Durante il nostro percorso attraversiamo tragitti lastricati dal dolore, dalla resistenza, dal desiderio e dalla speranza.
Combattiamo guerre sconosciute da cui non possiamo sottrarci con la viva certezza che dobbiamo scegliere se sopravvivere o perire.
Questo breve testo è composto da racconti che narrano le imprese, le tempistiche e il contesto storico che hanno incorniciato la sorte dei suoi protagonisti.
Mirca Ferri
Mirca Ferri, nata a Scandiano (RE) il 30/06/1977 e residente a Sassuolo (MO) con il marito e il loro figlio di 11 anni.
Diplomata presso Liceo Scientifico di Modena si è avvicinata mondo della scrittura fin da ragazza, con la stesura di brevi componimenti pubblicati per il giornale della biblioteca locale. Attualmente frequenta l’ Università Domenicana Internazionale, corso di Storia della Teologia.
Ha iniziato pubblicando, con buon successo, una raccolta di testi in prosa, “Identità perse raccolte, perdute e ritrovate” che narrano del cambiamento della sua vita a seguito della scoperta della sua malattia, a cui è stato dedicato un articolo sulla Gazzetta di Modena, il quale è stato recensito positivamente sia dalla quotidiano locale che dai lettori.
Il suo primo romanzo “Radici d’infanzia, ali di vita” edito dalla casa editrice Eracle Srl è stato segnalato da numerosi blog letterari in maniera positiva e dallo stesso quotidiano locale, e recentemente inserito nell’antologia Liburni.
A Novembre è uscito il primo volume di un suo romanzo di genere Romance intitolato “Lati Scaleni” edito dalla Pav Casa Editrice facente parte di una trilogia. Ha appena ultimato il secondo volume della trilogia intitolato “Direzione Ipotenusa Volume II” sempre con Pav Edizioni presentato in anteprima al “BUK Festival” di Modena.
Recentemente ha vinto un attestato di merito partecipando al concorso “Verba volant, scripta manent”, ha scritto su commissione la biografia di un castello e del luogo ove risiede intitolato “Il varco dell’oste“. L’ultima sua opera è un’antologia di racconti denominata: Sopravvissuti: Le sorti della guerra le decreta chi decide le regole della pace.
Un estratto del libro
2. Un sorso di vita
Mi chiamo Katie. Anzi Katie Price.
In qualsiasi luogo venivo presentata, la signora americana che gentilmente mi ha accolta nella sua casa con giardinetto e l’immacolato recinto bianco, mi presentava così. Nome e cognome. Poi, sottovoce, sussurrava fiera alle sue amiche, avide di pettegolezzi: «E’ un inglese. Una vera inglese. Viene da Londra dove abita la regina d’Inghilterra! Vive con noi dopo la resa della Germania. La guerra ha reso orfane tante persone e noi siamo riusciti a prenderci un’inglese doc!»
Sorrideva e mi accarezzava i capelli come si liscia il pelo di un barboncino addomesticato. “Siamo riusciti a prenderci”.Chinavo la testa quando la ascoltavo pronunciare queste parole.
Avevo trascorso gli ultimi anni della mia vita fuggendo, combattendo, raschiando con le unghie un frammento di cibo e libertà ed ora ero stata acquistata come fossi una bella bambolina da ostentare al vicinato.
Insieme a me, all’inizio, quando giunsi sul suolo americano, vi erano altre tre ragazze. Gli Stati Uniti hanno combattuto la Grande Guerra ma il loro territorio non ne porta alcun segno. Solo ogni tanto capitava di intravedere negli occhi di alcuni suoi reduci il desiderio di dimenticare l’orrore che hanno forzatamente visto e vissuto. Oppure incrociavi il timore di chi crede di aver tatuato sulla fronte un marchio che indichi di essere lì grazie ad un inganno, un sotterfugio.
Così come abbiamo agito noi.
Francesca, Ornella, Adele e Maria che sono io. Adesso ci chiamiamo rispettivamente Patricia, Julie, Charlotte e, per l’appunto, Katie. Tutte e quattro italiane. Partigiane molto prima dell’otto Settembre. Ma quando sono sbarcati gli alleati non eravamo nessuno. I nostri parenti erano tutti morti, nessuno avrebbe potuto testimoniare la nostra appartenenza alla resistenza. Eravamo italiane, quindi fasciste, quindi da processare e probabilmente uccidere. Divenimmo l’una la famiglia dell’altra. Per mesi abbiamo tentato di sopravvivere conducendo un’esistenza disumana tale era la paura di finire nel vortice dei racconti raccapriccianti che si udivano sulla fine che facevano gli italiani caduti in pasto agli alleati.
Non importava il fatto che avessimo combattuto per distruggere il regime, che avessimo prosciugato le nostre lacrime tale era il quantitativo di persone care che avevamo seppellito, ora contava solo salvarsi.
Abbandonate, in balia di un Paese distrutto e alla deriva, ebbi l’idea di rubare l’identità di qualche soldato o infermiera che fossero parte delle altre nazioni nemiche della Germania.
In breve tempo ci inventammo una nuova vita. Così io divenni Katie, l’ambita fanciulla inglese, Francesca si trasformò nell’allegra olandese Patricia e Adele e Ornella divennero Charlotte e Julie due sciccose sorelle francesi. Non eravamo certe del nostro piano ma non ci venne in mente nient’alto e faticosamente iniziammo a cercare di imparare nuove lingue, togliere dai nostri visi l’orgoglio di una battaglia che sentivamo vinta e il dolore del sangue che bagnava la nostra patria. Imparammo ad assumere un’espressione spaurita, ingenua e debole come ci si aspetta da quattro orfane catapultate per caso nel mezzo di un conflitto.
Quando gli alleati cominciarono a smistare i superstiti trovarono noi ragazze denutrite e timorose. Sembravamo quattro uccellini con le piume bagnate. Non ci domandarono neppure i documenti, solo nome e origine. Il generale altezzoso che ci divideva nelle varie stive non avrebbe mai potuto immaginare di avere innanzi a sé quattro giovani guerriere che, forse, avevano combattuto e sofferto molto più di lui.
Durante il viaggio fummo separate e non ebbi più contatto con le mie compagne per tutta la traversata. Ero, inspiegabilmente, finita nel mezzo di tanti deportati soldati nazisti, italiani e qualche rifugiato polacco. Erano disperati. Si vociferava di torture terribili che gli alleati infliggevano ai perdenti anche se civili. Un soldato tedesco giaceva accanto a me e tentò varie volte di convincermi a togliermi la vita gettandomi in mare. Continuava a ripetere che mi avrebbero stuprata, umiliata, seviziata, torturata e infine uccisa. «Ma io sono Katie – rispondevo- sono Katie Price, un inglese. Sono innocente.»
Fu così che iniziai a dimenticare chi fossi veramente in virtù della salvezza. Il soldato desiderava spararsi ma non possedeva più armi. Invano, ogni giorno, cercava di soffocarsi con una delle sue bende. Nonostante avessi vissuto l’orrore della guerra per anni, convinta di aver smarrito ogni genere di umanità, la pena che provavo nell’udire quotidianamente le sofferenze di quell’uomo mi ricordavano il significato della pietà. Tutte le sere gli cantavo una ninna nanna nel tentativo di domare i suoi demoni cullati entrambi dalle onde del mare.
Quando l’imbarcazione, finalmente, attraccò al porto eravamo un insieme di esseri umani definiti feccia.
Molti dei miei compagni di traversata erano riusciti, durante il viaggio, nel disperato intento di togliersi la vita. Alcuni poiché perseguivano ancora fortemente gli ideali nazi fascista altri per paura di subire ulteriori sofferenze.
Il soldato tedesco che era stato accanto a me per tutto il tragitto mi osservò e, mentre, scendevamo a terra, timidamente mi disse «Grazie» in italiano.
Aveva capito benissimo che non ero inglese. Appena sbarcati si gettò tra le acque dell’oceano lasciandosi, finalmente, morire insieme a tutti i suoi fantasmi. Avevo combattuto per anni contro gente come lui ma ora eravamo tutti uguali, tutti sulla stessa sottilissima linea che separa la vita dalla morte e, quando lo vidi annegare, piansi per lui.