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I
Rilessi nel vecchio quaderno, dove l’avevo trascritta molti anni addietro, questa sentenza di Lessing: “Lass dir eine Kleinigkeit nicht n’äher gegehen als sie werth ist” (Non lasciarti toccare da un’inerzia più ch’essa nol meriti). Alzai gli occhi e vidi la mia vita, vuota e amara per l’oblìo di quelle parole sapienti. Anche lei, però! Sì, lei era stata troppo orgogliosa, troppo fiera; ma se io le avessi detto sorridendo: “Badi, le sue rose avevano questa spina, e mi ha punto qui e vi è rimasta”, ella avrebbe levata la spina e forse anche baciata la ferita. Invece io m’ero fitto in cuore, con una strana e crudele compiacenza, quella sua lieve allusione a un passato di cui ero geloso. Il cuore aveva poi date parole acerbe che fecero stupore e offesa; l’amor proprio era entrato subito in mezzo, come naturale nemico di quell’altro amore, a reprimere ogni slancio generoso delle anime; e così, reciso dalla piccola spina un legame che pareva eterno, io non avevo più sposata donna Antonietta, la giovane vedova del tenente colonnello D’Embra di Challant.
Quando chiusi sospirando il vecchio quaderno, mi accorsi d’una lettera col francobollo, austriaco, che mi avean gittata sulla scrivania senz’avvertirmene, al solito.
Era quel matto del maestro Lazzaro Chieco, il famoso violoncellista e compositore che mi scriveva così:
Castel Tonchino (o che diavolo è) 24 giugno 1883
Caro Cesare,
Hai da sapere che il povero Chieco sta da quindici giorni in un Castel Catino del Tirolo fatto così. C’è un diavolo di montagna a picco, tutta nuda; sotto c’è la strada; questa strada tocca dall’altra parte un laghetto celeste e vi caccia dentro uno sperone di terra e sassi; in cima a questo sperone c’è Castel Tapino.
Dovevo andare ai bagni di Comano, ma passando ho visto questo castello che non c’è altro stupendo posto per comporre, e ho detto: Chieco mio, se tu non fai il primo atto della Tempesta qui, ’leverito!’ come dicono a Fiumelatte, tu creperai senza farlo. E ci sono e scrivo. Tu sai, caro Cesare, che gli amici musicanti di Milano, mi sputarono su questo soggetto per la gola che n’avevano; ma lo straccione calabrese vuole che ’se òngen’ tutti questi ’ragionàt’ quanti sono.
Solo che tu mi devi aiutare perché il poeta veneziano ha il secondo atto in corpo e ponza; e io gli scrivo “corajo, corajo!” e lui mi risponde: “grassie, grassie, el vien, el vien!” ma non viene un accidente. Dunque va in via Brera, pigliamelo per il collo, e se non ti dà l’atto, strozzalo. Quindi tu vieni qua e stai tre giorni con il povero Chieco. Il primo giorno riposerai, il secondo ascolterai la mia musica, il terzo mi rifarai alquanti versi che non vanno e se li mando in via Brera, ’te saludi!’. Il quarto te n’andrai fuori dei lazzerei piedi.
Il tuo
Lazzaro Chieco
PS. Non mi guardare le donne belle del Tirolo che sono tutte mie. Povero Chieco, e come si fa?
II
Avevo in mente di lasciar presto Milano e di passare il luglio a Madesimo, ma conoscevo tanto il maestro Chieco e tanto poco il Tirolo, che forse avrei mutato piano, se quella bestia, secondo la quale, tra parentesi, a Milano neppur si fa un risotto senza ’il ragionàt’, il ragioniere, mi avesse indicato meglio il suo Castello Tonchino o Catino o Tapino e la via da tenere. La lettera, per verità, aveva il timbro di Trento, ma era poco. Mi stizzì e non ci pensai più. Otto giorni dopo ricevetti un’altra lettera con il timbro di Vezzano, dove una tale Purgher scriveva che il signor maestro Chieco, alloggiato nel suo albergo, era pericolosamente ammalato e mi desiderava come il migliore dei suoi amici. La signora Purgher m’indicava di prender a Trento la diligenza delle Giudicarie fino al ponte delle Sarche, dove nei giorni quattro e cinque luglio avrei trovato persona incaricata d’accompagnarmi dal mio amico. Partii subito e arrivai nel pomeriggio del quattro luglio sotto un sole cocente, al ponte delle Sarche.
