Mansueto.
di
Cordelia
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L’antefatto si può leggere nel breve racconto “I figli di Eraldo”(N.d.R)
A Mansueto non parea vero d‘essere assoluto padrone di quei campi che si stendevano rigogliosi innanzi a sè, di quelle bestie rinchiuse nella stalla, e della bianca casetta, semplice e modesta, che gli sorrideva inghirlandata dalla vite del Canadà.
Fu con uno strappo al cuore e con le lagrime agli occhi che vide allontanarsi il padre; egli sentiva un forte amore per tutto quanto lo circondava, e non aveva potuto vederlo partire, senza sentirsi commosso. Ma fu cosa passeggera, e pensò tosto alla responsabilità che ormai gli incombeva, di far fruttare il suo patrimonio, di procacciarsi da vivere col proprio lavoro, e far delle economie per l‘avvenire.
Egli non si lasciava mai cullare da sogni impossibili, nè pensava a ricchezze inverosimili come i suoi fratelli, e non poteva rimanere delle ore inoperoso a seguire un‘idea; ma avea bisogno di adoperare la forza giovanile e la sua energia in una vita operosa.
Quella terra ch‘egli si accingeva a coltivare con amore, gli avrebbe dato da vivere abbondantemente; sapeva che al di là del lago, che vedeva tremolare in distanza, e delle colline che lo circondavano, c‘erano altri campi ed altri monti, ma quelli non gli parlavano al cuore; egli amava il cantuccio che lo aveva visto nascere, dove conosceva ogni pianta ed ogni sasso, e non lo avrebbe cambiato con un regno. Egli aveva sentito ripeter spesso l‘adagio, che è ricco chi si contenta di quanto possiede; ed egli era ricco perché non desiderava nulla di più di quello che il padre partendo gli aveva affidato.
I prati dove si era sdraiato tante volte, il boschetto ombroso dove scorreva mormorando un ruscello, i campi arati, tutto, tutto egli osservava con un sentimento non mai provato, e con un amore intenso, dacché erano suoi. Non avrebbe mai lasciato ad altri la cura dei suoi campi; egli stesso voleva ararli, seminarli e raccoglierne le messi. Era forte, aveva già aiutato il padre ed i vicini nei lavori campestri, conosceva il modo di ingrassare un campo, di coltivarlo, per ricavarne il maggior frutto possibile, e a questo scopo voleva dirigere tutta la sua energia.
Il padre gli aveva lasciato un ragazzo, un contadino affinché potesse aiutarlo, ed egli cercò d‘infondergli l‘amore, che si sentiva prepotente nel cuore, per il lavoro e la terra che doveva nutrirlo.
Ogni stagione avrebbe avuto le sue cure speciali, e nella diversità del lavoro avrebbe trovato un po’di riposo e di distrazione.
Com‘era contento al mattino, quando attaccava i buoi all‘aratro, e li spingeva sui campi, capovolgendo la terra, e seminando con un gesto largo i chicchi di grano!
E la sera, quando collo sguardo vedeva stesa, davanti a sé la linea dei campi arati di recente, che formavano un‘immensa massa oscura in mezzo al verde dei prati, si compiaceva del lavoro fatto, e rientrava in casa cantarellando,contento di poter dopo la fatica, godere un meritato riposo.
L‘inverno gli passava rapido come le altre stagioni, perché occupava molte ore nel bosco a tagliare i rami degli alberi, per procurarsi la legna, a curare le bestie, e quando vedeva lentamente scendere, a fiocchi la neve, e non poteva lavorare all‘aperto, seduto accanto al fuoco intrecciava canestri, pensando che sotto quella neve germogliava il grano, che avrebbe veduto ai primi tepori della primavera uscire trasformato in foglioline verdi e sottili. E quando finalmente vedeva i campi verdi e fitti come il velluto, provava una grande soddisfazione d‘esser riuscito a seminar così bene, quantunque ancor inesperto a quei lavori, e gli pareva d‘aver compiuto un‘opera immortale.
