L’idolo
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 32 minuti
Tutto ricominciò in un pomeriggio d’agosto. Adesso, con qualunque cielo mi basta di levare il capo tra le case, per ritrovare quell’immobile giornata.
Ero seduto in quel salottino che non ho piú veduto, dove filtrava mi pare una penombra gialla. Venivo in quell’ora morta per essere solo. Ricordo ora che, quando lei entrò e non la conobbi, pensai soltanto ch’era un corpo troppo magro. Subito dopo, debbo essere saltato in piedi, perché mi venne incontro senz’esitare e mi tese la mano dicendo: – Che spavento. Fortuna che sono vestita –. L’altra mano se la premeva sul risvolto del colletto.
Aveva un abito bianco. Qualche istante dopo, quando piegò il capo lacrimandomi sulle dita, le vidi la nuca scoperta, annerita di sole. Al contrasto mi parve quasi bionda.
Ricordo che riuscii a dire: – Su la testa, Mina, tanto debbo vergognarmi io quanto tu, d’essere qui.
Mina mi guardò. – Non piango di vergogna, – balbettò a labbra tese, – sono commossa.
Mi fece adagio allora un sorriso che lasciai morire senza risposta. Le pieghe all’angolo della bocca incidevano profondamente: la sua antica espressione era scavata piú dura sul viso di un tempo.
— Perché mi guardi cosi? – gridò contraendosi tutta. – Credi di farmi vergognare?
Fu allora che la padrona sporse il capo fra i tendaggi scrutandomi, e subito si ritrasse. Io abbassai gli occhi sulle scarpette di Mina e, appena rifummo soli, diedi in un mugolio, sorpreso io stesso della mia voce: – È possibile, Mina, è possibile?
Mina mi fissava ora ironica, gli occhi arrossati; io la guardavo ansioso. – Non ti piace una donna abbronzata? – mi disse e si volse: – Bisogna chiamartene un’altra…
Le presi una spalla: – Mi lasci, – strillò dibattendosi, – mi lasci, non sono chi crede.
Se ne sgusciò cosí per i tendaggi, lasciandomi dritto in mezzo al salotto. Rientrò la padrona che tornò a squadrarmi, stavolta severa. Io raccolsi il cappello e mi feci alla porta.
— Tornerò un’altra volta, – balbettai uscendo.
È di quel pomeriggio e di qualche successivo, il ricordo di un cielo tranquillo e profondo che mi accompagnò per molte indocili camminate. Quando ci penso, non capisco come il tristo e incessante pensiero che mi cacciava, abbia potuto vestirsi d’una cosí serena atmosfera.
Era sabato e verso il crepuscolo mi sorpresi a rigirare per quelle strade deserte, ben sapendo che un sorriso vile mi torceva la bocca. Riattraversai il portone con un passo risoluto e, non levando gli occhi, mi ficcai nella sala comune. Dal mio angolo vidi presto che Mina non c’era e fu quasi un sollievo. La padrona mi guardò appena. Mi guardarono invece le due ragazze sedute sul divano a gambe nude accavalciate, e una mi colse l’occhio. I molti uomini seduti intorno alla parete fissavano il pavimento vuoto con un’aria assorta. Una ragazza grassa seminuda, in piedi in fondo alla sala, parlottava con un sergente.
Mina non compariva. «È sopra che lavora», pensai. Ecco che mi mordevo le labbra parlando a me stesso e un’angoscia intollerabile mi serrava le costole. Andai dritto alla padrona e le chiesi di Mina.
— Chi è Mina?
Le ricordai del pomeriggio. Sulle labbra dure della signora comparve un sorriso di dubbio.
— Lei vuol dire la Manuela. Non è scesa. Adelaide, va’ a sentire Manuela.
Una delle due ragazze mi precedette sulla scala canterellando e voltandosi ridente. Aveva lunghe gambe che facevano a tre i gradini, ma andava adagio, aspettandomi. Sopra, sbatterono delle porte. Pensai che anche questa era una cara ragazza. Mi pareva di andare con lei.
— Voialtri uomini volete sempre quella che non c’è, – disse Adelaide nel corridoio.
Entrammo in uno scuro che sapeva odor di bagno.
— Apri la luce, Manuela –. La vidi distesa sul letto col braccio sollevato all’interruttore, i capelli negli occhi, vestita come al pomeriggio ma scalza. – Aspettate, – disse con una brutta smorfia, balzando a sedere. Cacciò i piedi nelle scarpette, corse per la stanza, si guardò attorno, ritornò verso il letto. – Sei cattiva, Adelaide, – disse volgendo la schiena a risalire. – Va’ via, va’ via.
Quando fummo soli, la guardai smarrito. Sotto le sue gambe distese c’era quella terribile stuoia. Accanto al letto, sul suo capo, pendevano camiciole leggere. A terra, uno scendiletto sfilacciato.
— È impossibile, Mina, è impossibile.
— Ti aspettavo, Guido, sapevo che saresti venuto.
— Sei rimasta su per aspettarmi?
Mina scosse il capo, sorridente. – No, stavo male davvero, in questi giorni sto male, ma sapevo che saresti tornato.
— Mina, devi dirmi tutto. Perché sei qui? perché? Non posso crederlo.
Quegli occhi s’indurirono. – Non c’è niente da dirti, no? Che sono qui, mi pare basti. Che cosa vuoi sapere? Ero sola e ho cercato lavoro. Se vuoi parlarmi, lascia stare questo.
— Ma tuo padre, Mina, tuo padre, che mi diceva sempre che ero un fannullone, ricordi? – non seppi sorridere, – lo sa tuo padre? Ti credevo laggiú…
— Papà è morto, – disse Mina senza abbassare gli occhi.
— Oh, – mormorai. – Ma perché non mi hai scritto, non mi hai cercato? Tante volte ho pensato a te, ti credevo sposata; eppure al mattino – ricordi? – certe volte dicevo: Forse Mina mi aspetta.
— Mina mi aspetta, Mina si è sposata, ma di scrivere non sei stato capace. E ora ti lamenti? – Mi caddero gli occhi. La voce ridivenne sommessa: – Davvero hai pensato a me qualche volta?
— Oh Mina.
Ronzò un campanello da qualche parte nel corridoio.
— Lo sa la signora che sei qui? – mi chiese bruscamente, balzando.
— Mi ha detto lei di Manuela…
— Guido, non puoi restare, la signora ti considera un cliente: in queste cose è il suo interesse, ci vedremo domani…
— E perché non posso restare? Sono un cliente. Pagherò come Manuela fosse un’altra. Quanto costa mezz’ora?