Pochi minuti prima avevo riconosciuto a destra la nuda montagna scoscesa sopra il mio capo, a sinistra il laghetto celeste ai miei piedi. Scure collinette boscose lo cingevano dall’altro lato: dietro a quelle si levavano altri monti di un verde più gaio; ma laggiù, verso il Garda, il cielo scendeva quasi fino alle ondicelle azzurre, tutte trepidanti nell’ora del gran lago marino invisibile a mezzogiorno. Vidi il pugno di terra, sporgente della riva, e sulla punta, il castelluccio ritto e fiero come un falco.
Al ponte delle Sarche trovai una servotta tedesca che mi seppe solo dire “Purgher, Purgher”. Entrai con lei nella piccola penisola, seguendo un parapetto merlato, un baluardo a riposo, con tanto di cipressi e di rose. Fuori dai merli luccicavan l’acque, tutte vento e sole; dentro viveva e si moveva, sotto l’alto fantasma del castello, un affollato disordine di erbe rigogliose, di fiori incolti, di arbusti selvaggi, di piccoli pini imbozzacchiti.
Ascendemmo lungo il giro del parapetto, sino all’andito male intagliato nella viva roccia che mette nel cortile del castello; un gibboso macigno, questo cortile, inquadrato di mura nere, di logge medioevali, con pitture mezzo stinte, con un chiasso, sui parapetti, di geranii in fiore.
III
Il castello era un vero eremo. Neppure la albergatrice si lasciò vedere, e fu la serva che m’introdusse nel camerone bianco dove giaceva sul cuscino di un letto colossale, il mefistofelico viso del mio povero amico Chieco. Me gli accostai in punta di piedi. Aveva gli occhi chiusi ma la fisonomia era composta. Dormiva? Mi arrischiai di dirgli piano all’orecchio:
“Lazzaro!”.
Mi rispose un fil di voce:
“Chi è?”.
“Cesare” sussurai “sono Cesare”.
Allora Chieco, senza aprir gli occhi, sbattè la bocca come un cane che azzanna a vuoto, dicendo sottovoce: “Asino!”. E continuò con una diabolica rapidità crescendo: “Cane, brigante, assassino, ’ragionàt!’”, aperse quei suoi carboni sfavillanti di occhi, saltò in piedi sul letto ballonzolando e gridando come un ossesso: “Entrate, o Purganti, di Castel Porcino, entrate a vedere il principe degli straccioni che, se non si crepa, non viene!”, e si pose a tirarmi tutto che aveva sul letto, mentre entravano ridendo la tonda signora Purgher e la serva. Colei incominciava a scusarsi meco della burla, quando Chieco, non avendo altro nelle mani, fece atto di tirarmi la camicia. Fughe, strilli, e risate; restammo soli.
Chieco saltò dal letto, corse così come era scalzo e in camicia, a pigliar il suo violoncello e, sedutosi in faccia a me, se lo piantò fra le gambe, attaccò un delizioso andante appassionato. La Purgher e la serva fecero subito capolino all’uscio, ma il maestro s’interruppe, si diede a sgambettare verso il soffitto, fischiando in un suo modo infernale, per cui le donne scapparono da capo, non ci seccarono più. Egli, suonando, mi guardava sempre. I visacci che faceva non si scrivono; non sapevo se commuovermi della melodia dolcissima, o ridere della bizzarra faccia, ora lugubre, ora sfavillante, ora solenne, ora furbesca, ora patetica, ora beffarda, comica sempre. Chieco ha trentott’anni, barba e capelli misti di nero e di argento; ciò accresce la stranezza della sua fisonomia napoletana, piena di sentimento umano e di brio diabolico. Finalmente depose lo strumento. “E come si fa?” disse egli. “Caro Cesare, e come si fa?”.
Gli domandai che musica fosse quella.
