Il cestino dello zibibbo
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 6 minuti
Primo, Secondo e Terzo, i tre fratelli Gelmini, erano andati a portare un cestino d’uva alla nonna. Non che la nonna non avesse dell’uva; anzi ne aveva tanta che i suoi pergolati erano più neri che verdi; ma di quella qualità, posseduta in tutti quei dintorni solo dalla famiglia Gelmini, non si sapeva se ce ne fosse altra al mondo. Tanto è vero che la madre avvertì i tre ragazzi di tener ben coperto col panno il cestino, e se qualcuno domandava cosa c’era là dentro, di rispondere:
— Ci sono uova e peperoni.
— Ci sono uova e peperoni – risposero infatti a una voce i tre bravi fratelli, quando Vica la gobba, la donna che viveva nelle strade, e come un cane senza padrone andava dietro ai passanti finché non veniva scacciata malamente, saltò giù dalla siepe di un podere e domandò che cosa c’era dentro il cestino.
— Non è vero – disse lei, fissando i suoi occhietti gialli sul panno leggero che lasciava indovinare la forma dei grossi grappoli. – Lì, ci avete lo zibibbo, quell’uva che possedete solo voi nel pergolato dietro la casa. Io la conosco; ha gli acini lunghi e a punta come i peperoncini forti, ma il sapore è ben altro. Io però non l’ho mai sentito, quel sapore. Me lo fate sentire?
— Via di qua – urlò Primo, stendendo il pugno minaccioso; e gli altri due fratelli si strinsero intorno al cestino per difenderlo come l’arca santa degli ebrei nel deserto.
Il luogo era deserto davvero: e le case del paesetto dove stava la nonna, ancora non si vedevano. Se avesse voluto, la gobba, che era gobba ma robusta, avrebbe sbaragliato col suo bastone i tre intrepidi fratelli: ma lei non voleva. Già abbastanza fama di cattiva donna, di ladra, di prepotente e di portasfortuna godeva: quindi si contentò di umiliare e spaurire i Gelmini.
— Altra cosa vi credevo! Screanzati e sordidi siete; e la Madonna vi castigherà, per aver negato tre acini d’uva alla povera mendicante senza casa e senza pane.
Il più piccolo dei Gelmini, fu allora del parere di dare un grappolino alla gobba: per paura, s’intende, non per amore; ma gli altri due, e specialmente Primo, che già aveva il cuore duro come quello di un vecchio contadino, si opposero fieramente.
E tutti e tre ripresero a camminare, mentre Vica spariva fra le siepi donde era sbucata. Per ingannare la lunghezza della strada Primo propose un gioco:
— Voi due siete i bovi che trascinate il carro: sopra il carro c’è l’uva. Io vi conduco.
— Faremo un po’ alla volta: non voglio sempre essere il bove, io – disse Secondo.
La proposta accettata, i due fratelli minori presero loro il cestino e andarono avanti: Primo li aizzava, e non contento di loro si armò di una fronda e cominciò a sferzarli sulle gambe. Secondo si mise a correre, ma il fratello piccolo, che era già stanco e malcontento, abbandonò l’ansa del cestino, e buona parte dell’uva cadde per terra: i bei grappoli si sgranarono come tante collane di cui s’è rotto il filo.
Gli urli di Primo e le bòtte che egli prodigò al fratellino non valsero a riparare il danno; né lo riparò l’osservazione che fece Secondo:
— È perché la gobba porta sfortuna: e noi le abbiamo negato un grappolino d’uva.
Questa fu la prima delle disgrazie.
La seconda avvenne quando si trattò di lasciare la strada per inoltrarsi in un viottolo attraverso i campi, onde arrivare più presto alla casa della nonna. Il piccolo Terzo, che dopo il trattamento energico del fratello maggiore non aveva cessato di piagnucolare e lamentarsi, inciampò malamente in un buco del terreno, nascosto dall’erba, e cadde lungo disteso battendo la faccia al suolo. Sulle prime non gridò, non tentò di sollevarsi; ma quando i fratelli, impressionati dal suo silenzio, lo tirarono su, cominciò a morderli ed a sparare calci contro di loro.
Aveva il viso insanguinato e pareva come impazzito.
