Podcast: Apple Podcasts | RSS
(voce di SopraPensiero)
Pubblicato Mio figlio ferroviere di Ugo Ojetti.
Romanzo ispirato – alla vigilia della crisi del sistema democratico – a un brillante disegno di satira politica. Apprezzato dal pubblico e persino da D’Annunzio che scrisse una lettera di congratulazioni all’autore, resta oggi in pratica l’unica opera ricordata dell’Ojetti.
Pubblicato nel 1922, cioè nello stesso anno della «marcia su Roma». Il narratore è un medico condotto di tendenze conservatrici, mentre suo figlio Nestore, abbandonati gli studi di medicina decide di fare il ferroviere, percorrendo una rapida carriera da sindacalista socialista; abbastanza spregiudicato tuttavia da giocare in borsa e speculare su beni immobili e terreni; scaltro e opportunista, agita le idee socialiste ma non esita a trasformarsi in rivenditore di automobili.
Romanzo piacevole anche se privo di vero intreccio e ricco di pause «saggistiche» moraleggianti nelle quali l’autore presume di poter delimitare i concetti di «giustizia», «verità» «amore» «odio» e permeato invece della faziosità fascista evidente nel descrivere non solo l’opportunismo del socialista speculatore ma anche l’incapacità dei borghesi (pronti a trarre i loro vantaggi) di opporvisi e che caratterizzerà l’attività dello scrittore soprattutto in molte sue opere successive.
Sinossi a cura di Catia Righi
Dall’incipit del libro:
Queste pagine di ricordi e di cronaca sono scritte, da un medico che m’è amico, anzi che mi conosce, su per giù, da quando sono nato. Egli ha la sua condotta in una piccola città dell’Italia centrale dove per anni e anni i miei solevano andare a villeggiare. Era ed è un uomo tranquillo, bonario e servizievole, che invecchia sorridendo e che dalla sua professione ha tratto l’abitudine d’osservare senza ira gli uomini e i loro casi e capricci, e che tra gli uomini da osservare ha saputo saviamente includere anche sè stesso, pur non avendo (dice) di sè stesso una stima singolare. Cento o centocinquant’anni fa l’avrebbero chiamato un filosofo; ma adesso la parola filosofo ha un significato solenne, dogmatico e quasi papale che proprio non gli si confà.
Anche nella bufera della guerra quando gli uomini rimasti in paese potevano vivere in pace, e nella bufera di questa pace quando anche a restare in paese ci si ritrova in guerra, egli è rimasto sereno, o almeno s’è mostrato sereno ed ottimista. Dice: – Durante la guerra ci avevano predicato di assumere tutti, anche i più fiacchi e i più vecchi, qualità di giovani, anzi d’adolescenti: coraggio, impeto, temerità, baldanza, distacco dagli affetti domestici, odio fino alla ferocia, noncuranza del domani, fede nell’impossibile. Ora ci consigliano, da un mese all’altro, le qualità dell’età matura; misura, ponderazione, parsimonia, vita casalinga, maniere soavi, tolleranza e rassegnazione. Un momento di respiro ci vuole, chè l’uomo non si tempra come l’acciajo, tuffandolo rovente nell’acqua diaccia. E se a creare un uomo bastano nove mesi, a mutarlo non bastano.