“Povero Chieco!” mi rispose serio serio, “io ho detto tutto e questo infelice ’ragionàt’ non ha capito niente. La mia musica significa, o straccione, che io sono innamorato e che tu ti devi ammogliare”.
Io pigliai la cosa come una delle sue solite pazzie, per quanto mi giurasse che non aveva mai detto in vita sua una parola più vera.
Egli conosceva benissimo le mie passate relazioni con donna Antonietta e me ne parlò in modo tale che lo pregai a smettere. “Quanto sei asino!” disse egli. “Tu le vuoi ancora bene”. Diventai troppo rosso, forse, ma negai; ahimè, più di tre volte. Intanto Chieco ripeteva su tutti i toni, infilando le mutande: “Quanto sei asino! quanto sei asino!”. Tuttavia non mi parlò più di Antonietta.
Invece, appena compiuta la sua toeletta, mi invitò a vedere ’Castel Pulcino’. Prima di tutto mi condusse in cucina vociando: “O Purganti, o Purganti del diavolo dove siete?” E trovata, invece della Purgher, la servotta tedesca, incominciò a farle boccacce, a gesticolarle davanti, a stordirla con un diluvio di ’schlicche schlocche’, da cui la disgraziata doveva capire di preparar subito da pranzo per due; ed accennò di aver capito tanto bene che Chieco la volle abbracciare prima di portarmi fuori.
Il castello non aveva proprio niente di raro, toltone la postura e quel cortile pittoresco; ma quando Chieco s’infatuava di un luogo, lo sentiva da gran poeta fantastico, lo idealizzava con una potenza straordinaria.
“Questo è Castel Divino, capisci?” mi disse egli nel cortile, estatico, davanti a un capitello gotico dei più comuni. “Guarda che bestia gentile deve essere stato lo scultore di quella graziosa porcheria lì! Sono dieci anni che io passo otto mesi dell’anno a Parigi e puoi pensare se ho visto Pierrefonds. Ho visto anche i castelli del Reno. Ebbene, sono niente rispetto a questo; ti dico niente. Qui, se tu non sei troppo asino, ci vedi tutti i tempi. Questo pavimento non sa che sia scalpello, tu lo vedi; è ancora dell’età della pietra. Le fondamenta di queste mura sono romane. Va qui vicino dal prete di Santa Pazienza, che è un santo uomo, a domandare se i romani non praticavano qui. E poi c’è tutto questo Medio Evo; e poi nelle camere tu hai veduto il Rinascimento sino al rococò; e poi ci sono i Purganti che sono il vile presente; e poi ci sono io che sono l’avvenire!”.
Gli chiesi se avesse fatto gite.
“Che gite, che gite!” mi rispose. “Queste sono idee da ’ragionàt’. Mi volevano ben mandare a Santa Pazienza, a Mancavino, al diavolo che li porti. Ma io, questi nomi, li fiuto e mi basta. Vado qualche volta a Comano, ecco tutto. Domattina per esempio, vado a far colazione a Comano”.
“Vengo anch’io!” dissi.
“No!” gridò Chieco “Nossignore! Domattina Lei resta a Castel Tavolino e mi rimpasta qualche dozzina di versi. Io vado per intendermi sul ballo”.
“Che ballo?”.
“Il ballo che si dà qui domani sera. Una cosa magica, mio caro; vedrai. Ho invitato tutti quegli straccioni di Comano per aver lei. Si fan due passi fuori?”.
“Chi lei?”.
Chieco mi piantò per ricomparire due minuti dopo in ombrellino, panama e babbucce.
“Si deve capire che io sono in casa mia” disse egli “e che tu sei uno straccione qualunque. Del resto, eccoti lei, ma somiglia poco”.
Mi diede la fotografia di una signora che non mi parve assai giovane, né assai bella.
“Somiglia poco” ripetè. “La vedrai. È una musica dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Povero Chieco”.
Grossi nuvoloni uscivano dalla gola delle Sarche, raggiungevano e celavano il sole; l’òra del Garda soffiava sempre più forte nei pini e negli arbusti sul lago tumultuante, tutto mobili luci plumbee. Chieco si buttò a giacer supino nell’erba con le mani intrecciate sotto nuca, e mi volle accanto a sé.