Mina abbassò la fronte sul cuscino. Mordendomi il labbro, trassi le cinquanta lire che avevo e le posai sul cassettone. Gli occhi fuggenti di Mina mi fissarono, raccogliendosi intenti. Poi allungò il braccio e suonò tre volte la peretta.
— Tu lavori e guadagni? – mi disse.
Mi sedetti sul letto. Faceva un caldo greve e sarei uscito sudato: allora non me ne accorsi.
— Io sto male, sai, – disse Mina. – Mi dolgono le reni se dormo sul fianco. Faccio una vita poco sana. Ma quest’anno sono stata al mare e va già meglio. Dovrei vivere sempre all’aria aperta.
Le persiane misteriose erano chiuse e accecate. Nessun rumore veniva dall’esterno.
Disse sollecita: – Che hai, Guido? – e mi prese una mano. Senza levare il capo dal cuscino mi fissava con occhi grandi. Io le strinsi le dita per esprimere quell’angoscia.
— Che t’importa di me? – disse pacata. – Sono cose lontane, lontane come Voghera. E tu magari sei sposato.
Scossi il capo. – Non sarei venuto qui.
— Ma poverino, – scattò Mina, levandosi sul gomito. – Tu cercavi una donna.
— La cerco sempre, – dissi.
Mina non m’ascoltò. – Che sciocchi eravamo, – disse. – Non rimpiango però nulla di quell’estate: e tu?
— Io rimpiango l’inverno, che ci siamo lasciati.
Mina si mise a ridere, di quel riso leggero che avevo dimenticato.
— Oh Mina…
— Sta’ buono, sono malata.
— Almeno un bacio, Mina.
— Baceresti Manuela.
— Mina.
— Domani, ci vedremo. Domani mattina. Forse potrò uscire. Non dispiace anche a te vederci qua?
Ora che tutto è successo, rimpiango di non essere stato, in quel giorno brutale e di averle lasciato iniziare il suo gioco. Ma oggi ancora mi domando: forse che lei voleva?
Per nascondere il tremore delle labbra, accesi una sigaretta. – Io fumo, sai, – mi disse Mina.
Fumammo insieme, discorrendo ancora. Io volgevo il capo e me la vedevo distesa dietro, supina a guardarmi. Evitavo con gli occhi l’angolo del lavabo ingombro di asciugamani e di barattoli. A poco a poco ammutolivo. C’era a terra una grande bottiglia violetta.
— Dammi quel bacio, Guido, – mi disse brusca Mina. Mi volsi e le presi le guance: facendo uno sforzo, la baciai. Mina mi sussurrò sulle labbra: – È sempre estate, Guido, – e si staccò.
Stemmo in silenzio. Io le presi la mano e la serrai. Mina saltò dal letto. – Sono troppo felice, – mi disse affannata. – Sono troppo felice: va’ via, potresti cambiare. Sí, domani ti aspetto… Prendi quello, là sopra: tu magari ne hai bisogno, son’io sola che debbo far festa: oggi è la mia giornata…
Io guardavo il biglietto, riluttante.
— …E allora dallo tu alla signora, ti deve dare venti lire, sta’ attento. Ma non lasciarlo qui; Guido: sí, addio.
L’indomani le dissi che volevo sposarla. Mina s’arrestò aspirando d’un ansito l’aria fresca e immobile della strada e, nel tumulto che ci avvolse sul marciapiede, sussurrò un gemito chiudendo gli occhi. – Non importa, – mormorò, – se hai detto per dire, non importa, sei buono.
Il pomeriggio di quella domenica lo trascorsi, nelle ore bruciate, girando le strade. In nessun luogo mi riusciva di sedere e aspettare la sera, l’addolcirsi del cielo, il ritorno di quell’ora del giorno prima. Fino a martedí non dovevamo vederci. Parlavo a scatti, febbrilmente, tutto solo. Verso sera, ritornai nella mia stanza e, buttato sul letto, fumando, guardavo calare l’atmosfera dorata sui vetri sudici della casa di fronte.
Nel crepuscolo mi accorsi che, ascoltando un silenzio improvviso, stavo un attimo senza pensare a nulla. Allora mi spaventai di avere chiesto a Mina di sposarmi, di essere uscito con lei. Ero seminudo nel letto e scorsi gli occhi commiserando dal petto alle gambe che allora avevo brune, di un bruno leggero. Com’era fatta, Mina? L’idea di essere il solo a non saperlo, mi fece ghignare.
Mi alzai d’un tratto, risoluto, e mi vestii. Giunto davanti a quel portone, esitavo ma, costringendomi a un sogghigno, suonai subito.
Mina stavolta mi guardò atterrita. Era sull’uscio della sala comune, vestita di bianco e parlottava alla signora. Mi saltò incontro e mi afferrò una mano, facendomi sedere sul sofà dell’anticamera. Cadde anche lei, senza guardarmi, accanto a me. La padrona, dall’uscio, mi fece un cenno lieve del capo.
Stemmo seduti, senza aprire bocca. Fissavamo il pavimento a mosaico. Mina mi stringeva sempre il polso, convulsamente, e fui io il primo a levar gli occhi quando passarono due giovanotti, diretti in sala.
— Vuoi che me ne vada, Mina? – dissi a fatica, piano.
— Perché sei venuto?
— Non so.
— Non sei contento di stamattina?
— Ti voglio sposare.
Mina sorrise. – Non sono libera.
— Come?
— Ho il mio lavoro.
Mi contorsi, ruggendo.
— St! Guido, va’ via –. Nella sala parlavano forte e, in mezzo, la voce acuta di una donna.
— Vai: ci vediamo martedí mattina. La signora ci spia.
— Non ho niente da nascondere.
— Guido, te ne supplico. Piuttosto, senti, – riprese esitando, – torna che io non ti veda e cerca Adelaide.
Feci una smorfia e alzai le spalle. Mina sospirò, guardandomi di sottecchi.
— Mina, hai qualche malattia forse? – chiesi senza guardarla.
— Oh no, Guido. Come non capisci?
Uscirono un signore e una ragazzina dalla scala e scomparvero nel corridoio. Spuntò la padrona.
— Non capisco, – dissi. – Perdonami, Mina.
— Martedí ci vedremo. Fidati, Guido. Ora, vai.
Ci guardammo, e scappai fuori senza voltarmi.
Dopo un cento metri, mi tornò sulle labbra quel sogghigno di prima. Camminavo brontolando e la tensione presto mi indolenzí le guance. Il fresco del primo buio e la folla domenicale non servivano a distrarmi. Mi ripetevo le parole che avrei dovuto dire a Mina, me ne agitavo e una grande amarezza mi riempiva la bocca.
L’indomani all’alba sul treno che mi portava in provincia, trovai un po’ di pace. Ero assonnato, il treno andava e godevo intontito quel fresco tepore. Sotto la mano abbandonata sentivo, occhi chiusi, la busta dei miei campioni e quel viaggio era bello, cosí uguale a tutta la mia vita eppure nuovo, pervaso di un’indicibile e penosa dolcezza. In fondo, era quanto avevo sempre sognato. Nella coda dell’occhio mi passavano i campi che il sole radente svegliava. Intravidi un istante che entravo, occhi chiusi, sotto un nuovo orizzonte dove ogni cosa, la piú atroce o la piú meschina, mi sarebbe potuta accadere.
Pensavo a Mina nel torpore del suo risveglio, ci pensavo avendo ancora nel corpo il calore del mio letto, e non potevo odiarla. Le ero grato di quel dolce desiderio che m’invadeva le vene. Certo era sola nella sua stanza. In quell’ora era sola, e potevo pensarla. Mi faceva sorridere quel consiglio esitante di provare Adelaide. Chi sa. Adelaide e Manuela. Forse erano amiche.
Fu martedí mattina e c’incontrammo nella stazione, al mio ritorno. Tornavo apposta per vedere lei, che avrei dovuto continuare in automobile il mio viaggio su quelle colline alla ricerca di certi clienti. Mina mi disse che usciva ormai troppo spesso e questo la danneggiava, nella salute e agli occhi della padrona.
— Non hai bisogno d’aria fresca? – mormorai.
Mina mi fece attendere davanti a un negozio di calzature e uscí quasi subito con un piccolo pacco. Dritta e raccolta nell’abito marrone abbottonato sul fianco, e caschetto verde, mi cercò con gli occhi dalla soglia della lucida vetrina. Sfiorandoci il gomito, attraversammo la strada.
— Dove hai preso il tuo nome? – le chiesi.
— Non ti piace? – domandò vivamente.
— È bello sí, dove l’hai preso?
Mina mi guardò di tra i riccioli. – Non l’ho cercato: era scritto sulla porta della mia camera.
Quella mattina comperammo da fumare, poi mi fermai davanti a un negozio di calze. – Se mi prometti di portarle soltanto nelle giornate come questa, ti regalo le piú belle calze.
— Vieni avanti, Guido, qui no: non le compero mai qui.
Erano le undici e mi disse che doveva rientrare.
— Mina, sediamoci un momentino in un caffè?
Nel caffè cercai l’angolo piú segreto e non guardai in faccia il cameriere, mentre ordinavo.
Mina silenziosa e seria, mi fissò mentre non le staccavo gli occhi di dosso.
— Ti vergogni di uscire con me, – disse piano.
— Mina, – dissi stupito, – cerco d’essere solo, con te.
— Tu non mi perdoni la mia vita.
— Tutto il passato ti perdono, Mina, ogni giorno e ogni notte, voglio comprenderti, non sei piú la ragazza sciocca di un tempo, e benché dovrei piangere di quanto è successo, pure non piango. So che ti voglio bene e sono tuo come allora. Ma sposami, Mina, smetti questa vita: che cosa ti costa, dovrai ben smettere un giorno?
— Lo vedi che ti lagni? Questo non è perdonare.
— Ma debbo forse ringraziarti che tu continui a fare quello che fai? Non la capisci la tortura di quando sono solo e ti penso con tutti quegli uomini? Perché con loro, e con me no?
— Ma con loro è diverso, Guido, è diverso e… non sono tanti.
— Capirei se ne amassi qualcuno.
— Davvero? Io ti conosco, Guido, so che urleresti di piú.
— Mina, non ti fa schifo questa vita?
— Lo vedi, Guido, che ti vergogni di me?
Sentii in quell’attimo per la prima volta quel senso di uno sforzo enorme e futile come di chi si slanci con tutto il corpo contro una roccia. Mina mi osservava, curva la nuca, con due occhi chiari, e le rughette tra le ciglia, raccolte. Cacciai un ansito, abbassando gli occhi.
— Lo vedi che cosa pensi? – riprese Mina, intenerita: – Con te no. Ma lo faccio per te. So che dopo sarebbe peggio.
— Ah, – mugolai, con un sorriso tremante. – Ti farò lavorare, se ci tieni al mestiere. Se Dio vuole, posso andarci come tutti.
Quasi stravolta, Mina mi fiatò in viso: – Guai a te, Guido, se fai questo: dopo non mi vedresti piú.
Fu in quel pomeriggio che, dopo due ore di andirivieni sotto il sole per le vie torride e tranquille mi allontanai dal portone di Mina e mi diressi a un’altra casa che sapevo, in fondo a un vicolo. Ma pure saziandomi, la stupida e annoiata compiacenza della ragazza mi mandò a casa inebetito, con una feroce voglia di piangere. Inoltre, m’era cosí ritornato in mente – in ogni particolare – che cosa fosse il lavoro di Mina; verso sera, ero di nuovo fiaccato dall’angoscia, davanti al portone di lei. A quell’ora avrei dovuto essere in viaggio. «Se son tornato di stasera, – ricordo che pensai, – vuol dire che le voglio davvero bene».
Ma neppure ora osai suonare. Mi sedetti in un’equivoca osteria, quasi di fronte a quel portone, donde vedevo, tra certi vasi di piante e un cancello, l’androne foscamente illuminato e le persiane, ermetiche, nell’ombra, della casa. «Qui passerò le sere», mi dissi. Ma dopo un quarto d’ora ero uno straccio. Ora un uomo qualunque, ora un giovane, ora un gruppetto di soldati e di sbordellatori chiassosi, scompariva in quel portone o – peggio – si soffermavano sulla soglia a schiamazzare. Giunse persino uno in motocicletta, riempiendo di fragore la notte, e smontò e corse sopra, vestito di cuoio.
Poi, quelli che uscivano. Ciascuno poteva essere stato con lei. Vidi un uomo grasso e calvo che si guardò furtivamente intorno e scomparve allontanandosi. Se non correvo, avrei gridato.
Senz’esitare questa volta mi ficcai sotto il portone e suonai subito. Nella sala affollata e fumosa, Mina non c’era. Rimasi in piedi respirando appena e fissando la porta. Mi comparve innanzi Adelaide seminuda e, strizzandomi l’occhio, mi fece il saluto militare.
Le chiesi se prendeva il fresco. In quell’istante vidi Mina che vestita d’una camicetta celeste e mutandine bianche di seta – abbronzata le gambe e la vita – porgeva qualcosa alla padrona. Mi vide, dietro Adelaide, e si rabbuiò. Non parve sorpresa: solamente risoluta. Mi venne incontro e, scostando Adelaide senza guardarla, stava per parlarmi, quando un uomo sparuto e biondiccio, dalla fronte calva sugli occhiali, fin allora immobile, le sgusciò accanto, accennandole con la mano. Mina piegò gli occhi, si volse e gli andò dietro, senza piú curarsi di me. Adelaide scoppiò in una risatella. Mi mancava il respiro.
Le lacrime d’immobile angoscia che mi salirono agli occhi, poterono parere sudore. Sentii Adelaide che parlava. Poi ronzarono i campanelli sopra il banco della padrona. Allora me ne andai, a fronte alta, senza veder nessuno.
Stupidamente quella notte feci un altro progetto impossibile: ubriacarmi ogni sera. Dicevo: «Lei è abbronzata di fuori, io mi abbronzerò dentro». Stetti subito male e nella vertigine non dimenticavo la camicetta di Mina. Avvezzo a vivere da solo com’ero, non scacciavo facilmente un’idea e quel biondo sardonico dagli occhiali mi ghignò tra i fumi tutta la notte.
Rividi Mina la domenica dopo, nella sua mattinata. Avevo atteso dall’osteria che sbucasse e le tagliai la strada risoluto. Mina mi guardò stupita, si fermò dandomi la mano, poi, siccome le impedivo il marciapiede, mi disse: – Camminiamo, non mi piace fermarmi qui.
Si lagnò che l’avevo trascurata e voluta tradire. Aveva molto pensato a me, specialmente al mattino svegliandosi, quand’era piú sola. Perché non ero buono con lei? Lo ero stato a Voghera, a vent’anni.
Io non dicevo nulla e pensavo affannosamente che adesso era una donna.
— Tradirti con chi? – chiesi a un tratto.
— Oh Guido, – mi rispose, – anch’io vorrei quel che tu vuoi, ma dopo sarebbe peggio, mi tratteresti come le altre…
— Facciamo una cosa, sposiamoci.
— Guido, non posso, è la mia vita, questa, e sono certa che fra un anno, forse meno, mi odieresti…
— Mina, ti voglio bene.
— Lo so, – mi disse, prendendomi la mano, – lo so, Guido, e credi che non comprenda il tuo tormento? Ma appunto per questo ti chiedo di essere mio amico, e non volere di piú –. Mi levò gli occhi in viso: – Di te mi vergognerei, – sussurrò.
— A Voghera accettavi di sposarmi.
— A Voghera mi volevi bene e mi hai creduto quando ti ho detto che papà non voleva.
— Si è visto il frutto.
— Guido, papà è morto e il resto riguarda me.
— E con chi dovrei tradirti?
— Perché parlavi con Adelaide?
— Ma se mi è capitata davanti: cercavo di te.
Mina s’oscurò. – Non venire mai piú in quella casa. La prossima volta non mi vedresti piú.
— Mina, – le dissi fermandomi, – non voglio chiederti nulla, ma che questa vita ti fa vergogna, lo vedo. Smettila dunque e sposiamoci. Io sono sempre come allora.
— Non ho nulla di che vergognarmi, Guido. E ti ho già detto di no.
— Hai la sifilide, Mina?
Le scappò un sorriso. – Come farei a lavorare? Oh Guido sei un ragazzo. Sarebbe cosí bello trattarci da buoni amici e dimenticare queste cose. Che t’importa? Fa’ conto che mi fossi già sposata.
Ci vedemmo altre volte, di mattina in mattina; Mina portava quell’abito verde e marrone; una volta venne, vestita di bianco, e pareva piú alta e anche piú grave sotto la mantelletta svolazzante. Per avere due o tre mattini alla settimana, io viaggiavo di notte, scorciavo i miei giri, mancavo le scadenze di qualche cliente. Certe sere salendo in treno, solo, pensavo, anelando, alla Mina piú alta e piú seria, e non riuscivo a sovrapporla all’altra immagine che avevo di lei: eppure, sarebbe bastato svestirla. La sua piccola fronte di donna, aggrottata, mi faceva tremare. Rimpiangevo nell’angoscia i giorni ch’era stata ai bagni: la pensavo sola laggiú. L’accompagnavo nel suo viaggio, intenerito: sedevo con lei, le camminavo al fianco e mormoravo parole; dormivamo accanto. Talvolta vincevo l’orrore dei lenti pomeriggi persuadendomi che tutto era bene; che avevo trovato una donna nuova, intatta nella sua umiliazione. La stessa durezza con cui mi resisteva, aveva per me un valore e una amara dolcezza. Uno smarrito sollievo me lo dava il pensiero che la sua vita piú segreta era solitaria e sdegnosa. La sentivo mia eguale.
Un mattino fresco di settembre venne all’appuntamento in compagnia di una ragazza piú giovane, dal cappellino sbieco che le tagliava un occhio e labbra assai dipinte. Credo che feci un viso desolato, perché tutte e due, guardandosi, risero: la ragazza, molto sonoramente.
— Non andremo piú a mangiare insieme? – bisbigliai a Mina, mettendomi al suo fianco.
— Ci andremo, – sorrise, prendendomi il braccio.
Fece un saltello, stringendosi a me. Fui sorpreso e felice, perché quel giorno avevo preparato molte cose da dirle nell’ora tranquilla del pranzo. Ma la ragazza mi seccava.
Mina si mise a parlarmi del mio lavoro e mi fece nominare i luoghi dov’ero stato in quei giorni. Si rabbuiò quando con un sorrisetto rivelai che saltavo certi clienti per non mancare ai suoi mattini. Si fermò sul marciapiede, facendo una smorfia. Mi cadde il sorriso e le mostrai con occhi supplichevoli la compagna, ferma con noi.
— Tu ti rovini per delle sciocchezze, – disse Mina seccamente, – io non voglio questo. Sono ragazzate che non posso ascoltare. Quando si lavora, bisogna lavorare. Tu sei solo e hai bisogno di far la tua strada. Vuol dire allora che io ti rovino, e non ci vedremo piú.
Mi tornò stupidamente sulle labbra un sorriso. Intravidi il mezzo viso dell’altra volto a terra, impassibile. Non risposi a Mina, ma le presi il braccio e balbettai di camminare. Mina si svincolò e ci muovemmo.
Dopo un lungo silenzio, quell’altra chiese brusca qualcosa. Discussero se due dozzine di saponette all’ireos che Adelaide aveva consumato in un mese, giustificassero quei rigori della signora.
— Che cosa le ha fatto? – chiesi.
— Non le ha piú fatto, ecco, – ghignò la ragazza increspando gli angoli della bocca. – E quell’altra ha il capriccio e le prude assai.
Colsi Mina che a testa bassa fissava i ciottoli. Confrontai col suo profilo quello emaciato e sensuale dell’altra, e ritrovai la linea forte, la durezza del mento che amavo. Le sfiorai lieve il braccio e me lo strinsi.
— Da molto tempo vi conoscete? – dissi alla ragazza.
— Nuccia è una romagnola, – disse Mina.
— Sai, Nella, che la signora Martire mi ha chiesto quando torni a Bologna?
Io trasalii, Mina piantò gli occhi negli occhi di Nuccia. Affrettammo il passo. Giungemmo in silenzio davanti al caffè, dove Nuccia era attesa.
Al bianco tavolino della nostra trattoria ci guardavamo senza parlare. Osservai che le mani di Mina eran tornate chiare.
— Molto abbronzata eri?
— Ho fatto molta cura del sole. Prendevo una barca, andavo al largo e mi toglievo il costume.
— Remavi sola?
— Non è difficile.
La guardavo, occhi fissi. Mina tentò un sorriso. – Non dire nulla, Guido. Al mare vado per riposarmi.
— Ma io pensavo di venire con te.
— Appunto: ma vado per riposarmi.
Mina finí presto il suo piatto. Mentre mi osservava chino, disse a un tratto: – Perché fai queste cose?
— Che cosa?
— Perché trascuri il tuo lavoro? come vuoi che ti creda, se fai questo?
— E tu perché non vuoi sposarmi?
— Te l’ho già detto, Guido.
— No, che non me l’hai detto. Ti diverti a giocare con me. Quando vai a Bologna?
— Non vado a Bologna. Andrò forse a Milano.
— Quante case hai girato?
— Non ho pensato a contarle.
— Chi hai che ti mantiene?
Lo sguardo duro di Mina s’addolci. – Devi soffrire molto, Guido, per dirmi queste cose. Credo facciano male anche a te.
— Male per male, preferisco questo. Tu non mi vuoi perché hai qualcuno.
— Ma, Guido, non vedi come lavoro e che vita faccio? Se qualcuno mi mantenesse… – disse penosamente, ma s’aggrottò d’un tratto: – Mi mantengo e lo sai.
— È perché vedo la vita che fai, che ti voglio sposare. Oh Mina, non vuoi proprio capirmi? Lavoreremmo insieme, se tu vuoi; ci vedremo soltanto la sera; se non vuoi, non saremo sposati, ma esci da questa vita, abbi pietà di me, tu sei l’unica donna che valga la pena, anche allora a Voghera non volevi sentir supplicare, ti chiedo il tuo bene, dimmi tu come debbo pregarti. Questa vita che fai…
— Questa vita mi piace, – disse Mina pacata.
Mi ricadde la faccia come a urtare una roccia. Istupidito volsi gli occhi intorno, e fu lo spasimo vivo a tenermi in me. Poi mi sorse nel cuore una furia scottante. A bassa voce la insultai come seppi.
— Vedi: e volevi sposarmi, – disse Mina.
Un mattino inaspettatamente mi chiese di vedere la mia camera e mettermela in ordine. La condussi trepidando su per la vecchia scala semibuia e appena entrato spalancai la finestra. Entrò col fresco della luce un senso nuovo. C’era per terra la valigia aperta presso l’armadio socchiuso, e un fascio di cataloghi vecchi della mia ditta. La tazzina ancor sporca di caffè sul comodino e il letto intatto erano quali li avevo intravisti uscendo poco prima.
Mina mi camminò incontro e mi baciò. Oggi ancora che tutto è successo, mi trema il cuore a ricordare la pura e solida dolcezza del suo corpo segreto. Per tutto il tempo Mina mi sogguardò con occhi limpidi, carezzandomi la schiena. Ci avvolgeva un’atmosfera fresca, quale non ho sentita mai piú.
Ma venne il pomeriggio e restai solo. Mina aveva promesso di darsi malata quel giorno purché partissi al mio lavoro. Piegai la testa e presi il treno. L’indomani all’alba ero già di ritorno e le scrissi un biglietto che l’oscena portinaia, apertomi in vestaglia, ritirò di mala grazia. Dormivano tutte, e corsi ad attendere nel nostro caffè, traversando le strade velate di un poco di nebbia. Gli alberi dei viali erano verdi ancora, e freddi.
Mina giunse assai tardi, quando già mi mordevo le dita, e mi venne incontro senza guardarmi. Vestiva di verde e marrone. Si sedette e alzò gli occhi.
— Mina, sei qui, – dissi piano.
— Perché mi hai chiamata, Guido?
Balbettai: – Sono tornato per vederti e la mia azienda è fallita. Proprio oggi, – mugolai serrando un pugno.
— Debbo crederci? – balbettò Mina.
— Perché mentirti? Il danno è mio.
— Come l’hai saputo?
— Passavo stamattina per dare dei conti e ho trovato i sigilli. Da tempo m’ero accorto che si traballava, ma non pensavo… Può darsi ancora che raggiustino.
— E tu, che farai adesso?
— Vivrò di avanzi: ho qualcosa. Cercherò qualcos’altro. Dovremmo sposarci e cercare insieme.
— Oh povero Guido, ora devi pensare al lavoro.
— Tu non vuoi aiutarmi? – dissi, deluso.
— Certo che ti aiuterò. Ma non devi piú pensare a me… in questo modo. Hai già qualcosa in mente?
Mentre beveva il caffè e latte, la guardavo. La studiavo negli occhi, ricercavo la Mina di ieri.
— Tutta la sera ho tremato che tu scendessi, – dissi sfiorandole la mano.
— Sono scesa… oh caro. Sono scesa a cenare.
— Vedi, Mina, non potevo levarmi di mente quel tale – tu lo ricordi – di quel martedí sera che eri gelosa di Adelaide: aveva gli occhiali, un tipo frusto… Pensavo, chi sa se è tornato quest’oggi.
Mina socchiuse gli occhi, cercando. Poi fece una smorfia. – Mi ricordo… Sei stato cattivo quella sera. Perché eri venuto? Mi hai fatto soffrire molto.
— E io, Mina? Ma non è piú venuto quel tale?
— Perché proprio lui?
— Mina, con lui ti ho visto tradirmi.
— Tradirti? – sorrise Mina. – Posso tradire qualcuno io?
— Puoi far soffrire l’inferno, se vuoi.
— E ieri, Guido? era l’inferno?
Era bello quella mattina, seduti contro il vetro vibrante di sole. Era bello, ma le mani mi tremavano. Verso la fine Mina se ne accorse. – Che cos’hai che ti treman le mani?
— Ci vorrebbe un anello per fermarle.
Mina rise forte, divertita. – Quando dici queste cose sei caro, – e mi fece un sorriso.
Da quel giorno vissi come un folle. Diradavo i miei viaggi e cercavo di fare in un giorno il lavoro di una settimana – agli uffici dove mi si vedeva assai di rado, crollavano il capo e si preparavano a scavalcarmi. Quel mese avrei incassato solo metà delle percentuali solite. Passavo lunghi pomeriggi solitari a sognare il futuro, a pensar Mina, nel mantello bianco, scacciando i ricordi piú atroci e recenti della sua nudità. Specialmente la sera era una morsa lenta che d’attimo in attimo mi strappava le lacrime. Non poteva durare: gemevo, a alta voce, da solo. Qualche volta bevevo, ma allora le lacrime e gli urli sgorgavano in un ronzio di ludibrio piú esasperati che mai. Mi rompevo lo stomaco, ma non giungevo all’oblio. M’addormentavo stringendo il cuscino.
Lei, spietata e adorata, ogni tanto tornava da me. Mi trattava teneramente, soltanto inflessibile se le chiedevo di sposarmi. Fatto vile, esitavo a mostrarle il mio stato e supplicare ancora: mi atterriva il pensiero di quegli occhi duri e l’ostile parola: «Se mi vuoi bene, comprendimi». Qualche volta l’angoscia intollerabile mi strappava un lamento, su di cui lei sorrideva malinconica. Provavo a scherzare e pensavo di ucciderla. Glielo dicevo, a denti stretti.
Ero per lei ora un disoccupato e ogni mattina l’attendevo. L’accompagnavo a far le sue compere, cui per nulla avrebbe mancato, e qualche volta inutilmente cercavo di pagare un suo acquisto. Quand’ero solo, passavo a volte davanti ai suoi negozi di profumi o biancheria e pensavo a lei con un brivido.
— Mina, – le sussurrai un giorno che eravamo stesi accanto, – quando ti guardo o mi guardi, e tu hai quegli occhi cosí fermi. Qualcuno dice che le donne rovesciano le pupille, e mostrano il bianco. Tu no?
— Di che cosa t’intrighi? – mi sorrise contro il viso.
— È perché ti voglio bene, – risposi piano.
— Se mi vuoi bene, ti deve bastare, – disse stringendosi a me.
Quel giorno scendemmo le scale e camminammo restando in silenzio. Piovigginava e andammo a braccetto rasente il muro. Io assaporavo i primi spasimi dell’imminente solitudine.
— Guido, cos’hai?
— Niente, sono contento.
— Vedi, Guido, ricordi quel che diceva Nuccia quel giorno?
— Che, vai a Bologna?
— No, Guido, a Milano, – disse con una smorfia. – Quel che diceva prima, quando parlava di Adelaide.
Non ricordavo.
— Diceva che la signora era cattiva con Adelaide. Ricordi ora? – Accennai del capo: – Guido, noi siamo tutte un poco come Adelaide. Nasce dalla vita che facciamo. Non è una vita troppo bella, Guido.
Guardando fisso innanzi a me, senza vedere, ruppi il silenzio. – Con Nuccia, Mina?
— Non importa con chi.
Provavo un senso strano di umiliato sollievo. Respiravo a fatica l’umida aria, serrando senz’accorgermene il braccio di Mina. Ci arrestammo sull’angolo, senza un perché.
— Ora ti faccio ribrezzo, Guido? – disse Mina, occhi spalancati nei miei.
— Oh Mina, accetto in te qualunque cosa.
— Sai, – le dissi ancora lasciandoci, – forse mi fa piacere cosí. Preferisco –. Mina mi diede un sorriso obliquo e s’allontanò.
Due giorni dopo partimmo per Milano. L’avevo convinta che a Torino non ci facevo piú nulla e avrei forse trovato un impiego laggiú in una ditta concorrente. Scendemmo all’albergo e Mina stette due giorni e due notti con me. Io a Milano c’ero sempre soltanto passato, e furono i due giorni d’un sogno, camminando per lunghe strade ignote, stringendoci al fianco e guardando i negozi, tornando la notte con occhiate ridenti. Mi riempiva il cuore quella camera sommaria, ingombra di valigie, ma trepida e viva della presenza certa di Mina. Erano gli ultimi giorni sereni d’ottobre, e le piante e le case s’impregnavano d’un mite tepore.
Poi Mina se ne andò nella casa. Io scrissi ai miei padroni se non potevano affidarmi il controllo di quella provincia. Mi risposero che se non riprendevo il lavoro nel mio settore, mi toglievano subito la rappresentanza. Non risposi nemmeno e mi misi alla cerca in città.
Venne novembre, e la pioggia e il nebbione. Abitavo in fondo a un cortile in una stanza senz’aria e senza donne, dove non rifacevo mai il letto. Pulivo solo se veniva Mina. Ma venne di rado, perché al mattino era assai stanca. Passavo ore intiere disteso sul letto a fissare la porta socchiusa ascoltando la pioggia, e piú tardi guardando la neve. Avevo ancora qualche migliaio di lire, ma non sempre mangiavo, per la speranza che servissero a sposarci. Torvi pensieri indocili mi agitavano, quando giravo le strade intirizzito, e invidiavo gli spalatori che avevano trovato lavoro.
Mina stava in una palazzina austera, in fondo a una via aperta su un parco brullo. C’era dentro tappeti e un buon caldo; lo seppi una volta che l’accompagnai fin nell’entrata. Qui costava di piú e mi cominciò un nuovo rovello: i visitatori erano gente ricca, piú oziosa, molti vecchi: me lo disse lei stessa e l’avrei preferita tra le braccia d’un soldato o di qualche operaio. Di entrarci anch’io come tutti, non si parlava; certe notti piangevo di rabbia, ma bastava il ricordo di quell’occhiata ostile per piegarmi. Ero solo, – le dissi una volta, – non trovavo mai nulla, la città mi schiacciava cosí straniera e immensa, certi lividi pomeriggi avevo persino freddo e voglia di piangere: non potevo venirla a trovare?
— Se restavi a Torino… – mi disse. Ma aggiunse subito: – Dopo una volta, verresti un’altra e poi un’altra, e tu hai bisogno dei tuoi risparmi.
— Solamente a discorrere, Mina.
— No, verrò io presto da te.
Una sera che mangiavo un piatto di minestra in un locale, sentii due, uomo e donna, discorrere di un’agenzia che faceva miracoli. Di rappresentanze ormai disperavo, e poi mi occorreva un lavoro provvisorio. Su due bicchieri di vino parlammo. Guardavo quelle facce con infinita pena; sempre in quel tempo, quando non ero attanagliato dalla mia gelosia, provavo innanzi a due occhi umani un’umiliata tenerezza. La ragazza era magra, coi capelli negli occhi e un impermeabile frusto; l’uomo, un operaio ossuto, succhiava adagio una sigaretta. Erano stati disoccupati per mesi, lui adesso faceva il giardiniere e quella era la prima cena che potevano pagarsi. La ragazza non diceva nulla, ma solo annuiva, divorandomi con gli occhi.
L’indomani corsi all’agenzia, ma per il momento non avevano nulla.
Ritornammo nella nostra città alla fine di marzo. La mia vecchia padrona di casa mi conservava la stanza, ma quasi avevo onta di mostrarle la mia faccia ossuta. Ero diventato tale che, a una parola udita improvvisamente, traballavo.
Mina parlava di pigliarsi una vacanza, di fare un poco la «bimba viziata». Le rientravano leggermente le guance e si dava rossetto alle labbra troppo smorte. Ma sulla fronte la sua ruga era sempre dura. Mi parlava con molto affetto e mi chiedeva se l’amavo ancora.
Ma rientrò nella casa di prima, e l’avevo supplicata per la sua vita di non farlo, di andare un po’ in campagna, di pensare a se stessa: sarei rimasto a Torino a cercarmi un lavoro. I primi giorni mi disse che non scenderebbe a lavorare; e infatti uscí sovente alla sera con me, ma un pomeriggio che osai entrare a cercarla, mi dissero che era occupata. Ritornai adagio a casa.
Trovai un lavoro saltuario, cui attendevo in tuta per conservare l’abito da passeggio. Lavavo automobili dopo cena e di notte in una rimessa non troppo lontana da casa, e ricordo ancora le lunghe veglie, seduto sulla panca dell’ingresso, fumando di nascosto sotto la luce rossa della grande insegna. Certi colleghi viaggiatori che un tempo conoscevo, ora li evitavo per non essere costretto a parlare di me. Non di rado, ero contento di quella solitudine.
Mina usciva al mattino e vestiva un’insolita casacca arancione, che la distingueva tra mille a distanza. I suoi riccioli sorridenti le davano un’aria di bimba, come una foglia su un’arancia. Rifiorí presto, e prese un modo provocante di socchiudere gli occhi alle mie parole che me la rese ancor piú cara. La durezza della sua volontà affiorava ora soltanto in un suo tono inconscio parlando di noi. Aveva un anno piú di me, ma la sentivo adulta, superiore, virile. Che altro ero che un ragazzo capriccioso di fronte a lei?
Parlavamo di quel giorno d’agosto che le avevo chiesto la prima volta di sposarci. – Ti ho voluto bene anche per questo, – mi diceva.
— Viene un giorno che si desidera di avere una casa, – diceva. – Tu mi hai dato un sentimento che una volta m’avrebbe fatto sorridere. Vorrei tornare com’ero a Voghera, sciocca ma giovane, e degna di te. Se allora non ci fossimo lasciati, Guido.
— Ma ci siamo ritrovati, Mina, e ora siamo sicuri di noi. Se penso a questo non rimpiango il tuo passato.
— Lo rimpiangeresti un giorno.
— Mina, ti ho mai rimproverato una volta il passato? È il presente che mi ammazza. Oh Mina, ormai sappiamo che possiamo stare insieme. Quei due giorni di Milano…
— Ma tu devi lavorare ora, non puoi pensare a donne…
Un’altra volta che tornai alla carica, stringendo ancora i denti per una notte di gelosia, Mina mi disse, sorridendo imbronciata: – Tu dimentichi che io ho dei vizi.
— Provvederemo anche ai vizi, – risposi alzando le spalle. Ma ci guardammo imbarazzati.
Quell’anno, aprile non rasserenava. Fresco, freddo quasi, ogni mattino portava nuvole sopra gli alberi teneri dei viali. Ma pioveva sovente: la verde, la tiepida, sussurrante pioggia di primavera. Qualche volta, nella mia camera nuda, guardavo Mina con un’angoscia mortale. Lei allora trasaliva, si ricomponeva e diceva qualcosa. Le chiesi una volta che vizi fossero. – Sciocco, – scattò, tendendomi una mano, – mi prendi proprio sempre sul serio?
Finalmente ci fu il sole e una brezzolina leggera che schiariva le vie. Io pensavo che avrei presto ottenuto di portare Mina a riposarsi al mare. Non avevo mai visto il mare in primavera. Ero un mattino, senz’appuntamento, in quell’osteria davanti alla sua casa, e guardavo la chiazza di sole obliqua sull’acciottolato e pensavo a lei, dietro le persiane chiuse, dormente. Uscirono a un tratto dall’androne tre figure: un uomo e due donne. La seconda – azzurro e arancione – era Mina. Passarono sul marciapiede davanti ai vasi di piante. L’altra era Adelaide che conobbi a fatica, sotto il cappellino. E l’uomo aveva un profilo tagliente, dagli occhiali: il cappello nascondeva la fronte. Camminava a braccetto con Mina e mi parve il viso odiato di quella sera d’agosto.
Quando l’indomani gliene chiesi, e la voce mi esitava, Mina rispose che era infatti lo stesso; senza turbarsi, spiegò che era tornato una sera, fatto buon amico di Adelaide, e che loro due s’erano riconosciuti; poi un’altra, Mafalda, l’aveva portato su con sé; allora rimaste loro sole, Adelaide le aveva raccontato una storia un po’ buffa e un po’ commovente su quel tale, l’ingegnere; e cominciò a raccontarmi questa storia che parlava di un caso di timidezza ma l’interruppi indocile.
— Sei ritornata su con lui? – dissi strozzato.
Mina alzò le spalle: – È un buon cliente –. E dopo un momento: – Mi vuole sposare.
Mi fissò gli occhi in viso e subito li abbassò.
— Guido, non fare il ragazzo, – mormorò duramente.
Credevo d’avere un poco imparato a soffrire, ma in quel giorno provai l’uragano, e seppi perché si annaspi col capo per non soffocare. È come in un vento rabbioso, che il respiro manca. Solo nella mia stanza, poggiato al muro, ansimavo cacciando ogni tratto un gemito. Mi stupivo di non urlare, e non schizzare gli occhi, di non cadere fulminato. Non potevo gridare e non potevo muovermi. Stetti là soffocando: forse mezz’ora. Qualcosa dentro, mi calcinava.
Quando uscii verso sera, ero fievole e istupidito. Sapevo bene che nulla in fondo era mutato da prima: che le strade giacevano calme sotto l’ultimo sole, che la gente passava, che la notte scendeva e domani come sempre avrei veduto Mina; sapevo d’essere incolume e vivo, eppure giravo intorno gli sguardi come fossi insensato e ogni cosa stravolta.
Dal giorno seguente la mia inutile domanda fu un’altra: – Perché a lui dici sí?
— Non gli ho detto di sí, – rispondeva Mina.
— Ma lui ti viene a prender dentro, che vuol dire che lo accetti.
— Chi sa perché, – rideva lei, – poi.
— Lo sa che ti chiami Mina?
Chinò il capo contrita.
— Lo vedi, carogna.
I miei risparmi eran di molto diminuiti e nell’autorimessa guadagnavo appena per la giornata. Pensavo che ora, anche volendo, non avrei potuto sposar Mina, e un’ira cieca mi prendeva contro quel biondiccio che o possedeva molti soldi o, visto che l’andava a trovare, lei stessa manteneva. Glielo dissi una volta. Mina rispose: – È una persona decente e disgraziata. Lui davvero è mio amico, e non fa queste scene. Tu sei solo un ragazzo, Guido. Perché non torni al tuo lavoro?
— Ma non ho piú lavoro, lo sai.
— Ero tanto orgogliosa di te, quando viaggiavi.
— Vuoi che mi ammazzi, Mina?
Venne ancora a trovarmi una volta, un mattino di maggio. Restammo insieme a lungo. La guardavo tremando. Si strinse a me come una mamma e poi mi staccò. – Sei contento, Guido? – Le dissi di sí. – Vedi, caro, dovrai sempre ricordarti di me come quest’oggi. Mi hai sempre detto che mi perdonavi. Se ti ho fatto soffrire, pensa che anch’io ho sofferto per te. E piú di te, forse. Perché ti voglio molto bene.
— Mina, non ci vedremo piú?
— Certo che ci vedremo, ma non qui. Faccio il tuo male a venir qui. Tu devi pensare al lavoro.
— Senza di te, Mina…
— Con me, Guido: ci vedremo ogni mattino…
— E se lo sposi?
— Non ci ho ancora pensato.
— Lascia che venga anch’io da te: combatteremo ad armi uguali.
— Ma se non viene quasi mai…
Certe vuote mattine, Mina mancava all’appuntamento, il che voleva dire che qualcuno se l’era andata a trovare, mentr’era ancora a letto. Io sedevo, sedevo a lungo nel caffè, senza dir nulla, fissando l’aria, ascoltando appena il viavai: mi aveva preso il ticchio di abbozzare un sorriso che, già spento, mi persisteva impresso nelle linee delle labbra. Avevo la sensazione di esser sempre ubriaco.
Una sera non potevo piú respirare: tutto il pomeriggio avevo camminato e pianto. Dovevo scendere all’autorimessa e andai invece a cercare di Mina. Salii quei tre gradini come fossero la forca, suonai tremando, e m’infilai con quel sorriso nella sala.
Dissi forte: – Siete tutte puttane.
La frase venne intesa come un qualunque saluto e nessuno si mosse. Le ragazze – tra cui Mina – sedute presso la porta, discorrevano tra loro e si volsero appena. Invece qualcuno degli uomini seduti ai lati, levò vivamente il capo e mi guardò. Io trascorsi la fila, cercando quel viso. Ero tale da annientarlo.
Ma quel viso non c’era e Mina mi seguiva con gli occhi. Mi venne dietro e mi disse piano: – Vuoi salire con me, Guido?
La seguii trasognato. Per la scala pensavo a quel giorno ch’ero salito dietro Adelaide e ogni cosa doveva ancora accadere. Mina entrò nella stanza d’allora. Sulla porta era scritto Manuela.
Sul cassettone due grandi valigie stavano aperte vuote. Il letto era in ordine. Misto a un che di sapone e di gomma, nella stanza regnava un profumo leggero.
Mentre richiudeva, chiese senza voltarsi: – Che cercavi giú?
Fiaccamente risposi: – Volevo ammazzarti quel tale. E se viene, lo ammazzo, benché sappia che ormai non mi serve. Oh Mina, – e le caddi innanzi, abbracciandole le ginocchia.
— Vedi bene, – disse lei nervosa, senza chinarsi. – Vedi bene. Non serve. Non farmi piangere. Vedi che vado via.
— Vai a Bologna?
— No, stavolta è per sempre. Alzati. Mi sposo.
Disse questo con semplice calma, con voce raccolta; e sentii tutta la futilità enorme del mio stato. Mi rialzavo e guardavo la camera, lo specchio, la sedia ingombra, una fessura alla porta. «Soffrirò dopo, soffrirò solo dopo», mi ripetevo smarrito.
— Vuoi? – aveva detto Mina, reclinando il capo e guardandomi intenta. Si sfilò sulla spalla il vestito da sera.
Ora rimpiango di non averla accettata, pestata, distrutta: l’avrei forse staccata da me. Cosí invece, ancor oggi mi torna una pena che mi ripiega su me stesso e mi fa sentire come un cane.
Sempre fissandomi, Mina si brancicava la spalla. La fissai risoluto. – Non spogliarti, Mina, se ti devi sposare.
Mi venne incontro vermiglia di gioia e mi prese le mani, serrandole al cuore. – Perdonami, Guido, ora capisco che mi vuoi davvero bene.
— Ti ho fatto un altro sacrificio un tempo…
I suoi occhi divamparono.
— …Ricordi il fallimento dei miei padroni? Non erano falliti. Io, volevo essere libero e seguirti.
Lasciò cadere le mie mani. – Hai fatto questo?
—Sí.
— Stupido, perché non ci torni? Oh sei stupido tu. Perché l’hai fatto? Perché hai voluto rovinarti? Ragazzo che sei! Tornaci dunque. Ragazzo. Stupido ragazzo.
La lasciai che questa parola mi rintronava senza fine nel cervello. Non mi cessò tutta la notte.
La sofferenza che seguí fu immensa. Ma la mattina seguente, non aspettai piú Mina nel caffè. Non la cercai piú nella casa. Una sola cosa avrei voluto ancora dirle, che mi lasciava come fuoco e ancora adesso mi sussulta nella gola quando penso al passato. «Lui te li cava i vizi, vero?»
Per molto tempo mi sentii schiacciato, come quando da bimbo mi addormentavo battuto piangendo. A Mina e al suo sposo pensavo come a due esseri adulti, che hanno un loro segreto e un ragazzo non può che guardarli da lontano ignorando le gioie e i dolori che fan loro la vita. Trovai lavoro anche per i lunghi mattini nella mia autorimessa e a poco a poco mi rassegnai mentre l’estate passava. Ora che sono fatto vecchio e ho imparato a soffrire, Mina non c’è piú.
Fine.
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TITOLO: L’idolo
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)