Non me lo chiedo io, ovviamente. “E le femministe dove stanno?” è la domanda che fluttua nell’aria ogni qual volta riappare la questione islam-velo, che puntualmente si presta a fraintendimenti.
Silvia Romano rompe il silenzio dopo la sua scarcerazione e decide di parlare della sua conversione religiosa, sulla quale mi sono già espressa in un recente articolo (per leggerlo clicca qui) :la scelta religiosa di una persona, a meno che non venga imposta – dettaglio che la stessa Romano ha smentito – è intima e personale, quindi insindacabile. Sono fatti suoi.
Però, dietro alle sue dichiarazioni diciamo così “tranquillizzanti”, un passo dell’intervista mi ha colpito negativamente.
Romano dice: “Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subìvo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti.
C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo.
Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale”.
Capisco perfettamente che in un’epoca viziata da sterili dibattiti social si perda di vista l’obettivo, dando giudizi per nulla empatici e niente affatto lungimiranti.
Ma non bisogna nemmeno mascherare dietro all’accusa di islamofobia quello che dovrebbe essere un dibattito profondo solo per deviare l’attenzione dal perno della questione: il corpo delle donne. Non credo sia attraverso una spaccatura tra le pro e le anti-velo, oppure giustificando e normalizzando banalmente sistemi patriarcali di oppressione, che miglioreremo la condizione delle donne in nessuna società.
Se da un lato nessuno deve permettersi di giudicare la scelta di mettersi un velo, dall’altra parte non dovremmo nemmeno permetterci di denigrare le libertà acquisite da altre, costate anni di dure battaglie che solo noi donne conosciamo. Nonostante io nutra una forte simpatia per Silvia Aisha, quel “mostrare le forme” accostato a termini svilenti quali mercificazione e oggetto sessuale non lo posso accettare. Laddove non si debba – giustamente – giudicare la sua scelta di coprirsi, lei o altre, altrettanto giustamente, non devono giudicare chi indossa una minigonna
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La domanda da porsi non è se sia più giusto coprirsi piuttosto che denudarsi, ma quanto l’una o l’altra vengano imposte da un costrutto sociale. E sentire una ragazza poco più che ventenne dichiarare che coprendosi preserva la sua dignità e il suo onore, beh non mi piace neanche un po’, perché lo leggo come un giudizio moraleggiante che mi scaraventa in un passato remoto dal quale io e altre prima di me abbiamo lottato per affrancarci.
Senza volermi sostituire alla voce di chi porta il velo, aggiungo che chi si sta sperticando stracciandosi le vesti per difenderlo dipingendo quel capo di abbigliamento come l’emblema della libertà femminile (che perlopiù sono uomini musulmani oppure donne convertite) sta facendo inconsciamente fare un passo indietro a tutte quelle donne – delle quali pare che tutti si siano dimenticati – che il velo vorrebbero toglierlo. Pare non esistano più. So bene che non sono la totalità, eppure ci sono: sono donne che vivono in altri Paesi, e sono anche donne e ragazze di seconda generazione che vivono in Occidente, e alle quali putroppo non viene consentito di liberarsene per non turbare l’ordine confezionato di una certa parte maschile. Forse bisognerebbe intervistare loro.
L’abuso fisico è solo l’ultimo gradino nella scala delle culture maschiliste che molto spesso mantengono il loro controllo sulle donne anche attraverso il possesso dei nostri corpi. Non dimentichiamocelo.
(di Agatha Orrico)