“È una musica” disse egli. “È la più morbida, fine musica che io conosca; è del Bach, per Sebastiano!”.
Balzò su a sedere per potersi sfogar meglio. Non pareva più il matto di prima.
“Tu sai” disse egli “o piuttosto tu non sai come disegna Bach. Ebbene, quando lei si muove e io vedo svolgersi tutte le linee del suo dolcissimo corpo e ondulare in aria così, così, dietro di lei, io penso sempre alla musica di Bach”.
Scosse forte il capo piantandosi le cinque unghie della mano destra nella fronte.
“Cosa vuoi?” disse. “Ha un orecchio, per esempio, che lo può fare solo il mio violoncello. E due labbra poi, due labbra così frementi di passione e di sensi, di tutti i peccati capitali, mio caro! Benché sia santa e ’prude’ come una vecchia diavolessa inglese. È questo che ti frigge il sangue, capisci? Non ti parlo degli occhi, non sono mica il Padre eterno per poterne parlare. Ma le mani, per Bach, ma le mani! C’è un birbaccione di professore tedesco che gliele studia con gli occhiali, e gliele ha trovate ’psichiche!’ Maledetto, come ha trovato bene! È un pezzo di Quattrocento”.
Continuò a lungo su questo tono misto di fuoco meridionale e di finezza parigina, di sensualità e di poesia, levando a cielo persino le toelette della dama, delle quali tremava che fossero una sola cosa con quel corpo e quella anima, che le crescessero vive intorno come il calice al fiore. L’anima? Ah l’anima era musica italiana del Settecento, così ricca di vena, così delicata nello scherzo, così composta e precisa nel sentimento, sempre penetrata da una ragione luminosa. Insomma questa donna era la sola degna di sposare Lazzaro Chieco, la sola cui avrebbe voluto sacrificare la sua libertà.
Questo accesso di febbre matrimoniale mi strappò una esclamazione molto ammirata. Allora Chieco mi parlò con toccante gravità della tristezza che era in fondo al suo cuore sotto tanti pazzi umori, come l’acqua morta, scura in fondo al lago sotto tanto ballare e luccicare di onde. Era stanco, disgustato di tutto fuorché della musica e di un suo antico ideale d’amore, non detto mai ad alcuna delle tante femmine che aveva prese un momento.
“Ho trentott’anni” mi disse egli “ma potrei forse amare ancora ed essere felice come un fanciullo di venti”.
“E perché non lo sarai?” diss’io.
“Perché questa stupida non mi ama” rispose.
La signora Purgher chiamò da una finestra. Chieco balzò in piedi e, ficcatosi un dito in bocca, cacciò il suo fischio diabolico. “Andiamo a tavola” disse egli.
IV
Mi fece udire quella sera stessa, sopra un piano scellerato, la sinfonia e, in parte, il primo atto della sua Tempesta. Per vero dire, l’imitazione delle onde, del vento, dei tuoni, delle urla non mi è sembrata mai, con licenza dell’amico, straordinariamente felice in quella sinfonia; l’ultima melodia, che figura il canto di Ariele quando acquieta il mare, è soave, ma ricorda forse un po’ troppo la Canzone di Primavera di Mendelssohn… Invece il pezzo sinfonico che segue, eseguito dall’orchestra a sipario alzato e scena vuota, mi parve veramente, come parve al pubblico, sublime. La musica non è descrittiva ma seconda mirabilmente l’immaginazione dello spettatore che sappia essere quella una isola deserta dell’Oceano popolata da spiriti obbedienti a un mago, e dove si prepara uno strano dramma in cui avranno parte quelle aeree potenze misteriose e tante passioni umane.
L’amico mio infondeva nella sua esecuzione una vita indiavolata, mi gridava i nomi degli strumenti, li imitava con la voce, urlava nei punti di grande sonorità, rovesciando il capo all’indietro, tempestando con le braccia e con le gambe. Mi fece udire, con gli altri pezzi il duetto originalissimo di Calibano e Ariele, di cui non erano per anco scritti i versi. “È il duetto dell’anima” mi disse Chieco. “Shakespeare non lo ha immaginato, ma io sì. Lo faccio precedere da un assolo di violoncello che è divino. Te lo suonerò, poi, fuori di qui”.
Il bizzarro uomo suonò infatti più tardi questo pezzo ispirato a capo della scala che scende nel cortile, presso una finestra poetica da cui si domina il lago e si vedono giù, porgendo il capo, le alte mura, lo scoglio, i salici e i fichi selvaggi che ne sbucano a pender sull’acqua. Io sedevo sulla scala, cinque o sei gradini più sotto.
Il violoncello sospirava e gemeva più dolcemente di qualsiasi voce umana. Il vento sibilava nelle logge, sbatteva ogni tanto qualche uscio per le solitudini del castello. Un soffio più forte spalancò la finestra, portò dentro il rumore delle onde. Pareva di essere in un’altra isola incantata, di udire un altro Ariele, altre voci confuse di spiriti. Possibile che la sera prima, a quell’ora, io stessi pranzando in Galleria Vittorio Emanuele? Mi pareva un sogno, mi sentiva una vaga commozione, una inquietudine inesplicabile.
V
Il mattino dopo l’amico mio se ne andò a Comano per tempo. Io vagai lungo il lago, e prese le ’zette dell’Imarò’ che fiancheggiano i precipizi in fondo a cui si rigira, per un bagliore di ghiaie, la Sarca verde, giunsi a veder là di fronte, fra montagna e montagna, un cucuzzolo bianco, il ghiacciaio della Tosa. A colazione ebbi con la signora Purgher un dialogo su Chieco. “Matto” diceva “ma che cuore!”. Gli aveva visto prodigare oro ai poveri come un principe e parole assai più preziose dell’oro; abbracciare una vecchia pezzente che somigliava a sua madre. Di questa lo aveva udito parlar con un fuoco che gli empiva gli occhi di luce e di lagrime. Peccato che non avesse freno nel trattare con le donne! Era un orrore per quello. La signora Purgher finì col farmi acquistare, era la sua frase, un eccellente bicchier di Isera, dopo di che mi accinsi a rabberciar le strofette melliflue del poeta B. secondo certi concetti shakesperiani espressimi la sera antecedente dall’amico Chieco.
Il pomeriggio di quel giorno e tutto il giorno appresso furono interamente occupati dai preparativi del ballo. Chieco ne parlava come lo offrisse lui questo ballo, ma in fatto non aveva offerto che la sua direzione, la sua camera, la musica e l’acqua. Le provvigioni, i fiori, i fuochi di artificio vennero, per cura della società di Comano, in parte da Comano, in parte da Trento, insieme a tre famelici musicanti, un pianista e due violinisti, che noi battezzammo Trinculo, Stefano e Calibano; Chieco ne elesse subito uno a suo gran tappezziere, un altro a suo gran facchino, il terzo a suo grande sottocuoco. Lavoravano come scimmioni goffi, istupiditi da quella novità di mestiere e di padrone, guardando costui con un comico sgomento, non osando ribellarsi né sapendo se almeno fosse loro lecito di ridere.
“Tu non fai niente, brutto straccione” mi disse Chieco “ma stasera ti cambio nome vestito e mestiere, ti sollevo a mio primo lustrascarpe e barcaiuolo. Ho fatto venire apposta un canotto da Riva”.
Gli chiesi il perché di tanto onore, ma egli non me lo volle dir subito. Dopo pranzo mi prese a braccetto e mi condusse in giardino.
“Parliamo sul serio” disse egli. “Poiché non la posso sposare io, come si fa? la devi sposare tu. Maledetti voi che siete nati uno per l’altro!”.
“Mi dirai almeno il suo nome!” interruppi ridendo. “Non ridere! Tu non sai quanto bestia io sono in questo momento e quanto stupido sei tu. Perché lei ti vorrà bene, capisci, e tu ne vorrai a lei, e io che se ci penso ti strozzerei come l’ultimo dei piccioni, te la do, te la do e che siate maledetti!”.
Ciò detto mi saltò al collo, mi baciò, mi strinse in modo che lo credetti impazzito davvero.
“Ti voglio bene, sai” disse egli “perché ci conosciamo da tanti anni, perché non scrivi musica e ti piace la mia; ma se mi amasse, tu non saresti qui. Non ridere e non domandare il suo nome. La vedrai stasera. Se non ti piace è inutile che tu ne sappia il nome. Le ho già detto che ho qui un canotto e un domestico, e che questo domestico sa remare e che ella potrà fare una corsa sul lago. Ha accettato a patto che io non venga. Andrà con te solo, dunque. E adesso, mi dai trentadue lire e settantacinque centesimi”.
Feci un atto di meraviglia.
“Oh! furfante!” esclamò Chieco. “Vuoi che l’abbia fatto venire a mie spese il canotto? Vuoi fare all’amore tu e che io paghi? Come sei ’ragionàt’!”.
Non capivo bene, sulle prime, se scherzasse o no, ma il dubbio durò poco. Chieco voleva veramente le trentadue lire e io le sborsai, dichiarando tuttavia che in canotto non ci sarei andato poiché la sua incognita non mi tentava affatto.
“Oh” diss’egli “tu vuoi farti rendere il denaro?”.
Alle corte, dovetti promettere, per non offenderlo, di fare a suo modo, ma soggiunsi che non sarei uscito un momento dalla mia parte di barcaiuolo.
VI
Alla sera Chieco, in frac e cravatta bianca, raccolse una banda di ragazzotti, distribuì loro delle lanterne di carta e delle torce a vento, li schierò in colonna, vi collocò in mezzo i due violinisti, e, salito sull’asino di casa Purgher, si pose a capo di una bizzarra marcia alle fiaccole, in omaggio a quelli di Comano che dovevano trovarsi al ponte delle Sarche dopo le nove. I violini stridevano, Chieco zuffolava, i portafiaccole facevano un chiasso d’inferno, il terzo musicista tirava razzi dal nero culmine del castello, sul monte Cavedine sorgeva un fantasma velato di luna. Io m’imbarcai per una corsa di prova. Il canotto era un vecchio arnese pesante, troppo alto di sponde, fatto per i flutti e le collere, fluctibus et fremitu, del Garda, ben diverso dalla elegante barca inglese, che il maestro aveva a Fiumelatte; ma stava a galla, e io non desideravo di più. Approdai subito al luogo indicatomi da Chieco e vi attesi che le fiaccole e i clamori tornassero dal ponte delle Sarche. Faceva quasi freddo, l’aspettazione di questa signora che piaceva tanto a Chieco m’era sgradevole. Mi dolevo di avere scritto una certa lettera ad Antonietta, di non essere invece partito per Saint-Vincent dove ella si trovava. Le avevo scritto per chieder perdono e pace, ma la penna non aveva forse scritto come il cuore dettava, la penna aveva forse talvolta sentito il freno del maledetto orgoglio; non mi si era risposto. Perché scrivere? La febbrile visione di un incontro con Antonietta venne improvvisamente sopra di me. Era di una vivezza, e, in pari tempo, di una mobilità tormentosa. Ora Antonietta mi passava a fianco senza salutarmi, conversando e ridendo con altri, ora mi diceva un freddo ’buon giorno’, ora il suo lungo sguardo mi correva deliziosamente le vene. Intanto i clamori e le fiaccole tornarono. Udii il fischio di Chieco. Voleva dire che la signora c’era e che mi tenessi pronto.
Ero uscito dal canotto e mi preparavo un’attitudine ossequiosa di barcaiuolo che aspetta, quando comparve Chieco tenendo a braccetto la dama avviluppata in uno scialle bianco.
“Entra, entra tu!” mi gridò il maestro. “E a posto! La signora siede a prua e al canotto gli do una spinta io.” “Presto!” soggiunse, parlando a lei. “Facciamo presto, altrimenti ci prendono!”.
Infatti si gridava dietro a loro: “Chieco! Chieco! anche noi! Dove siete, Chieco?”.
Entrai nel canotto, sedetti sul banco di mezzo voltando le spalle alla prua, e impugnai i remi. In un baleno la signora balzò dentro, il canotto fregò, saltando indietro, la sabbia. “Presto, presto!” ripeteva Chieco. “Gira, gira!”. Feci girare a tutta forza quella vecchia carcassa e la misi con quattro colpi di remo alla corsa.
