Il chiodo.
di
Adolfo Albertazzi
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I.
Quasi in mezzo al viale, fuori della polvere, un chiodo arrestò lo sguardo, il passo e il pensiero del conte Mauro. Era un chiodo ancora buono, benchè un po’ arrugginito e storto. Quanti l’avevano veduto? E perchè nessuno di quanti l’avevano veduto si era chinato a raccoglierlo? Trovate le risposte, del resto semplici ed ovvie, lo prese su lui, e seguitò la passeggiata verso la chiesa dei Cappuccini.
Pensava intanto: — Ogni cosa, sia pur minima, ha il suo valore. Dunque: cercate di non perdere nulla; non spregiate nulla; raccogliete sempre ciò che fu perduto, o gettato via, e tenetene conto. Imparate, cioè, a osservare e a riflettere.
Ai quali consigli altri ne seguivano, se non del tutto nuovi, sempre belli. — Profittare anche andando a spasso; vincere la pigrizia; esercitar la pazienza.
Ma dal considerare il chiodo che rigirava fra le dita il pensatore arrivò a conseguenze di maggiore importanza, per lui. Nelle brevi soste al Caffè Vecchio, dal tabaccaio nel Borgo, nella farmacia di San Rocco, non era solito ammonire che a consolazione della vita bisogna mirar in alto? Ora a vederlo prendere su da terra un chiodo tutti l’avrebbero accusato di contraddizione. E no. Se quella era un’azione giovevole, se un’azione giovevole in sè vale a pubblico esempio, ecco che si può mirare in alto anche guardando in basso. Nè bastava. Per la democrazia predominante là, nella piccola città romagnola, egli era forse un aristocratico in cui l’orgoglio della razza aveva assunto l’abito del filosofo fannullone, appartato e schivo.
— Ebbene — concluse Mauro Agabiti giunto che fu alla chiesa francescana —, anche per questo, da stasera in avanti, cercherò dei chiodi. Chi si umilia sarà esaltato.
Gli accadeva sempre così. Concepita un’idea, a forza di dedurre, la tirava alle conseguenze estreme, che stupivano chi non possedeva l’energia logica di lui. E avendo pensato che pur l’esercizio di rintracciar chiodi non mancasse di morale efficacia, fu condotto a cercarne dove più se ne trovassero, e quindi dove la necessità dei chiodi nuovi rendesse maggiore la dispersione dei vecchi.
In via del Fossato, lungo le mura, erano botteghe di falegnami, fabbri, maniscalchi. Ivi, due o tre volte la settimana, la persona del filosofo, alta, magra, vestita di nero, il volto pallido e la bianca barba sotto il cappellaccio grigio, passava adagio adagio rimuovendo la polvere con la punta del bastone; talvolta arcuandosi nell’atto di tendere il braccio e la mano. Allora, se coglieva qualche cosa, gli balenava un sorriso dagli occhi chiari e guardava qua e là, come aspettasse di essere interrogato. Ma coloro che l’avevano osservato, e ridevano, si voltavano in fretta per non farsi scorgere; rispettavano in lui l’uomo generoso e diverso dagli altri ricchi appunto perchè, a parer loro, tócco nel cervello; e ne compativano la nuova, innocente manìa. Nessuno gli chiedeva: — Cosa accatta, signor conte? —; nessuno lo pungeva ironico o mostrava meraviglia; ed egli doveva mettere in tasca il chiodo e rimettere il discorso, pronto da un pezzo, a migliore occasione. Presto o tardi la sperimenterebbe, la virtù dell’esempio! — Infatti….
Una delle ultime fucine del Fossato era quella del fabbro Dondelli, detto Dondèla; e un giorno che questi lavorava altrove, il conte, quasi davanti al portone di lui, si chinò; con impeto allungò la mano…. Ahi! che dolore! Scottato. Le dita lasciarono subito la presa. Scottava, bruciava! Ma stringendo fra i denti il pollice e l’indice, in cui il chiodo aveva lasciato l’impronta della strinatura, il filosofo restò immobile ad aspettare. Il chiodo si raffredderebbe: no?
Intanto risate di ragazzi, trattenute a fatica, giungevano da ogni bottega, come gemiti.
