La serie di racconti a puntate, pubblicati sul “Corsaire-Satan” tra il 1847 e il 1849 sotto il titolo Scènes de la vie de Bohème, fece raggiungere la grande notorietà ad Henry Murger. In questi l’autore narrava, con una carrellata di quadri, come si svolgesse la vita di bohème, quali fossero i personaggi, i giovani artisti, che l’animavano, i loro patimenti, i loro amori. Il successo, con lo sprone e la collaborazione dell’attore e commediografo di successo Théodore Barrière e l’incoraggiamento dell’amico scrittore Champfleury, che lo esortò a dedicarsi alla narrativa, convinse quasi subito l’autore a farne un adattamento teatrale (La vie de Bohème, 1849). La prima rappresentazione si tenne al Théâtre des Variétés, nel cuore di Montmartre, il 22 novembre 1849. Tra gli spettatori plaudenti, in una sala stracolma, era anche Napoleone III, dal 1848 presidente della Repubblica francese e dal 1852 imperatore. Dopo cento rappresentazioni con il tutto esaurito, la pièce passò al più prestigioso Théâtre de la Comédie-Française.

A seguito del successo che anche la pièce teatrale aveva ottenuto, l’editore Michel Lévy, in accordo con l’autore, raccolse i racconti a puntate in volume (1851), con il titolo Scènes de la Bohème nella prima edizione, mutato poi in Scènes de la vie de Bohème dalla terza edizione nel 1852. Murger, nel passaggio dai racconti al volume, fu costretto a rivedere l’ordine di pubblicazione originario e scrisse nuovi capitoli. Aggiunse un’introduzione che ricorda la storia della Bohème sottolineando come sia un fenomeno presente in tutte le epoche; introdusse un capitolo iniziale (Come nacque la compagnia della Bohème) e un epilogo (La giovinezza non ha che una stagione). Uno dei capitoli, dal titolo Le Manchon de Francine (Il manicotto di Francine), si presenta quasi a parte, come una storia a sé stante.

Da allora in poi il testo di Murger continuò ad avere una straordinaria diffusione. La prima edizione italiana, gravemente mutila e di traduttore ignoto (forse Gian Vincenzo Bruni), apparve nel 1859 col titolo Scene della vita d’artista; nel 1872 fu pubblicata da Sonzogno una nuova traduzione per mano di Felice Cameroni, dal titolo La bohème : Scene della Scapigliatura parigina. Cameroni, critico letterario e giornalista, fu l’apostolo della letteratura moderna e fece conoscere in Italia Heine, Musset, Zola, Vallès e Murger, individuando in questi ed altri autori, soprattutto francesi, coloro che portavano avanti la più clamorosa protesta contro l’accademia e capaci di indicare una via per il rinnovamento.

Partendo dall’assunto che non esista una sola bohème, è molto interessante l’individuazione degli elementi che, secondo Anthony Glinoer, fanno sì che si possano fissare i cardini del mito della bohème:

« 1) La giovinezza. Artisti esordienti, studenti: tutti coloro che sperimentano la vita di bohème sono all’inizio della loro carriera e hanno spesso lasciato da poco la loro famiglia d’origine. […] questa giovinezza non è solo una questione d’età ma anche di status sociale […]
2) Lo spazio. La formazione di quartieri bohèmes come Greenwich Village e SoHo a New York, Schwabing a Monaco di Baviera e San Telmo a Buenos Aires mostra la tendenza degli artisti a vivere, lavorare e divertirsi in una zona delimitata della città, sovente un quartiere popolare dai modici affitti, che hanno ben presto colonizzato. […]
3) La fraternità. La vita di bohème è divisa tra momenti di solitudine, di coppia e di gruppo. Gli amici bohèmes sono molto più che colleghi: piuttosto, sono compagni di stenti, con i quali si divide la stanza, il pasto, il vino, capaci di sollevare il morale nei giorni di depressione, e in caso, se ce l’hanno, di prestare qualche soldo. Talvolta, i bohèmes formano gruppi molto stretti e difendono insieme un’estetica particolare: si pensi ai dadaisti e al Bauhaus degli anni Venti del Novecento o ancora ai gruppi rock della “Swinging London” degli anni Sessanta […] o alla “Société des Buveurs d’eau” […]
4) L’eccesso. […] Nella bohème domina una cultura dell’eccesso, oscillante tra il godimento immediato e l’infelicità più profonda, e questa cultura insorge contro la temperanza borghese.
5) La scrittura di sé. […] è attraverso i testi e le altre opere artistiche, e soprattutto quelle dei principali interessati, che si è trasmesso il mito. A partire dalle Scènes de la vie de bohème, i bohèmes usano parlare essi stessi in prima persona della loro vita passata o presente, la mettono in scena, esibendo davanti al lettore lo spettacolo della propria vita intima. L’opera di Murger non è dunque che una punta emergente nell’ambito di una massa enorme di testi della più varia natura […]» (Anthony Glinoer, La bohème e i suoi miti; in Giacomo Puccini, La Bohème, https://www.teatroregio.torino.it/sites/default/files/uploads/inline-files/La_bohème.pdf)