— Ma che ti prende? – gridò Primo, ributtandolo giù sull’erba. Là lo tennero fermo per forza e gli asciugarono il sangue col panno che copriva l’uva. Egli piangeva così forte che le lagrime aiutarono a lavargli il viso. Poi rifiutò di seguire i fratelli; ma quando essi ripresero la strada e sparvero dietro una distesa di saggina simile ad una foresta, ed egli si trovò solo, ebbe paura. Da una parte e dall’altra del viottolo le alte piante del frumentone gli parevano soldati con la baionetta innastata; e un fruscio strano, prodotto dall’agitarsi delle foglie dure, gli ricordava che le volpi amano aggirarsi nei campi fitti di vegetazione. Egli non aveva mai veduto una volpe; se la immaginava però grande e feroce come il lupo dipinto nel quadro di San Francesco ch’era in camera della mamma; e che non facesse distinzioni fra i polli ed i bambini.
Pensò bene dunque di alzarsi e anche di affrettare il passo per raggiungere i fratelli; ma per quanto si affrettasse, i fratelli non li raggiungeva; non solo, ma neppure li vedeva in lontananza. Allora cominciò ad aver paura davvero; credeva di essersi smarrito, e già stava per gridare domandando aiuto, (a chi, se non si vedeva anima viva?) quando uno starnazzare di oche lo riconfortò. Se c’erano oche c’erano probabilmente anche cristiani, perché non si è mai sentito dire che le oche vivano nel deserto. Queste qui, anzi, facevano quel verso speciale che usano appunto quando arriva gente; e raddoppiarono le loro strida nel vedere il piccolo Terzo. Sembravano molto allegre, tutte riunite in un gruppo di nove o dieci che pareva un gregge, tutte bianche e con gli occhietti rotondi e neri come bottoncini da scarpe.
Terzo però non prese parte alla loro allegria; anzi si fece pallido in viso come stesse per venir meno, e diede un grido di spavento: perché in mezzo alle oche vedeva il cestino dell’uva, vuoto: esse ne avevano tratto, piluccato e massacrato i grappoli, senza rispettarne uno solo.
Che era avvenuto degli altri fratelli? Le volpi, certo, li avevano assaliti e divorati, e di loro non rimanevano neppure i lacci delle scarpe. Istupidito dal dolore, Terzo raccattò il panno che aveva coperto il cestino, e con esso, già anche macchiato del suo sangue, si asciugò le lagrime grosse come gli acini dell’uva ancora sparsi per terra.
— È la gobba, è la gobba… – singhiozzava. Voleva dire: è stata la gobba a portarci sfortuna, ma non riusciva a finire la frase, tanto i suoi pensieri erano confusi. Tuttavia prese anche il cestino e si avviò per tornare indietro.
Gli urli di Primo lo richiamarono.
— Che fai, macacco? Oh, che fai?
Si volse, e vide i suoi fratelli sani e salvi, ciascuno con una cotogna in mano. Secondo, anzi, ne aveva due, delle quali una mangiata a metà; e questo spiegava il suo silenzio e le sue smorfie: perché il frutto era così aspro e duro che egli si trovava ingozzato.
Dalle grida e dalle invettive di Primo, Terzo capì allora come era andata la faccenda: il fratello maggiore sapeva che nel campo c’era un cotogno, e volendo rubarne i frutti, aveva ordinato a Secondo di aspettarlo nel viottolo col cestino dell’uva. Ma Secondo non intendeva di ubbidire; e aveva piantato il cestino per andare a cogliere anche lui le cotogne. Quello che Terzo non riuscì a comprendere fu il perché i fratelli se la pigliavano con lui. Primo, il maggiore, poi l’altro, ricominciarono a dargli spintoni e pugni, accompagnandolo così fino alla casa della nonna.
— Per colpa tua; tutto per colpa tua.
Egli non si difendeva più, non piangeva più, non capiva più nulla; ma quando arrivarono dalla nonna ed i fratelli raccontarono a modo loro la storia, egli domandò:
— Perché, se io volevo dare l’uva alla gobba, e allora perché ho preso io tutta la sfortuna? Perché?
— Perché sei il più stupidino – spiegò la nonna, soffiandogli il naso.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il cestino dello zibibbo
AUTORE: Grazia Deledda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)