— Ridono? — pensò il pensatore. — Dunque è una burla!
E quasi il bruciore, che non scemava, gli affrettasse il raziocinio, seguitò: — Una burla senza intenzione di ferire in me avarizia o gretteria; tutti mi conoscono. È una burla ingenua, che attesta però una intelligenza non comune. Bravi!
A questo punto nella bottega del falegname di contro il ridere si mutò in pianto schietto, e sotto la grandine degli scapaccioni paterni un garzoncello gridava: — Non sono stato io! È stato lui, là, che l’ha riscaldato! Celso!
— Birichini! canaglie! — urlava il genitore per farsi ben udire dal signor conte.
«Lui, là?» «Celso?»
Il filosofo pigliò su, risolutamente, il chiodo ancor caldo; lo mise in tasca ed entrò nella fucina di Dondèla.
— Celso — disse con l’usata dolcezza —, mi daresti un po’ d’acqua?
Subito, di dietro all’incudine dove se la godeva ridendo piano piano e solo, il ragazzo balzò a prender la secchia, la portò, la depose ai piedi del signore. Il quale v’immerse la destra e sogguardò mentre, refrigerato, seguitava tra sè:
— Ha dell’ingegno; molto ingegno! Si vede dagli occhi; si capisce dalla prontezza degli atti. Dunque non è contento del suo stato. — E disse:
— A te non ti piace di fare il fabbro.
Il monello, che si aspettava tutt’altro discorso e tutt’altro tono, sorrise e rispose franco:
— Nossignore.
— Bene. Cosa ti piacerebbe di fare?
Sempre più inanimito da quel “bene” rispose:
— Il signore.
— Ho capito — disse il filosofo. — Vorresti diventare ingegnere o avvocato o medico, o che cosa?
Ma ora Celso rimase perplesso. Non erano dimande inopportune? «Fare il signore» non significava «far niente»?
— Via! — insistè il conte rialzandosi e asciugandosi le dita nel fazzoletto. — Quale professione sceglieresti?
Bisognava finirla.
— Nessuna.
Fu un nuovo colpo inatteso. Ma non doloroso; anzi! Al filosofo parve di giungere improvvisamente a una felice scoperta; tale che tacque a lungo. Poi tolti dal gilet alcuni soldi, li porse al ragazzo.
— Ti ringrazio; e ci rivedremo.
Era poco lungi, per la strada, quando udì dei passi dietro a sè. Si volse. Celso col cappello in mano, disse (e le labbra gli tremavano): — Mi perdona?
Il conte gli pose la destra sulla spalla e tornò a fissarlo. Che occhi! — Sì, figliuolo!
E riprese la strada pensando: — Intelligenza; animo ardito; cuore, e, per di più, inclinazione latente!
II.
Questa dell’«inclinazione latente» era una delle sue idee. Anche nel campo dell’intelligenza — diceva — la natura è non di rado riserbata, quasi timida, gelosa dei suoi tesori; e ingegni non comuni restano improduttivi e sconosciuti non solo perchè sono mancate le condizioni propizie al loro sviluppo, ma perchè nessuno ne ha saputo intuire la disposizione segreta, rimasta ignota a loro stessi; nessuno ne ha eccitate le intime facoltà creative. — E soggiungeva candidamente: — È il mio caso. Io non sono un imbecille, eppure a sessant’anni non so ancora come sarei potuto riuscire più utile alla società e alla patria, e divenire un bravomo.
— Facendo il professore di filosofia — insinuava qualcuno, credendo di fargli piacere. Egli scuoteva il capo.
— No, sarei stato ugualmente inutile.
Per esser utile, da un pezzo, aveva rivolta l’attenzione psicologica agli adolescenti che conosceva. Ma non uno che dimostrasse d’aver molto sale in testa e alla domanda: — In qual modo, per che via preferiresti diventare un uomo celebre? — rispondesse: «Non lo so». Lo troverò una volta o l’altra — ripeteva il filosofo, saldo nella sua convinzione.
Finalmente! L’aveva trovato nella fucina di un povero fabbro!