Si tagliava dritto all’altra sponda, quando la dama, che non aveva ancora aperto bocca, mi disse: “Fate il giro del castello”.
Dio mio, che dolce voce era questa? N’ebbi tronchi, per un momento, il moto, il respiro, il pensiero; era la voce ’sua’. Appena potei, ripresi a remare a caso, immaginando febbrilmente ch’ella sapesse, che non sapesse, non osando volgere il capo, sentendo che era un momento supremo.
Ella ripetè: “Fate il giro del castello!” con una leggera impazienza, stavolta. No, no, non poteva saper niente, Chieco l’aveva ingannata come me. Obbedii; piegammo verso lo scoglio del castello, incendiato in giro dal bengala. Qualcuno gridò: “Donna Antonietta! A terra! A terra!”. Ella mi chiese allora se si potesse approdare dall’altro lato della penisola.
Esitai un poco, e risposi con voce involontariamente alterata:
“Non lo so”.
Antonietta non replicò nulla, ma subito dopo sentii il canotto piegare sul fianco destro.
Certo ell’aveva fatto un movimento, aveva cercato vedermi in viso. Anche la sua voce mi parve leggermente alterata quando soggiunse:
“Voglio tornar indietro, all’approdo”.
Pensai che mi avesse riconosciuto, che forse mi credesse complice dell’inganno. Guai se credeva questo, lei col suo carattere! Non c’era da sperar più nella pace. Voltai il canotto, silenziosamente, per ricondurla all’approdo. Ero ben risoluto di parlare ma solo quando ella fosse libera di scendere, di lasciarmi. La luna usciva brillante di sotto un nuvolone: entrai nell’ombra del muro di cinta.
“Vi sono altri forestieri qui nel castello?” chiese Antonietta colla stessa voce di prima. Eravamo a una trentina di metri dall’approdo. Non risposi. Ora avrei dovuto voltar il capo verso di lei per approdar bene. Remavo adagio, adagio, il cuore mi batteva in tutto il petto. Antonietta non ripetè la sua domanda. L’angolo del muro di cinta mi comparve a fianco, era lì che dovevo approdare. Trassi di un colpo i remi nel canotto e balzai in piedi voltandomi a lei che si rizzò in un lampo e fece l’atto di slanciarsi a terra.
“In nome di Dio” esclamai stendendole le braccia “non sapevo niente! Mi crede, mi crede? Non è possibile che non mi creda!”.
In quel punto il canotto urtò la riva. Antonietta non parlò né si mosse.
“Esci, se vuoi” proseguii tra l’angoscia e la speranza, giungendo le mani. “Proibiscimi di seguirti, di parlarti, ma credi!..”.
“Sc” interruppe Antonietta “perché questa commedia?”.
Saltai a lei, le afferrai una mano ch’ella né mi abbandonò, né mi tolse, le raccontai con affannosa fretta quello ch’io pensavo allora essere uno scherzo di Chieco, le parlai del mio folle orgoglio distrutto dal dolore, dell’ardente speranza che mi riprendeva, della vita mia che era in sua mano, come anche l’anima, forse! Ebbro di gioia sentii quella mano cedere, cedere; potei stringere fra le mie braccia la dolce fidanzata che nulla, neppure la morte, potrà mai più interamente dividere da me.
Mi disse che aveva creduto riconoscermi al mio primo “non lo so”, ma che n’era stata sicura solo quando non avevo risposto alla sua domanda. Vinsi così presto perché la mia lettera, arrivata a Saint-Vincent quando Antonietta n’era partita per non trovarvisi bene, l’aveva raggiunta, dopo lunghe peregrinazioni, a Comano, la mattina di quel giorno stesso. Le proposi di restare in barca, di pigliare ancora il largo. Non le parve conveniente; e neppure ch’io, mutata qualità, l’accompagnassi al ballo. Ma prima di andarsene dovette pur dirmi qualche cosa di Chieco. Egli le aveva infatti parlato di amore; trivialmente, sulle prime, a modo suo; più tardi con una serietà e una passione di cui Antonietta aveva creduto capace il violoncello, ma non l’uomo. Respinto in tutti i modi, le aveva detto male di me, scandagliando il terreno, giurando che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di prendere ciò che io non aveva saputo tenere. A questo punto Antonietta gli aveva chiuso la bocca con due parole asciutte cui egli dichiarò di accogliere come il “turacciolo del fiasco”, soggiungendo però che farebbe vedere alla signora chi fosse Chieco, che testa e che cuore.
“Aveva ragione” disse Antonietta abbracciandomi dopo il suo racconto. “Ci ha intesi molto bene ed è stato molto buono. Ed ora vado, sai”.
“Va va” risposi trattenendola più forte che potevo.
“Come mandi via la gente, tu!” diss’ella con una boccuccia e un accento di bambina dolente, aggiustandomi i capelli sulla fronte. Mi pose le labbra all’orecchio, mi sussurrò: “Ho piacere che siamo qui al buio, che tu non mi veda bene negli occhi, altrimenti ci tornerebbe tropp’orgoglio qui dentro!”.
Ritirò il viso, rise un poco, mi diede un bacio, saltò a terra e fuggì.
Io mi scostai dalla riva remando in fretta e, deposti quasi subito i remi, mi abbandonai all’ebbrezza che m’invadeva cuore, pensieri e sensi. Non so quanto tempo rimanessi così sdraiato sul banco del canotto, con la nuca a una sponda, i piedi all’altra, le braccia incrociate, gli occhi alla luna; so che mi scosse il fischio di Chieco. Mi rizzai e remai a terra. Egli era là, sulla riva. Quando mi vide a pochi metri mi disse: “E come si fa?”. Vi era in me una battaglia di sentimenti diversi; pure saltai subito fuori ad abbracciarlo. Io non potevo parlare, egli ripeteva: “E come si fa? Poco somigliante la fotografia! Come si fa?”. Avevamo gli occhi umidi, credo, tutt’e due.
“Povero Chieco!” diss’egli. “È stato un gran fiasco!”.
Intanto un carro s’era fermato lì vicino sulla strada e alcuni uomini vennero difilati al canotto. “Cosa succede?” diss’io al maestro.
“Succede che la barca e io andiamo via. Mi seccava di vederti, ma ti sei andato a cacciare in mezzo al lago, bisogna bene farti venire a riva. Adesso si mette il canotto sul carro, Chieco sul canotto e Castel-t’-inchino”.
Così fu. In un attimo si caricarono il canotto e i bagagli. Nel castello ballavano e suonavano, nessuno sapeva niente, tranne la signora Purgher che credeva sognare e venne tutta commossa per un ultimo saluto. Chieco, seduto sopra un baule, non volle stringerle la mano, pretendendo che non fosse pulita; e le ordinò bruscamente di avvertire le signore e i signori che il maestro non cavaliere Chieco stava per partire e avrebbe degnato dar loro un saluto.
Si udirono presto dei passi rapidi, delle grida, delle esclamazioni, il carro fu attorniato di gente che lo voleva prender d’assalto per tirar giù a forza il maestro. Ma questi cacciò tali improperi napoletani e lombardi da fare scappar le signore e star quieti gli uomini.
“Adesso” diss’egli “o straccioni, vi saluto. Se volete poi sapere perché ne ho abbastanza di voi, ecco qua”.
Trasse il suo magico violoncello, incominciò la melodia dolcissima, appassionata, ch’è del duetto nel secondo atto della Tempesta, la troncò subito con quattro raschiate buffonesche, ripose lo strumento e gridò ’avanti!’ I buoi si mossero, le ruote stridettero, gli uomini salutarono con la voce e il cappello, le signore col fazzoletto, due o tre giovinotti saltarono sul carro. Vedo ancora Chieco buttarli giù a calci, l’odo ancora gridar loro in segno di vittoria: “E come si fa? E come si fa?”.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il fiasco del maestro Chieco
AUTORE: Fogazzaro, Antonio
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Il fiasco del maestro Chieco : racconti musicali / Fogazzaro. – Firenze : Passigli, 1992. – 87 p. ; 17 cm. – (Biblioteca del viaggiatore ; 41).
SOGGETTO:
FIC004000 FICTION / Classici