Passava da una gioia all‘altra, quando vedeva i campi diventar biondi come l‘oro, e le spiche curvarsi sotto il loro peso, e i giorni della falciatura, quando raccoglieva il frutto delle fatiche, eppoi altre semine, altre raccolte, e i bachi che nutriva, perchè cambiassero in fili di seta il loro nutrimento, e la vite che vedeva adornarsi di grappoli, e il mosto che si preparava da sè stesso, calpestando i grappoli nelle tine, e studiando il modo di farlo fermentare al punto giusto, per produrre un vino buono e generoso, e quando ci riusciva chiamava esultanti i vicini ad assaggiarlo, ed era tanto beato dei loro elogi, che diventava buono con tutti. Aiutava i poveri dando loro cibo e lavoro, e i compagni coll‘opera e col consiglio.
I suoi campi erano i più verdi e i più fertili, e quando gliene domandavano la ragione, egli rispondeva sempre:
— È perchè voglio bene alla mia terra, e la coltivo con amore!
I poveri pastori che scendevano dalla montagna gli domandavano il permesso di far pascolare le bestie nei suoi prati, i più poveri gli chiedevano qualche fascio d‘erba, o di legna, ed egli accordava tutto e diceva:
— Il Signore ha benedetta la mia terra. Mi dà più di quello che mi abbisogna, il superfluo è vostro, potete prenderlo.
Ma per impedire un‘invasione di poveri su tutte le sue terre, aveva messo a loro disposizione un campo che costeggiava la strada maestra.
Fra gli altri scendeva sempre una fanciulla bella e vispa trascinandosi dietro una capretta, e gli domandava la grazia di un po’di nutrimento per la sua bestia. Essa era tanto sorridente che gli metteva allegria a guardarla, e si soffermava spesso a dirle qualche parola.
— D‘onde vieni? – le chiese un giorno.
— Dalla collina, – rispose la fanciulla. Lassù la siccità ha distrutto l‘erba, e morrei di fame colla mia capretta, se non foste così buono da permettermi di venir a pascolare nei vostri prati.
— E sei sola?
— Sola, dacchè è morta la nonna, colla quale vivevo.
— E come vivi?
— Lavoro nei campi quando qualcuno ha bisogno d‘aiuto, altrimenti la mia capretta mi dà il latte, e mi basta.
— E sei così allegra?
— Finora ho avuto sempre da mangiare; spero che continuerà così anche in avvenire. Di giorno giro, e qualcuno provvede, la notte entro nella mia capanna e riposo.
— E l‘inverno che cosa fai?
— Vado in qualche fattoria, e lavoro in cambio del mantenimento, per me e la mia bestia.
— Come ti chiami?
— Serena!
— Ebbene, Serena, quando hai bisogno di lavoro, vieni da me colla capretta, per te ce ne sarà sempre.
— Davvero? – esclamò la fanciulla colla faccia illuminata dalla gioia. – Ci verrò certo, ma poi non mi scaccerete via?
— Perché?
— Sono un po’sventata, qualche volta m‘indugio a guardare gli uccelli che volano, o le formiche che si portano da mangiare nei loro buchi. Nessuno mi ha mai insegnato a lavorare, non so che ridere e cantare.
— Ebbene, la tua presenza mi metterà allegria, ed io lavorerò di più. Arrivederci.
— State tranquillo, ch‘io verrò. Addio. – E con un fascio d‘erba sul capo, colla funicella che legava la capretta, fra le mani, s‘avviò verso la collina, col passo lesto e leggiero, sfiorando appena l‘erba dei prati, e cantando una canzone gaia e campestre.
Mansueto la seguì collo sguardo per qualche minuto, poi riprese la zappa, e si rimise con maggior lena a smuovere la terra intorno ai tronchi delle piante. Egli sapeva interrompere la sua vita laboriosa con qualche passatempo, la domenica non lavorava mai e si soffermava a chiacchierare cogli amici sulla piazza della chiesa, oppure con una canna di bambù si fabbricava una specie di piva, colla quale imitava il canto degli uccelli. Sapeva trarre con quell‘istrumento primitivo note tanto melodiose, che i suoi compagni, pieni d‘ammirazione, si fermavano ad ascoltarlo, e Serena, quando scendeva la collina, lo ammirava estatica, nascosta, dietro un cespuglio, troppo timida per mostrarsi alla luce del sole. Se la vita di Mansueto sembrava tranquilla e lieta, non era però priva di qualche dolore. Quando egli vedeva nel cielo addensarsi i nuvoloni neri, forieri di tempeste, e minacciare i campi che promettevano messi abbondati, si sentiva un tale schianto al cuore, che gli pareva di soffocare; e stava, immobile guardando il cielo ed i campi, trepidante, invocando un soffio forte di vento, che ricacciasse lontano le nubi, e tremava, temendo che la bufera scoppiasse sulle sue terre a distruggere il frutto di tanto amore e di tanto lavoro. E quando l‘inevitabile avveniva, e il temporale scoppiava proprio sul suo capo, i lampi squarciavano il cielo, il tuono rimbombava intorno, vedeva scendere l‘acqua a torrenti, e la terribile gragnuola bersagliare le sue messi, egli stava ritto in mezzo all‘infuriare degli elementi, non avendo coraggio di rientrare in casa come se la sua presenza tenesse a rispetto la tempesta; e quando vedeva le bionde spiche piegare a terra, la campagna desolata, e dovunque l‘orrore della devastazione, allora soltanto rientrava, e gettandosi sul letto dava in uno scoppio di pianto. Per molti giorni rimaneva oppresso e preoccupato, poi si accorgeva che il danno non era stato così grave come aveva da principio creduto, e lo spirito ritrovava un po’di sollievo e di calma nelle incessanti occupazioni che lo attendevano. Un fatto che in seguito venne a rattristarlo fu la scomparsa di Serena dai suoi possedimenti; egli s‘era abituato a vederla spesso, a ridere e scherzare con lei, che si faceva sempre più bella e fiorente, e quando non scendeva la collina gli pareva che gli mancasse qualche cosa.
Da molti giorni non ne aveva notizie e pensava a lei costantemente, temeva che fosse ammalata, e si proponeva d‘andarla a cercare salendo il monte. Quando un giorno la vide scendere con passo lento e affaticato, trascinando dietro di sè la capretta, e fissando lo sguardo in lontananza, tendendo l‘orecchio, come se ascoltasse qualche suono lontano.
Era un bel mattino sul principio di primavera, i prati si coprivano di foglioline tenere d’un verde fresco e pallido, mentre qua e là qualche violetta usciva modesta tra le foglie. Gli alberi non davano ombra, ma i rami si vestivano di verde, e formavano dei disegni delicati sull‘azzurro del cielo.
Di tratto in tratto un mandorlo o un pesco in fiore davano una nota gaia alla campagna che si ridestava dal sonno invernale, mentre le cime dei monti erano ancora ricoperte di neve.
Mansueto in un attimo fu vicino a Serena, e le disse:
— Ero inquieto per te. Perché non sei venuta più?
— Non so, – rispose la fanciulla.
— Non ti senti bene? Sei tanto mesta!
— Non ho nulla, sono molto stanca.
— E perchè ti sei fermata quassù?
— Per ascoltare gli uccelli; mi piacerebbe sapere quello che dicono. Sentite.
Infatti un allegro trillo d‘uccello s‘udì risuonare per I’aria. Subito dopo una voce più lontana e più timida rispose a quel trillo.
— Che cosa dicono? – chiese Serena.
— Si chiamano, – rispose Mansueto.
— Uno dice: “vieni vieni”, e l‘altro risponde: “aspetta, verrò poi”.
— Oh, bello! – esclamò Serena. – Ma perché non va subito?
— Per farsi desiderare.
— E poi, riusciranno ad incontrarsi?
— Certo, hanno le ali e si raggiungono presto.
— Come mi piacerebbe avere le ali! – disse Serena.
— Perchè? – chiese Mansueto.
— Mi pare che la vita sarebbe più allegra, – rispose Serena, e sì dicendo fece per muoversi.
Mansueto le si era avvicinato, prendendola, per mano, per trattenerla. Ma essa n‘ebbe un tale sgomento che si svincolò impetuosamente, scappò via come se avesse le ali, mentre Mansueto rimase sorpreso a guardarla, senza aver il coraggio di muoversi o di seguirla..
Dopo quell‘avvenimento egli rimase molti giorni inquieto e turbato, temeva di averla offesa involontariamente, ed era ansioso di rivederla per fare la pace. Si sentiva triste e lavorava macchinalmente pensando a Serena, e aspettando sempre di vederla scendere il colle, coll’inseparabile capretta. Ma le settimane passavano ed essa non compariva.
Un giorno prese la risoluzione d’andarla a cercare sulla collina.
Era una domenica di maggio, e la natura tutta in festa. Dai nidi recenti uscivano canti e pispigli, i lauri in fiore profumavano l‘aria, corone di rose inghirlandavano i balconi e i muricciuoli; un fremito di vita trascorreva lungo i tronchi e i rami delle piante, e pareva che penetrasse nelle fibre d’ogni animale vivente, che ne provava come un sussulto.
Mansueto salì la montagna lesto come un capriolo; provava un prepotente bisogno di veder Serena e d‘ottenere da lei una spiegazione.
L’ultima volta l‘aveva trovata trasformata; non era più così gracile e snella come una canna, che si piega ad ogni soffio di vento; ma si era fatta più donna e più robusta; e nel lampo degli occhi oscuri e profondi, aveva veduto l‘immagine d‘un pensiero che la preoccupava, e le aveva tolta l‘ingenua allegria d‘altri tempi.
Appena, vide in lontananza la capanna di Serena, si fermò sotto l‘ombra d‘un castano e colla sua piva incominciò ad intonare una lenta melodia, che saliva al cielo confusa al canto degli uccelli.
La capanna era chiusa, pareva una tomba, non un movimento intorno a lei, non un rumore ne usciva. Mansueto tenea gli occhi fissi su di essa, e intanto il suono della piva diventava più languido e mesto.
Tutto ad un tratto, vide in distanza, ondeggiar l‘erba alta del prato, qualche cosa sollevarsi, e la testa di Serena apparire e sorgere dall‘erba come un fiore vivente.
— Siete voi? – esclamò la fanciulla.
— Che cosa fai in mezzo all‘erba? – disse Mansueto avvicinandosi.
— Mi riposo, sono tanto stanca.
— Perchè non vieni più a vedermi?
— Per farmi desiderare, come gli uccelli, me lo avete insegnato voi.
— Ma gli uccelli hanno già fatto il nido, non odi?
Infatti nella quiete della campagna si udiva un pispigliare di uccelli appena nati, dei piccoli gridi che parevano voci misteriose che uscissero dalle piante.
— E laggiù da me, – soggiunse Mansueto, – la campagna è ancor più popolata di nidi. Le farfalle si baciano nel calice dei fiori. Tutti si cercano, s‘avvicinano. Perchè tu sola te ne stai qui lontana ed abbandonata?
— Chi mi prenderebbe? Sono così povera! dopo che mi avete insegnato a comprendere il linguaggio degli uccelli, non sono più sola, essi mi tengono compagnia.
— E perché non procureremmo anche noi d‘imitarli? Non si potrebbe fare noi pure il nostro nido?
Le si era avvicinato strisciando sull‘erba e le aveva mormorato queste parole a bassa voce. Serena lo guardò negli occhi sorpresa e disse:
— Davvero? Voi con me, povera meschina? Sarebbe troppa gioia! Ciò non può essere. Però non è bello burlarsi d‘una povera fanciulla!
E due lagrimoni le velarono gli occhi, e le scesero sulle guancie, come rugiada sopra un fiore.
Mansueto avvicinò le labbra al volto della fanciulla e ne succhiò le lacrime. Essa a quell‘atto comprese che il di lui affetto era sincero, e sorrise, quantunque gli occhi le luccicassero ancora per le lagrime recenti. Era bella col volto irradiato dalla felicità, e Mansueto avrebbe voluto prenderla tra le braccia, e portarsela a casa sua. Scostandosi da lui essa disse:
— Gli uccelli non fanno il nido in un solo giorno, e noi dobbiamo imitarli.
— È vero, – disse Mansueto, – ma bisogna far presto, la primavera è breve!
— Ogni giorno toglierò qualche cosa dalla mia capanna, e la porterò da voi, – disse Serena. – Poi quando non vi resterà più nulla, verrò con la mia capretta, e non ci lasceremo mai più. Non ci vorrà molto! Sono così povera!
— Ma, ti amo tanto! – disse Mansueto. – Non sai che quando udivo gli uccelli che si chiamavano tra loro, anch‘io cercavo d‘imitarli, e dalla mia bocca non usciva che un suono: Serena, Serena!
— Ed io che dovevo chiudermi le labbra, per non lasciar uscire il vostro nome, perchè mi pareva di peccare? E che quello che accade oggi, non dovesse mai accadere. Ma dite, è tutto vero, non è un sogno?
— Senti, sono un fantasma io? – e le strinse la mano così forte, che le fece dare un grido.
— Ma quando non sarete più qui, crederò d‘aver sognato, sdraiata sull’erba, dove stavo ad ascoltare ciò che gl‘insetti si dicono, e ciò che il vento sussurra alle piante. Tutti, tutti parlano ed hanno il loro linguaggio, e tutti dicono d‘amarsi, non è vero?
— Facciamo presto il nido, che il tempo vola, ed i minuti della felicità sono preziosi.
Ma quando egli scomparve dietro il monte, Serena credette d’aver sognato, aveva però nel cuore una, gioia mai provata, era invasa dall‘incanto che la circondava, quasi le parea che la primavera le trascorresse per la persona, come il succo vitale serpeggia pei rami delle piante; era una specie di rinascita, una trasformazione di tutto il suo essere. Se prima vegetava, ora sentiva la gioia di vivere, e là immobile sulla collina, fissava lo sguardo lontano, coni ansia aspettando. E l’atteso veniva tutti i giorni, e dimenticava le ore lassù; le parlava sempre, le si avvicinava carezzevole, non staccava gli occhi da lei.
A Serena pareva proprio d‘esser cambiata in un uccello, d’avere le ali, e che quello ch‘egli le diceva, non fossero parole, ma un canto, una musica soave, come quella della natura che la circondava. E venne il giorno in cui appoggiata al braccio di Mansueto, discese con lui la collina, seguita dalla fida capretta. Le campane suonavano a festa, e le fanciulle del villaggio salirono loro incontro colle mani piene di fiori. Gli uccelli pareva che cantassero più allegramente, ma essi non sentivano nulla, immersi nel loro sogno d‘amore.
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Il nido era divenuto più comodo e bello; di fuori, la casetta s‘era inghirlandata di rose, come se vi fosse passata una fata benefica. Davanti, il giardino era ben coltivato e fiorito; internamente i mobili semplici erano disposti in modo comodo e aggradevole alla vista. Tutto era lucido e pulito. In un angolo c‘era una culla di vimini morbida e soffice, che più d‘ogni cosa, dava l‘imagine del nido. E dopo poco tempo s‘udirono dei vagiti uscire da quella culla che scendevano al cuore di Serena e Mansueto, come note melodiose; e procuravano di coglierne il significato, come avevano fatto un tempo col canto degli uccelli. Dopo pochi anni una nidiata di bimbi fui vista correre per la casa,devastare il giardino, ed empire I‘aria di grida e risate. Serena e Mansueto se ne compiacevano, e dall‘aumento della famiglia acquistavano nuova lena al lavoro. Lavoravano assieme, e l‘opera non riusciva, punto pesante, perchè diventavano sempre più robusti e temprati alla fatica. Per ogni figliuolo che nasceva Mansueto comperava qualche campicello, e seguendo l‘esempio del padre, calcolava di formare per ognuno un piccolo patrimonio.
Ebbe cinque maschi, ed una bambina, che era l‘adorazione di tutti. I più piccini passavano la giornata giocando, i più grandicelli erano già di qualche aiuto ai genitori, pascolando le bestie, oppure occupandosi dei lavori campestri. Variavano le occupazioni col mutare dei raccolti. Quando si falciava il fieno era un‘allegria vedere quei bimbi saltare e far capriole sui mucchi di fieno odoroso. Quando spannocchiavano il grano, era una festa e liberavano le pannocchie dorate dal loro involucro, canterellando allegramente, poi si rotolavano ridendo sulle foglie secche. E i genitori si compiacevano di vederli crescere così vispi e laboriosi. Di tutto godevano perchè avevano la forza e la salute,e il lavoro non riusciva ad essi una fatica, ma una distrazione.
Il loro mondo era concentrato nella cerchia delle verdi colline che cingevano i loro campi, e quando Mansueto guardava al di là di quel confine, dove sapeva esserci tutto un mondo, che si arrabatta per possedere ricchezze effimere, che s‘affatica per dei vani onori, che logora la salute in cerca di piaceri,che procurano amarezze; li compiangeva e si persuadeva ch‘egli aveva trovato il lato vero e piacevole della vita. Anche i figli imparavano ad accontentarsi di quanto possedevano e a non guardare al di là dei loro monti.
Però quell’esistenza tranquilla e serena non era scevra di nubi; quando veniva la tempesta a devastare i campi arati, era una tristezza per tutti; poi non mancavano altri incidenti spiacevoli: un bimbo che ammala, una pecora che cade in un burrone, e così via. Ma sopportavano tutto con rassegnazione essendo uniti in un sol pensiero e amandosi reciprocamente.
Serena, non era più la fanciulla svelta, che saltellava sui monti, come un capriuolo. S‘era fatta una bella donna, dalla faccia sempre ridente, dai movimenti calmi, e sorrideva ai figliuoli, che volevano correre, muoversi, divertirsi.
Essi andavano al mercato per vedere tanta gente, non mancavano mai alle feste del villaggio, e quando la sera d‘estate danzavano sull‘aia, si sentivano allegri e contenti, come fossero padroni del mondo.
D‘inverno facevano cuocere le castagne sotto la cenere, si divertivano ad ascoltare i vecchi, che raccontavano le storie del tempo passato.
— Perchè non abbiamo anche noi in casa lui vecchio? – diceva Rosa, la figlia piccina. – Sarebbe così divertente! ci racconterebbe tante storie, e c‘insegnerebbe tante cose che non sappiamo.
— Sarebbe troppo bello! – diceva Celso, il figlio maggiore.
E scuotevano il capo, quando qualcuno diceva loro ch‘erano felici, e non avevano nulla a desiderare.
— Sì, che desideravano qualche cosa, – essi rispondevano, cioè un bel vecchio colla barba bianca, che tenesse sulle ginocchia i più piccini, e accarezzasse le teste dei più grandi! E parlasse di paesi lontani e di popoli sconosciuti!
Questo desiderio era quasi una fissazione in quella famiglia, e quando qualche vecchio pastore scendeva dalla montagna, e s‘adagiava sull‘erba, pascolando le pecore, quei bambini gli si sedevano intorno tempestandolo di domande. Poi gli portavano da mangiare, e lo invitavano a casa loro, ma non riuscivano a trattenerlo, egli ringraziando ritornava ai suoi monti.
Un giorno d’autunno, mentre Mansueto e Serena erano occupati a ritirare il raccolto nel granaio, e a prepararsi per la fredda stagione che si avanzava a gran passi, i bimbi che si trastullavano a gettar sassolini in un fossato, a rincorrersi, e a spogliare le viti degli ultimi chicchi dimenticati dai vendemmiatori, videro in distanza salire la collina con passo stanco, soffermandosi ad ogni istante per pigliar fiato, un vecchio colla barba bianca, e la chioma fluente. Egli s’avviava verso la loro casa, ed essi sospesero i giochi per osservarlo.
— Viene proprio da noi! – disse Celso.
— Fosse vero! – esclamò Rosa. – È il vecchio da me veduto tante volte in sogno! Così colla barba bianca! Come sono contenta!
— E viene davvero! – disse il ragazzo. – Da questa parte non vi sono altre case.
— Poveretto, come fatica! Porta in spalla una bisaccia! Corri, Celso, a prendergliela, tu che sei forte – disse Rosa.
E Celso non se lo fece dire due volte. E in pochi passi si trovò vicino allo sconosciuto.
— Bravo giovanotto! – disse il vecchio. – Liberami da questo peso, così arriverò più presto!
Poi gli chiese:
— Il padrone di quella casa si chiama Mansueto, non è vero?
— Sì, è il babbo.
— Come, sei suo figlio?
E il vecchio lo guardò in volto con tenerezza,e voleva quasi abbracciarlo, ma poi riprese:
— Dimmi, siete contenti lassù?
— E perchè non si dovrebbe, esserlo? Abbiamo abbastanza da vivere, e siamo sempre allegri. Una cosa sola ci manca.
— Quale?
— Un vecchio colla barba bianca come voi! L‘abbiamo tanto desiderato! Se volete venire!
— Ma i vecchi, sono tristi, sai!
— Ma sanno tante cose! Il babbo dice sempre che bisogna amare e rispettare quelli che hanno tanto vissuto.
— E mi accoglierà bene tuo padre? – disse il vecchio colla faccia illuminata da un pensiero lieto.
— Vi riceverà come una benedizione del cielo!
— Andiamo, presto! – disse il vecchio, ed il suo passo s‘era fatto più rapido e leggero; pareva quasi che la notizia datagli dal fanciullo lo avesse ringiovanito di dieci anni. Ben presto raggiunsero gli altri che gli furono intorno a festeggiarlo, e circondato da Quella nidiata di vispi fanciulli, giunse alla casetta bianca, che sorrideva illuminata da un raggio di sole.
Serena e Mansueto uscirono, udendo il rumore dei bimbi festanti, e quando Mansueto vide in mezzo a loro il vecchio dall‘aspetto venerando, riconobbe al lampo degli occhi colui che lo aveva educato da fanciullo, e che aveva sempre scolpito nel cuore.
— Padre! – disse. E si gettò commosso nelle di lui braccia.
Quando il vecchio Eraldo fu seduto comodamente nella stanza dove si soleva radunare la famiglia di Mansueto, dovette rimanere qualche minuto senza parlare, perchè la gioia era stata così grande che gli aveva tolto il fiato.
Ma, appena potè riaversi disse:
— Mi pare un sogno di ritrovarti così bello e contento con questa allegra corona intorno a te!
E diede un‘occhiata ai bimbi.
— Se tu sapessi quanta tristezza regna dai tuoi fratelli; ne ho ancora il cuore tanto addolorato, che soltanto in mezzo a voi potrò provare un po’di sollievo! Qui ho trovato il compenso di tutti i miei dolori, e sento che potrò almeno chiuder gli occhi tranquillo.
— Non parliamo di melanconie, tu devi restar con noi per molti anni! – dissero tutti in coro.
— Speriamo! – rispose il vecchio.
— E i tuoi viaggi? – chiese Mansueto.
— Ne ritorno stanco e disilluso. Speravo di trovar un popolo felice, ma…. invano. Sia il governo buono o cattivo, tutti si lagnano; tutti vorrebbero regnare, e nessuno è contento del proprio stato! Speravo di trovare un uomo sincero. Ne trovai uno solo, che amava la verità, e aveva il coraggio di dirla, ma egli era fuggito da tutti come se fosse appestato, perché a questo mondo ognuno vuol essere ingannato. Beati voi che siete vissuti lontani dal mondo corrotto e dalla società, in questo luogo tranquillo dove regna la pace.
Durante il discorso del vecchio i bimbi gli si erano posti intorno, i più piccini gli tiravano la barba, i più grandi pendevano dalle sue labbra, e lo guardavano estatici. Serena e Mansueto erano lieti, perchè ad essi pareva che la benedizione del cielo fosse entrata nella loro casa.
Il vecchio Eraldo abbracciava tutti collo sguardo; sorrideva sembrandogli d‘essere ringiovanito, e pensava che qualche volta I‘uomo è molto sciocco. Va lontano a cercare la felicità, quando può procurarsela ovunque, purché abbia gusti semplici, e sappia amare ed apprezzare le cose che lo circondano.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Mansueto
AUTORE: Cordelia
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Nel regno delle chimere : novelle fantastiche / di Cordelia - Milano: Fratelli Treves edit, 1898 - 283 p. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FIC004000 FICTION / Classici
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)