Natura e altre prose selvatiche è una raccolta di scritti che spaziano nel decennio tra il 1906 e il 1917.
Il tribunale verde, nato come pubblicazione di nozze mentre Carlo Linati, fresco della sua non brillante laurea in legge faceva praticantato presso l’ufficio dell’avvocatura erariale di Milano, è l’opera prima dello scrittore. “Sì che tra la frequentazione di avvocati e di tribunali e quella dei monti e delle campagne di Rebbio mi venne fuori, balzana e fantastica, quella storia di alberi e di un processo.” Così scrive Linati stesso riferendosi a quel suo primo lavoro.

Ma spicca tra questi scritti Duccio da Bontà che in prima edizione fu prefato da Gian Piero Lucini, prefazione che valeva da “bollo d’entrata” come scrisse Boine. Il romanzo attirò l’attenzione dei critici e ne parlarono, oltre al Boine, Puccini, Cecchi, Bontempelli. Janni ne fece una presentazione scandalizzata sul «Corriere della Sera». Non privo di garbata ironia la narrazione scorre nell’ambiente agreste idilliaco e permeato di frammistioni provenienti dalla tradizione e dalla mitologia variamente e abilmente inserite nel contesto contemporaneo. Assistiamo così all’inseguimento di un ignoto zufolatore dai piedi di capra (Pan o Ampelo?) e a un’incursione nel regno dei venti governato da Ariel che termina tragicamente a cavallo di una cometa.

Forte e intenso il contatto con la natura che lo scrittore visse in prima persona negli straordinari paesaggi tipici delle rive lariane.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

IL TRIBUNALE VERDE
Una mattina io mi trovavo a passeggiare per un paesaggio di questa terra immortale.
Ero divinamente felice. La terra era bella sacra innocente e il sole, corrusco e fiero come uno scudo peltato, diluviava riccamente attraverso gli spazi cosmici e si rompeva su quel bosco in tal tripudio di ori, canti e profumi che il mio cuore trasumanava e l’anima mia piegava in un confuso e delizioso panteismo.
Io pensavo a quel che dice Hume dell’anima che è uno strumento a corde e stupivo meco stesso quanto fosse in potere del sole e della natura pizzicarvi sopra minuetti piuttosto che fandanghi, rozze chitaronate piuttosto che elisii arpeggiamenti. Mi affannavo molto a cercar di scoprire il secreto di questa faccenda, mentre le bianche e gialle cavolaje svolavano sulle scarlatte milzadelle dei prati, e brucavano i pecchioni e chioccolava un merlo. Io amo l’onesto merlo, questo calunniato Amleto del bosco, e fu per lui che piantai là Hume col suo strumento e mi posi a seguire il faceto cantore. Volò e svolò parecchio saettando per diritto e per traverso la boscaglia: infine spiccò un lungo volo e si fermò s’una betulla che si stava sola in vetta a un brullo poggio. Di lassù si spollinava, mi sbirciava e chioccolava.
E il mio sguardo cadde su quella betulla.

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