case più alte e più vaste prive di qualunque adornamento, muratura alla base costruzione in tavole in alto col tetto erto di tegole recenti.
E così arrivarono di nuovo alla cascina da cui erano partiti. Il cuore di Roberto batteva. Accorato Armando ebbe subito gli occhi pieni di lacrime ma pareva già avviato alla rassegnazione e si fermò alla porta. Invece Roberto che subito intese come Armando interpretava la truffa ch‘era stata fatta loro, prima che alcuno potesse trattenerlo si mise a correre su per le scale. Dove andò? Nella stanza da pranzo dove avevano poco prima preso congedo dai genitori o in una stanza da letto dove i genitori avevano dormito?
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: L‘avvenire dei ricordi
AUTORE: Svevo, Italo
CURATORE: Contini, Gabriella
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: I racconti / Italo Svevo ; Introduzione di Gabriella Contini ; Presentazione di Claudio Magris; Milano : Garzanti, 1985 – XXXVIII, 597 p. ; 18 cm – (I grandi libri Garzanti ; 319)
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti