Il Castello
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 6 minuti
Bagnanti ce ne sono sempre stati in questi paesi, e d’estate spuntano per la strada della collina, in mezzo ai canneti, e si voltano a guardare il mare. Può anche darsi che col tempo riempiano la città, e sul molo si vedano altrettante cabine. Se è vero che il porto s’insabbia e che un giorno sarà una spiaggia, vedremo anche questa. Ma io non ci credo. Non credo neanche che il porto sia gran che cambiato. È che i ragazzi ch’eravamo allora, non ci sono piú. E neanche i vecchi ci sono: morto Gregorio, non s’è trovato piú nessuno al Castello che sappia dire una parola a quelli che vengono a terra e li conosca e li accontenti. Quei pochi che ci capitano, prendono la strada del Corso e vanno subito a donne. Dormono chi sa dove.
L’altro inverno, eravamo appena sposati, che scendevo al Castello tutti i giorni. Era Ginia che diceva: – Dove sei? qui basto io, voglio vederti sempre allegro. Va’ a spasso –. Io il gusto di vedere il mondo me l’ero già tolto, ma le donne non vogliono un uomo tra i piedi tutto il giorno: gli piace che ritorni a una cert’ora e raccontargli quello che han fatto e farsi raccontare. Adesso poi che aspetta un figlio, ne ha bisogno di muoversi e correre dall’orto in cantina.
Dalla strada certe mattine vedevo dei vapori che giravano i moli fumando nel sereno, e di rado, questo sí, magari un veliero che sembrava fermo. Da ragazzo bastava questo per mettermi le ali ai piedi; ero sicuro che nel corso della giornata il Castello si empiva di gente, negozianti, padroni, servitori, facchini, tutti su e giú sulla porta, tutti contenti dell’occasione di vedere novità.
Verso sera uscivano dal Castello i marinai ubriachi e noi li aspettavamo, li facevamo parlare e gridare, e la mattina dopo c’era da divertirsi a scaricare sacchetti, casse di frutta, corde, ogni sorta. Si era noialtri ragazzi i padroni delle barche e dei velieri all’ancora. La piazzetta dallo scalo al Castello era il nostro regno, e ancora adesso a mezzogiorno, manda un odore, un riverbero che mi ricorda quei tempi.
Quest’estate ci passai una volta, faceva caldo, e dico: «Saranno all’ombra». Entro al Castello, non vedo nessuno. Mi siedo contro l’inferriata della finestra, per sorvegliare la piazza e aspetto. Lo stanzone del Castello ha i muri imbottiti di legno e non c’è banco: servono direttamente dalla cucina. In cucina qualcuno lavava i piatti; nessuno viene. Mi alzo per farmi sentire e metto il naso in cucina: era aperto il lavandino e l’acqua faceva quel rumore cadendo sui piatti. Come se l’uscio fosse chiuso, dormivano tutti, anche le serve.
Quando racconto queste cose a Ginia, lei ride e dice che la colpa è delle donne. – L’avessi io il Castello, – ripete. Secondo lei non sanno servire i vecchi avventori né i nuovi. Dice che se si vogliono i bagnanti, bisogna cominciare dalle lampade e dai tavolini, buttare giú i muri, verniciare le porte, e del cortile fare un giardino. Ma neanche lei capisce che il Castello è il Castello, e che allora tanto varrebbe trapiantarlo sul Corso.
Io ci passavo volentieri, sperando sempre di vedere sulla porta uno di quei grossi negozianti dalla catena d’oro e vicino il mandriano dalla berretta sulle orecchie e dal bastone spellato, perché anche il bestiame passava una volta dal Castello. Ma adesso anche i negozianti sono vestiti come noi, e non ne vidi piú nessuno. C’era Ciccotto, questo sí, che veniva per vedere Carmela. Fin da ragazzi, quei due s’erano fatta compagnia e già allora per entrare al Castello bisognava essere amici di Carmela, che dagli scalini ci guardava giocare sulla piazza e aveva paura dell’acqua. Ciccotto allora, quando lei lo guardava, faceva dei tuffi in quell’acqua nera che lo portavano al fondo, e usciva fuori levando in mano qualcosa, pietre pezzi di ferro che aveva trovato. Con lui Carmela scappava di casa per andare per fichi o per uva sulla collina, e se li mangiavano insieme, dietro un muretto o sotto un ponte. Carmela a quel tempo andava scalza come noialtri. Ciccotto stava in una viuzza a pochi passi dalla piazzetta, dove suo padre aveva fatto il fabbro e adesso sua madre vendeva la frutta. Negli anni che togliemmo la voglia di vedere il mondo – chi lavorò lontano da casa, chi sposò chi sa dove, chi dev’essere morto – lui non si mosse dalla piazzetta. Alla leva lo trovarono malato e gli diedero un anno di vita. E lui che prima lavorava in fabbrica e guadagnava piú di tutti, tornò a casa e cominciò a sputar sangue.
Ciccotto veniva tutti i giorni al Castello con una scarpa al collo, e Carmela, che adesso non andava piú scalza, si faceva aspettare senza riguardo. In tutta la mattina era molto se entrava un facchino a bere in piedi un cicchetto. Lui gironzolava dalla cucina al cortile; la cognata o la serva gli dicevano che Carmela era uscita; e lui allora tornava ai tavoli, si metteva sotto la finestra, e aspettava guardandosi le mani. Lo trovavo cosí, oppure entrando lo vedevo alzar gli occhi alla porta, quegli occhi sporchi della malattia. – Sono io, – gli dicevo, – vieni a prendere il sole –. Ciccotto alzava le spalle, ma poi ci stava, e passavamo in cucina, dicevamo qualcosa alle donne, e uscivamo nel cortile, quel cortiletto di un piano che un ulivo in mezzo sopravvanzava. Era un grosso ulivo che dalla parte del muricciolo scopriva il mare, e anche qui avevamo regnato salendoci sopra a guardare nelle stanze. Un bel momento Carmela si affacciava a una finestra, a braccia nude, pettinandosi: non era mica uscita, si levava allora. Ciccotto con gli occhi in su fingeva di guardare nelle foglie.
Carmela aveva dei gerani sulla finestra e li bagnava con l’acqua del catino. Non so che cosa volessero dire i gerani, ma a Ciccotto faceva un enorme piacere quando lei li toccava e puliva vedendoci. Ci fermavamo e smettevamo di parlare. La serva veniva sulla porta della cucina a buttar via qualcosa e rideva. A me, con tutte quelle donne, pareva di essere tornato ragazzo.
Ma c’erano i giorni che Carmela era uscita davvero, e allora le donne, incontrando Ciccotto, gli dicevano che uscisse dai piedi, che se l’andasse aspettare in piazza. Lui girava con quella faccia scontenta e ficcava il naso dappertutto. Certi giorni mi veniva incontro scendendo le scale – che cosa avesse fatto lassú nelle stanze vuote, non so. Invece di stare al sole nel cortile a scaldarsi, era sempre negli angoli o sulle porte, tra quei muri grossi e muffiti. Avevo idea che battesse le nocche sui muri per sentire quanto erano spessi. Il Castello è vecchio, vecchie le tavole, vecchi i vetri, vecchie le pietre. Erano vecchi anche i liquori, comprati ancora da Gregorio: tante bottiglie da allora non erano piú state aperte. Se non ci fossi stato io che per creanza prendevo un cicchetto ogni tanto, lui non avrebbe lasciato un soldo al Castello.
Faceva freddo quell’inverno, ma Ciccotto era sempre sudato e dimagriva di giorno in giorno. Che cosa si dicessero lui e Carmela, non so, ma li lasciavo soli insieme quando Carmela vestita per uscire entrava in sala, e mi ficcavo in cucina a dare ascolto alla cognata che in quei momenti si dava da fare e gridava alla serva e spaccavano legna o parlottavano insieme in confidenza. Carmela da un pezzo non aiutava piú in cucina e quando litigavano, gridava alla cognata che lei quella bicocca l’avrebbe chiusa anche l’indomani. Se ne andava franca per la piazzetta, sempre arrabbiata, e l’unico che salutasse era Ciccotto. Se Ciccotto avesse avuto un mestiere, se almeno non fosse stato moribondo, sono sicuro che l’avrebbe preso lei. Quando Carmela non tornò piú al Castello e si seppe ch’era scappata con uno, Ciccotto fu l’unico a non cambiar faccia e a me disse che sapeva da un pezzo che sarebbe finita cosí. Ci sputò sopra un bello sputo nel fazzoletto e non si mosse dal tavolo dove stava seduto aggobbito. A me pareva ancora di vedergli Carmela seduta accanto sul bordo del tavolo, con le gambe accavallate, e non potevo credere che se ne fosse proprio andata abbandonandolo cosí.
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Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il Castello
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)