Dondèla ebbe l’avviso di presentarsi la mattina dopo al palazzo Agabiti; e vi andò di malavoglia, per causa del chiodo scottante, la cui storia già esilarava tutta la città. Invece l’aspettava una bella fortuna. Il conte gli propose di stipendiargli un garzone più abile di Celso e di assumere Celso al suo servizio.
— Ho bisogno di un giovine che aiuti la vecchia Cleofe nelle faccende di casa; ho bisogno di uno che aiuti me nelle mie faccende: contabile, segretario, bibliotecario, ecc.
— Misericordia! — esclamò Dondèla in un impeto di lealtà. — Ma cosa vuol cavarci da mio figlio? Non ha voglia di far niente! È la mia disperazione!
— È la mia speranza! — ribattè il conte Mauro con solennità profetica.
III.
I libri dovevano prestar lo strumento più sicuro per l’assaggio intellettuale. Due o tre ore al giorno furono dedicate alla lettura e allo studio nella domestica biblioteca. E mentre uno ritornava ai filosofi primitivi, che amava di più, l’altro pareva immergersi tutto nei volumi dei novellieri, dei poeti e degli storici.
Ore deliziose! Beati pomeriggi! Maestro e discepolo s’addormentavano a un tempo. Ma se si svegliava prima Celso, con una pagliuzza solleticava il naso del conte; questi agitava la mano quasi a scacciare una mosca e soffiava spalancando gli occhi, e chiedeva: — Hai letto? Bel libro, è vero? —. Se invece si svegliava prima lui, aspettava che il discepolo sollevasse il capo e guardasse confuso. Allora gli diceva: — La gloria, mio caro, non si acquista dormendo come noi. Solo a prezzo di fatiche e vigilie molti autori delle opere che ci stanno d’attorno sono arrivati a non morir mai.
Col suo sorriso Celso pareva dire: — Eh via! che qualche buona dormitina la facevano anche loro!
— Pensa alla gloria, ascóltati — seguitava il filosofo. — Non ti piacerebbe di vivere in eterno, sia pure in uno scaffale di biblioteca? Che cosa senti a tale pensiero?
L’altro annusava e rispondeva: — Sento puzza di muffa.
— Hai ragione — concludeva il conte Mauro —; apri le vetrate. Di quando in quando bisogna dare aria anche agli immortali.
E uscivano a spasso. Non però in cerca di chiodi. La famosa raccolta era già finita, se non con la piena efficacia che il filosofo aveva sperata, in modo tuttavia abbastanza edificante. Più di una volta, uscendo di casa, si era imbattuto in monelli che gli offrivano manciate di chiodi spuntati e storti. Egli li ricompensava a soldi; e così il buon esempio fruttava ai raccoglitori, almeno dal lato economico. Ma Celso non esitò ad affermare che, per quanti chiodi perda l’umanità, quelli eran troppi, e dovevano essere rubati.
— Bene! — fe’ il conte. E con le tasche piene della raccolta legittima o illegittima, andò da tutti i fabbri e falegnami a chiedere: — Ve ne mancano? — Rispondevano di sì? Risarciva di sua tasca e diceva: — Se io non fossi andato alla mia ricerca, voi, ora, non sapreste d’aver un ladruncolo in bottega. Educatelo a mirar in alto.
IV.
Il campo dello scibile è lungo e largo, e quando un cervello balzano può scorrazzarvi dentro secondo gli frulla la voglia, è difficile tenergli dietro per vedere dove stia meglio, difficile sperimentare dove gli aggradirà, alla fine, mettersi a posto. Nessuna meraviglia che l’esperimento del conte filosofo durasse parecchi anni. Quante volte esclamò dentro di sè: — Ci siamo! Si ferma! Lo fermo! —, e il cervello di Celso voltava e scappava da tutt’altra banda!
Il procedimento alla scoperta fu metodico: per induzione o deduzione, ed esclusione. E scartati, sin dai primi tempi, la letteratura e gli studi affini, che addormentavano il ragazzo e gli davano il senso di muffa, c’era da ritenerlo segretamente disposto alle scienze anzi che alle arti. Ciò rispondeva pure al segreto desiderio del maestro. Farne, per esempio, un grande chimico?
Questa speranza derivò logicamente dalla considerazione che la vecchia Cleofe non salvava dalle mani di Celso neppur uno dei suoi garofani fioriti.
— Mi piacciono tanto i fiori! — esclamava lui con la voce soave delle ragazze che glieli chiedevano.
Ecco forse la via buona, che conduceva — oltre che alla floricoltura — alla botanica, e allo studio degli elementi costitutivi e produttivi del terreno: cioè alla chimica agraria, e quindi alla chimica in generale.
Tutto un inverno per il conte e Celso, e anche per la Cleofe, passò in una illusione di primavera. Contemplavano cataloghi di giardinieri, leggevano manuali di orticoltura, vedevano l’orticello attiguo alla casa mutato in Eden. Celso, che aveva già quindici anni, ci vedeva anche, nell’Eden, delle belle ragazze che esclamavano con voce soave: — Mi piacciono tanto i fiori! —; e sopportava le spine: i trattati di chimica organica che il conte, senza insistere, intrometteva a quelli del regno vegetale.
A marzo furono provvedute le sementi dei fiori scelti. E pur troppo insieme con esse e con i vasetti e i barattoli di concimi chimici, entrarono nella biblioteca volumi pieni di formule, lambicchi e storte.
Ma le piantine erano appena spuntate nei letti caldi che lo studente involontario misurò il pericolo. — Se il giardino va bene, son rovinato; mi tocca sgobbare più di un farmacista!
Accadde così che, poste a dimora, le pianticelle dei fiori allevati con tante cure, sembrarono svilupparsi tutte uguali: rigogliose, ma tutte uguali.
— Come sarà? — si chiedevano stupiti il conte e la Cleofe.
Il loro stupore sarebbe stato meno grande se avessero saputo che nelle aiuole Celso aveva profuso una certa semente, per cui, ad aprile, l’orto di casa Agabiti era trasformato in una magnifica distesa d’ortica.
Logica conseguenza: il disgusto, la disperazione di Celso; i volumi pieni delle formule internati negli scaffali più remoti; bottiglie, storte e lambicchi banditi dalla biblioteca.
— Hai ragione — disse il filosofo —; la floricoltura non è per te.
— E neanche la chimica — aggiunse il discepolo.
Proseguendo, il metodo — infallibile — escludeva a poco a poco la fisica, escludeva la medicina e studi affini, escludeva tutte le scienze naturali, ad una ad una.
Quando il caso rivelatore, come si sa, di molte vocazioni famose, condusse una sera il conte a esclamare: — Torniamo all’arte!
Celso stava disegnando a meraviglia una scacchiera su cui il dimani, nelle ore libere, giocherebbe con gli amici di via del Fossato.
— Per bacco! — riflettè il conte. — Conosce quello che i pittori moderni ignorano: il disegno! — Inclinazione, dunque, alla pittura o all’architettura; e propose al ragazzo di andare a scuola da un maestro che in città aveva voce di artista insigne. Celso prese volentieri l’occasione propizia per star fuori di biblioteca e scappare più spesso nel Fossato.
— Allorchè sarà in grado d’entrare all’Accademia, mi avverta — aveva raccomandato il conte al maestro. Nè volle mai vedere gli scartafacci e gli abbozzi che consumavano troppe matite, gomme e mollica di pane, aspettando la sorpresa che gli togliesse ogni dubbio per sempre.
L’ebbe! Al sopravvenire di lui, l’allievo pittore, un giorno, ritirò in fretta dalla tavola, e tentò nascondere, il foglio su cui stava sgorbiando.
— Un artista modesto? — esclamò il filosofo —: un artista eccezionale! — Chiese il foglio, guardò…. Ahimè! Che naso! E quel naso, e due occhi strabuzzati, e una barba prolissa significavano un’intenzione di caricatura nell’effigie proprio di lui, del conte.
Ma pur alle caricature non bastano le intenzioni; e il conte giudicò l’opera dal lato serio. — Ti ringrazio — disse — perchè dimostri di avermi sempre in mente; ma la pittura non è per te.
— Neanche la scultura — fe’ mestamente Celso —; neanche l’architettura.
— Neanche la musica — aggiunse il conte scuotendo il capo.
Quando infatti il ragazzo fischiettava le canzonette alla moda, stonava come stonerebbe un cane, se i cani, oltre che abbaiare e cantare, fischiettassero. E poichè non si balla senza orecchio, le arti restavano escluse tutte quante!
— Torniamo alle scienze — il filosofo ripetè a sè stesso, fiducioso. — Il campo è vasto; il caso rivelatore aiuterà!
Aspetta e aspetta…. E una sera, che era uno stellato fittissimo, Celso esclamò, ammirato e rapito: — Sapere i nomi di tutte le stelle!
Commosso a sua volta, il filosofo cominciò a nominargli e indicargli quella dozzina che ne conosceva di vista; e si domandava dentro: — Come mai non ho pensato all’astronomia? Eppure io gli vo sempre ripetendo che bisogna guardare in alto!
Celso sbagliava i conti; senza calcoli non si fanno scoperte astronomiche. Verissimo. Ma la contabilità delle aziende non è la stessa dell’astronomia: questa è matematica pura; quella, impura. Dunque, avanti!
Fu disposto che di giorno studierebbero insieme il Flammarion e la sera si eserciterebbero in escursioni pratiche per l’infinito. Quasi ci prendesse assai gusto, il discepolo non discorreva più che di costellazioni, di nebulose e di pianeti; sbigottiva la Cleofe istruendola intorno alle vicende e ai cataclismi dell’universo e annunziandole la prossima fine della terra; sperimentava la potenza del cannocchiale prismatico, comprato dal conte, perlustrando dai tetti le finestre della città e dei dintorni.
Ma tanta felicità non poteva durare. Il conte si alzava di notte e faceva alzare il discepolo, per innamorarlo sempre più delle contemplazioni celesti.
— Se seguitiamo così, mi rovino la salute — pensò Celso. E una notte gemè:
— Non vado più avanti: ho paura.
— Di che cosa? Parla!
— Ma…., ho paura.
— Sfórzati a esprimere il tuo pensiero, il tuo sentimento — insisteva il filosofo aspettandosi una rivelazione.
— In questo andar di qua e di là per il cielo, ho paura…. d’incontrarmi col Padre Eterno!
Non si poteva significar meglio il terrore dell’infinito.
— Hai ragione — disse il filosofo. L’infinito spaventa; e l’astronomia non è per te.
— E neanche la matematica — esclamò il discepolo. — E neanche l’avvocatura — aggiunse collegando la giurisprudenza alle altre discipline nella speranza di finire, una buona volta, tutte le prove.
Ma dello scibile ne restava parecchio.
Restava, per esempio, la veterinaria.
V.
Compiuti i diciott’anni, Celso Dondelli non aveva ancora dimostrata miglior vocazione che quella di star allegro e di corbellare il prossimo. Dalla scuola del filosofo aveva però acquistata tanta coltura da superare i coetanei studenti nei regi licei. — Il lievito c’è — diceva il conte —; lasciamolo fermentare.
E scorgeva sempre un’intenzione seria, un motivo ragionevole in ogni scherzo o birichinata che il suo protetto faceva. Questa benignità, ingenua o filosofica che fosse, trovava un cuore non ingrato o sleale. Per il suo protettore il giovine si sarebbe messo nel fuoco; e il conte, che sentiva l’affetto sincero nella confidenza di lui, lo ricambiava in modo così aperto che già tutti dicevano: — Lo adotterà per figlio.
Se non che all’Agabiti era rimasta una parente, press’a poco dell’età di Celso; una pronipote, per via di sorella. Allevata in collegio a Firenze, la signorina, orfana, tornò alla piccola città nativa assai di malavoglia; e temeva che lo zio la prendesse seco, in quella casa antica, con quella serva padrona.
Fu affidata invece alla custodia e alle cure di una signora che, secondo le parole del conte, le farebbe da padre; cioè gliele darebbe tutte vinte senza nuocerle con la tenerezza d’una madre troppo debole: — come sarei io — seguitava per spiegarsi. E alla signorina Amelia non fu consentito di visitare lo zio che di otto in otto giorni. — Termine sufficiente — egli affermava — perchè tu non dimentichi che ti sto vicino, e io non dimentichi che tu saresti contentissima a starmi più vicina.
Contentissima! A ogni visita la ragazza lo soffocava di chiacchiere e di carezze; e lui: — Ti ringrazio; ma come passa il tempo! Otto giorni volano!
Essa rideva.
Ora, dopo tante scene gioiose, non era da prevederne una lagrimosa?
No; il filosofo non la previde, quantunque ritenesse la nipote non diversa dalla maggior parte delle donne.
— Tutti lo dicono, zio, che vuoi più bene a Celso che a me!
A questa uscita egli alzò gli occhi al cielo pensando:
— Per mirar in alto le donne mirano al cuore; e forse dal loro punto di vista….
L’altra procedeva:
— Bisogna dimostrare al mondo che non è vero.
Lo zio disse dolcemente:
— Suggeriscimi tu il modo.
— Pagandomi un viaggetto a…. Parigi.
Egli non si scompose punto, anzi ammise: — Hai ragione; per dare questa dimostrazione al mondo intero non c’è che Parigi!
E gliela mandò; s’intende, con la tutrice, la quale aveva consigliata alla pupilla la scena lagrimevole.
Avvenne che poco tempo dopo la partenza della signorina Amelia il conte proponesse a Celso una passeggiata in campagna, a un suo podere fuori di porta. Il tragitto non era breve; e per la strada maestra quanti vedevano l’Agabiti camminare così, piano piano, con l’ombrellone di tela cerata aperto a riparo della polvere più che del sole, si voltavano indietro sorridendo.
Celso, quando non ne potè più, esclamò verso gl’importuni:
— Andiamo a Parigi!
Allora il conte si fermò, e disse:
— Hai ragione.
E riprese la via. Nel ritorno ripetè: — Hai ragione. Son vecchio; comperiamo un veicolo —. Manco a dirlo, Celso esaltò i benefizi e i piaceri delle automobili: non ultimi, quelli d’impolverare gli altri e di guidarne una lui.
E appena a casa il conte Mauro gli fe’ scrivere, alla rubrica delle spese imprevedute:
«Lire ventimila per un’automobile; spesa quattro volte più grande che un viaggio a Parigi, perchè comprende la probabilità di un viaggio all’altro mondo, con la guida di Celso Dondelli».
Ma Celso non aveva ancora sostenuti gli esami da chauffeur che il libro dei conti fu riaperto alle spese imprevedute e dato di rigo all’automobile.
— Scrivi in sostituzione — il filosofo dettava: — lire diecimila al Ricovero, cinquemila all’Ospedale, tremila e cinquecento all’Asilo, più mille e cinquecento per un cavallo e una carrozza. Che ne dici?
Il giovine alzò gli occhi al cielo:
— Miriamo in alto — rispose. E aspettò cavallo e carrozza; acquisto fatto dal filosofo senza intermediari.
Ecco. La carrozzella era della prima metà del secolo decimonono.
Meno antico, sebbene bianco di pelo, il cavallo; e non brutto: solo, aveva il vizio di camminare con un po’ di lingua fuori. Celso lo battezzò Gedeone, nome che piacque moltissimo al conte e ai concittadini. Parecchi di essi ogni volta che l’equipaggio attraversava adagio adagio la via principale per uscire alla campagna, ammiccavano al cocchiere con certe strizzatine d’occhi che significavano: «Te lo godi, eh, l’automobile?»; oppure: «Il tuo cavallo suda nella lingua come i cani».
Le quali corbellature a mezzo disturbavano il mancato chauffeur. Preferiva le risate aperte e intere; e non tardò a provocarle, per ridere meglio lui, in ultimo.
Del resto, non era vero che tafani e mosche infastidivano il buon Gedeone?
— Se gli facessimo fare una coperta da passeggio?
— E tu fagliela fare — consentì il conte.
Figurarsi quando la quasi centenaria carrozza comparve preceduta da un’ampia gualdrappa di mussolina rosea, coi fiocchi, da cui uscivano due orecchie, una mezza lingua, una mezza coda e quattro mezze gambe!
— Gedeone in veste da camera!
— Ridono per noi? — il conte chiese.
— Sì — rispose Celso —; ma non basta.
— Hai ragione — confermò il filosofo sopra pensiero —. Non basta.
Pochi giorni dopo evidentemente Gedeone era zoppo al piede destro, davanti.
— Chiama subito il veterinario.
— No — Celso disse —; lo curo io.
Fu allora che gli balenò l’idea, al conte Mauro, della veterinaria quale inclinazione latente.
Non ci aveva pensato mai perchè si era convinto che al giovine non piaceva la medicina. Ma adesso riflettè:
— C’è differenza. C’è più soddisfazione. Gli animali non aiutano a sbagliare la diagnosi. — E mormorava sospirando: — Purchè io non ci rimetta il cavallo!
Tutt’altro! La cura permise presto una passeggiata in campagna. Gedeone riapparve al pubblico con la gualdrappa rosea e un piede fasciato e grosso, simile a quello di un elefante.
— Oh! Gedeone ha la gotta! Gedeone ha la pantofola!
Il successo sperato da Celso non fallì.
— Ridono per noi? — chiese il conte.
— Sì. Ma vedrà al ritorno!
E immaginare che bocche aperte quando il presunto gottoso attraversò la città di trotto; diritto; a dorso scoperto; senza pantofola! Un miracolo! un trionfo stupefacente! Scendendo, a casa, il conte esclamò:
— Veterinaria! veterinaria!
Ma Celso smorzò l’entusiasmo. Disse che per guarire Gedeone non aveva dovuto che levargli il sasso confitto tra il ferro e l’unghia.
— Bravo! Occhio clinico!
— No — corresse il giovane —; perchè il sasso gliel’ho messo io.
Il conte riflettè; indi concluse:
— Capisco. Hai fatto bene.
Non fu della stessa opinione la signorina Amelia, appena reduce da Parigi. Ella tentò persuadere lo zio che certe buffonate non conferivano decoro alla nobiltà di casa Agabiti. Ribattè il conte che, a fil di logica, non è ridicolo chi si burla della ridicola mentalità paesana; al contrario, dà prova di serietà. E la nipote a sua volta osservò che i giovani seri fanno onore a chi li aiuta, con gli studi e con le opere.
— Sì, ma non prima che quelli a cui spetta ne abbiano scoperta l’inclinazione latente. Questo còmpito è mio.
— Eh! ci vuol altro!
«Ci vuol altro?» La frase colpì il filosofo. Disse dolcemente, dopo un po’:
— Forse hai ragione anche tu. Ci vorrebbe la donna; la donna che io non trovai: una donna capace di mirare in alto, più in su del cuore.
La signorina Amelia allora tacque. E poi si propose d’innamorare lei Celso Dondelli.
VI.
A scorgere Celso così mutato, pallido, con gli occhi or vaghi ed or fissi come in contemplazione, il conte dubitò che, per l’assiduo ammonimento di mirare in alto, il giovine fosse colto da un accesso di misticismo e si fosse destata in lui la vocazione di farsi frate. Per fortuna, una mattina mentre prendeva il caffè e latte, se lo vide davanti ancora diverso; in posizione di «attenti!», con l’aspetto dei grandi propositi; con la energica decisione dell’eroe o di chi ha perduto la testa.
— Signor conte — disse calmo —; vado allievo sergente, in cavalleria.
Soldato! Un colpo di mazza sul cranio! Ma non una di quelle mazzate che stordiscono; no: di quelle che spalancano tutte le finestre cerebrali a una luce repentina, inattesa, illimitata. Al filosofo s’illuminarono il passato, il presente, l’avvenire: il passato suo proprio, l’avvenire di Celso, il presente di tutti e due.
Oh portento! Soldato! Soldato d’Italia! Ecco l’inclinazione latente, rivelata a un tratto! Di chi? di Celso? solo di Celso Dondelli? No, no: anche di lui, del conte Mauro Agabiti! La capiva adesso, di colpo, quale era l’inclinazione sua propria, adesso che aveva manifesta, improvvisamente e finalmente, quella del suo allievo!
E il generale Agabiti avrebbe potuto fare onore alla patria; ne era sicuro. E sentiva l’amarezza del bene non mai goduto e perduto per sempre; del bene conosciuto troppo tardi. Per qual causa? Per qual colpa? Chiese, d’impeto:
— Chi, che cosa ti spinge, te, alla milizia?
— Una donna — Celso rispose senza esitare.
Fortunato giovane!
Il giovane infatti aggiungeva:
— Vuol sposare un capitano di cavalleria. Io divento sergente, sottotenente, tenente, capitano; e….
— Alt! — interruppe il conte Mauro —; come si chiama…. lei?
— Amelia.
Celso si aspettava un nuovo scatto, una impressione visibilmente profonda di meraviglia. Il filosofo invece parve rassegnarsi subito, quasi si trattasse di un decreto della Provvidenza. Non mosse che un’obiezione.
— Quando tu sarai capitano mia nipote avrà già marito da anni e anni. Chi vuoi che la tenga?
Il giovane sorrise.
— Lei! — fece tendendo l’indice verso il suo protettore.
Questi chinò il capo mormorando:
— Speriamo che la storia finisca bene per tutti; anche per Gedeone.
Venne il dì dell’addio.
— Tu non mi scriverai — disse il filosofo. — Non voglio. Io t’impongo un ricordo, osservabile, tangibile, sensibile, continuo e forte. — E gl’introdusse un anello di ferro nel mignolo della destra; il chiodo della scottatura piegato a cerchietto.
— Quando sarai al punto buono — conchiuse il conte —, portami o mandami il chiodo, e se l’Amelia sarà anche lei al punto buono…. Via!, dammi un bacio.
…. Così a Celso, prima di partire, non restarono da baciare che suo padre, Gedeone e la Cleofe.
VII.
Quasi un anno dopo che la guerra era scoppiata in Libia e qualche mese dopo che Celso Dondelli era laggiù, entrando nella bottega di Dondèla, il vecchio conte non chiese, al solito: — Notizie?
Si abbandonò sulla seggiola e mormorò:
— L’ora è giunta.
Intimorito, domandò il fabbro:
— Per Celso?
— Per me.
Ma s’ingannava pur questa volta, povero filosofo! Per Celso l’ora era già giunta (ed egli non lo sapeva); per lui doveva tardare non poco. Lo portarono a casa apopletico.
Come, trascorso assai tempo, a forza di cure, poterono trarlo dal letto…. che tristezza! Nella poltrona, con la testa reclinata allo schienale pareva obbligato, adesso, a mirar sempre in alto; e tentava al contrario di guardare in giù, quasi cercasse d’intorno, nella realtà, le immagini che gli vaneggiavano nel cervello infermo.
Che tristezza! E come lunga!
E un giorno venne al palazzo Agabiti un tenente di cavalleria, il quale disse di dover parlare al conte prima di ripartire per Tripoli. Si presentò l’Amelia; lo stato dello zio non permetteva nessun colloquio.
Ma l’ufficiale insistè. Se il malato non aveva perduto del tutto la conoscenza egli, per incarico di Celso Dondelli, caduto in battaglia presso a lui, aveva da consegnargli una cosa attesa e cara.
La signorina raccomandò, pregò:
— Non gli dica che è morto. Tanto….
Poi lo introdusse. La Cleofe dietro alla poltrona sorreggeva il debole capo.
— Guarda, zio, — disse l’Amelia.
Un breve silenzio. Finchè lo zio sorrise, quasi ridesto dall’erroneo riconoscimento.
— Ah! Sei tu?… Il chiodo?
— Eccolo — disse l’ufficiale, mentre la signorina susurrava:
— Lasciamolo nella sua illusione!
Il vecchio chiamò: — Amelia!
— Son qui, zio.
— Celso!
L’ufficiale ne comprese, dalle mosse più che dalle parole, l’ultimo volere. E mise l’anello nel dito che la signorina gli tendeva ripetendo: — Lasciamolo nella sua illusione.
Allora la Cleofe ruppe in pianto.
Ed era passato un altro anno quando il tenente di cavalleria, vicino alla promozione a capitano, tornò al palazzo Agabiti. Disse alla signorina, erede del conte: — Quella che fu illusione estrema di suo zio non potrebbe essere realtà per noi?
La signorina Amelia considerò l’anello che aveva nel dito; sollevò i begli occhi a mirare in alto e:
— Quando sarete capitano — rispose —. Questo era il patto.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il chiodo
AUTORE: Albertazzi, Adolfo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Il diavolo nell'ampolla : novelle / Adolfo Albertazzi - Milano : Treves, 1918 - 194 p. ; 16 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)