Dal testo sono stati fatti numerosissimi adattamenti, prime fra tutte per importanza le opere La bohème (1896) con le musiche di Giacomo Puccini e La bohème (1897) di Ruggero Leoncavallo, che compose musica e libretto. Le numerose produzioni artistiche sono state realizzate o basandosi direttamente sul testo di Murger – come l’opera di Leoncavallo o il film, per citarne uno, Vita da bohème del 1992 diretto dal finlandese Aki Kaurismäki – , o a partire dall’adattamento musicale di Puccini – come il film muto del 1926 diretto da King Vidor, con Lillian Gish e John Gilber o la canzone omonima di Charles Aznavour e Jacques Plante del 1965 o il musical rock Rent (del 1996), scritto e composto da Jonathan Larson, nel quale l’AIDS sostituisce la mortale tisi.

La differenza sostanziale tra l’opera di Murger e quella di Puccini è che nella prima quello che all’autore premeva descrivere era proprio la vita di bohème, quella vita anticonformista, disordinata, squattrinata tipica dei giovani artisti alle prime armi, vagabondi e solidali fra loro, chiamati boemi come gli zingari che secondo tutto il mondo di allora provenivano dalla Boemia, poveri ma pronti a dividere il minimo centesimo, a volte cinici ma innamorati fino alla consunzione delle loro donne, splendidi fiori effimeri. L’opera struggente di Puccini tagliò le parti delle descrizioni della vita più prosaicamente quotidiana e distillò dal testo di Murger l’amore tra Rodolfo e Mimi, componendo una musica che accompagnò un libretto in cui Luigi Illica, che si sarebbe occupato della sceneggiatura, e Giuseppe Giacosa come autore dei versi, riuscirono a fondere gli episodi narrativi sull’idillio dei due giovani sparsi nel testo di Murger in un libretto perfetto dal punto di vista drammaturgico, in grado di ricreare esattamente quel clima di leggerezza e di disgrazia che aleggia in tutto il romanzo.

Il nome di Murger rimarrà per sempre legato alla viva e commossa rappresentazione della vita del Quartiere Latino di Parigi: la lieta miseria, le generose illusioni e i tristi disinganni trovarono il loro poeta, che seppe fondere realismo e sentimento, leggerezza e riflessione, comico e tragico; una vita nella quale la ricerca dell’arte e della fama è costantemente combinata con la ricerca dell’amore. Il cronista di queste storie è proprio colui che le vive dal di dentro ogni giorno sulla sua pelle: sue sono le esperienze di scrittore disperatamente povero che vive in una soffitta ed è membro di un circolo di amici che si definivano “i bevitori d’acqua” (perché erano troppo poveri per permettersi il vino).

Murger racconta il suo mondo ed i suoi amici: Rodolfo dunque è lui stesso; Schaunard rievoca la personalità del pittore-musicista Alexandre Schanne (1823-1887); il pittore Marcello fu forse ispirato dalla figura di François Germain Leopold Tabar (1818-1869. Anche di lui, come di Murger, esiste un ritratto fatto dal pioniere della fotografia Nadar) e insieme da quella dell’amico romanziere e critico d’arte Champfleury; il filosofo Gustave Colline ricorda due filosofi, Jean Wallon (1821-1882) traduttore di Hegel, e Marc Trapadoux (1822-?); l’invito al veglione la sera prima di Natale ricorda un memorabile invito di Nadar; a proposito di Mimi, anche da Georges Montorgueil nella sua biografia ritenuta l’amante di Rodolfo/Murger, il biografo annota:

« Un scribe avait noté machinalement sur le registre des entrées et des sorties de la Pitié à la date du 9 avril 1848, le décès, à 3 heures du soir, de
« Lucile Louvet, âgée d’environ 24 ans, fleuriste, native de Paris, demeurant 58, faubourg Saint-Denis.
« Entrée le 6 mars ’48.
« Tuberculeuse. » (Georges Montorgueil, Henri Murger, romancier de la bohème. Paris, 1928. p. 178)

La caratteristica delle donne di Murger risiede nella loro apparente fragilità e in un lato volubile, incostante, come gli uccellini e i fiori di strada. È la povertà a minacciare l’amore: i bohémiens rivaleggiano con i ricchi ‘protettori’ che offrono alle giovani ragazze, alle ‘grisettes‘ libere e innocenti, la fuga dalla precarietà, una parvenza di ricchezza, a fronte del sacrificio dei loro sentimenti e dei loro corpi, mutandole impercettibilmente in donne di facili costumi, in ‘lorettes‘ (dal nome della chiesa di Notre-Dame-de-Lorette e dell’omonimo quartiere parigino, frequentato nella prima metà dell”800 da donne compiacenti).

Nell’introduzione, datata 1930, presente nella prima edizione originale in volume (1851) Murger dichiara che senza ombra di dubbio:

«Oggi, come una volta, ciascun uomo che entra nelle arti, senz’altro mezzo di sussistenza che l’arte istessa, sarà forzato a passare per i sentieri della bohême. […] Vita di pazienza e di coraggio, ove non si può lottare se non munito d’una forte corazza d’indifferenza contro gl’imbecilli e gl’invidiosi; ove non si deve (per evitare gli inciampi) abbandonare per un sol momento l’orgoglio di sè stesso, il quale serve per bastone d’appoggio. Vita seducente e terribile, che novera i suoi vincitori e martiri, ed in cui non si deve entrare, se non rassegnandosi, sin dal principio, a subire l’implacabile legge del væ victis

Quanto al linguaggio usato nel testo, lo stesso Murger scrive:

«La bohême parla nel suo seno un linguaggio particolare, tolto a prestito dalle discussioni artistiche, dal gergo delle scene e dai discorsi dei gabinetti giornalistici. Tutti gli eclettismi di stile si dànno appuntamento in questo idioma strano, ove le frasi dell’Apocalisse toccano il coq-à-l’âne; […] Gergo intelligente, benchè inintelligibile per tutti quelli che non ne hanno la chiave e la cui audacia sorpassa quella delle lingue più libere. Il vocabolario della bohême è l’inferno della rettorica ed il paradiso del neologismo.»,

un modo di espressione, al tempo stesso informale e arguto, che rende i dialoghi ancora estremamente attuali.

Nel libro French Men of Letters di Maurice Mauris, marchese di Calenzano, si legge:

«Jules Janin, who was anything but partial to Bohemianism and its adepts, thus expressed himself regarding this book “Criticising is of no use. This volume is on every table. It has already charmed the youth of two generations ; and the third, which is hardly rising, knows it by heart. ‘La Vie de Bohème’ and ‘Les Chansons’ de Beranger are the first chapter of the code of life. Do and declaim as you will, the book will remain. It is adopted, and nothing can distract from it the generation that is passing, and still less the men of coming generations.”» (Maurice Mauris, Henri Murger. In French Men of Letters. New York, 1880. p. 102)

Dunque secondo lo scrittore e drammaturgo, importante esponente del Romanticismo, Janin considerava la Bohème di Murger e Les Chansons di Beranger i primi capitoli del codice della vita di ogni essere umano, materiale genetico, elemento base del canone della cultura occidentale.

Alcuni critici inglesi della seconda metà dell”800 accostarono l’opera di Murger a Vanity Fair (La fiera delle vanità) ritenendola, pur rappresentando un ambiente più ristretto, un quadro di vita notevole tanto quanto l’opera di Thackeray. Essi sostennero che le Scènes de la vie de Bohème illustrassero lo spirito stesso di quella vita fuori dagli schemi e dalle regole in modo magistralmente nitido, un tipo di vita che ebbe più influenza di quanto si potesse immaginare sulla società, sulla letteratura e persino sulla politica, della Francia di quel tempo. In perenne bilico, per i critici, tra romanticismo e scapigliatura, in realtà la Bohème di Murger ha indubbiamente sia dell’uno che dell’altra, pur prevalendo nell’opera il piacere del racconto, la effervescence della trovata, la malinconia mista alla gaieté, in cui l’ideologia scolora.

Certo è che Murger, con la sua vita, pur con tutte le sue difficoltà, delusioni e miserie, può essere preso come un luminoso esempio di coerenza in contrasto con la predica di Marcello il pittore, che, sul finire dell’opera, dice:

«[…] Il passato è passato. Tagliamo gli ormeggi. Ora è arrivato il tempo di guardare avanti nell’avvenire. La bella giovinezza, la spensierata incuranza, l’età del paradosso è passata. […] Se ne può scrivere un grazioso romanzo; ma questa commedia di folli amori, questo spreco della vita, come se essa fosse eterna, deve avere un punto fermo. Non è piú possibile, se non a condizione di essere disprezzati e di disprezzarci noi stessi, questa faccenda di continuare a vivere al margine della vita sociale. […] Ma è vita quella che noi conduciamo? La stessa nostra libertà e indipendenza di cui tanto ci gloriamo, che vantaggi ci danno? Ben pochi! La vera libertà consiste nel poter fare a meno degli altri, bastare a sé. […] Si può essere artisti e poeti vivendo come tutte le altre bestie umane, coi tappeti ben caldi e i suoi tre buoni pasti al giorno. […] Mi sai dire tu dove arriveremo col nostro eterno vagabondaggio? Noi arriveremo ai trent’anni, sconosciuti, soli, disgustati degli altri e di noi; invidiosi di tutti quelli che sono arrivati a concludere qualche cosa. E saremo costretti a vivere di ripieghi, e forse di ripieghi vergognosi. […]» (Henry Murger, Vita di Bohème. Trad. di Alfredo Panzini. [Milano], 1930. Cap.XXII pp.284-286)

La vita stessa e soprattutto la fine di Murger dimostrano quanto l’autore abbia creduto all’affermazione che «la jeunesse n’a qu’un temps», che la giovinezza passa velocemente e presto si porterà via tutto. Ma lui non è sopravvissuto alla sua giovinezza.

La traduzione di Alfredo Panzini, pubblicata nel 1930 per i tipi di Mondadori nella collana “Biblioteca Romantica”, può risultare forse un po’ antiquata, con molte italianizzazioni in parte imposte dal fascismo; è tuttavia una traduzione d’autore. A parte parziali scostamenti dal testo originale, dovuti indubbiamente al fatto che il traduttore era già scrittore e critico di chiara fama, accademico d’Italia – come evidenziato sul frontespizio -, e che si consentiva qualche ‘licenza poetica’, riteniamo tuttavia importante segnalare – con note nel testo – alcune rilevanti variazioni, che si è ritenuto opportuno in qualche caso sanare.

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del libro:

Ecco come il Caso – che le persone di poca fede dicono che è l’agente di affari del buon Dio – mise in relazione di fraterna amicizia alcuni artisti i quali dovevano poi formare la bella compagnia della Bohème. E cosí come la cosa avvenne, l’Autore si è provato di far conoscere in questo libro.
Fu dunque una mattina dell’otto aprile che Alessandro Schaunard, pittore e musico insieme, fu bruscamente svegliato dal chicchirichí di un gallo che gli serviva da orologio.
‒ Per Dio santo! ‒ esclamò Schaunard. ‒ Il mio orologio con le penne va avanti. Non è possibile che a quest’ora oggi sia oggi.
E cosí dicendo balzò fuori da un certo mobile di sua speciale invenzione che, di notte, gli serviva da letto e di giorno adempiva all’ufficio di tutti gli altri mobili che non c’erano; e non c’erano perché l’inverno precedente era stato molto freddo, ed essi se ne erano andati al Monte di Pietà.
Dovendo compiere cosí svariati doveri, non è un offendere quel povero mobile dicendo che, come letto, valeva poco.
Siccome spirava una brezzolina tutt’altro che primaverile, cosí Schaunard si coprí con una sottana di seta rosa cosparsa di stelle, che faceva le funzioni di veste da camera.

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