Villa in collina

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 13 minuti


Risalivo la strada della collina e gli antichi scenari di verde e di muriccioli, via via che sorgevano alle svolte, mi parevano finti. Tanto tempo ne ero vissuto lontano ripensandoci appena in certi istanti svagati, che la loro attualità materiale mi faceva ora soltanto l’effetto di un simbolo del passato.
Ma non erano simboli la brezza della sera e l’odore di quella terra. Qui ritrovavo corporalmente l’atmosfera della mia gioventú, perché queste cose non le avevo mai dimenticate, ma in lontane campagne o nei viali delle città, tante volte avevo fiutato l’aria riassaporando altri tempi.
Anche la voce al telefono non era stata un simbolo. Mi aveva fatto trasalire, tanto all’orecchio mi era suonata netta e fedele al ricordo. Probabilmente Ginia non s’era conservata come la sua voce. La voce è, con l’odore del nostro corpo, quanto abbiamo di piú inalterabile. Ma non avrei, credo, riconosciuto Ginia all’odore e nemmeno al profumo.
Costeggiavo la ringhiera che ai miei tempi non c’era ancora, cercando di ritrovare l’antica inquietudine a guardar giú nel torrentaccio che tante volte aveva arrestato, soltanto col suo alito freddo, i miei passi traballanti, quando tra un franare di sassi un giovanotto biondo sbucò con la giacca buttata sulle spalle dal letto semiasciutto, issandosi al livello della strada. Istintivamente mi fermai per creanza e quello scavalcando la ringhiera saltò sulla strada. Senza guardarmi fece un sorriso tra sdegnoso e preoccupato.
Gli dissi, faceto: – Buona sera.
Il giovanotto mi rispose in fretta: – Buona sera, – chinando rapido il capo, e si volse a risalire, a passi affrettati, la strada.
Quando scomparve alla svolta, non pensavo piú a lui, ma mi guardavo intorno cercando di riconoscere i luoghi. Da quanto ricordavo della collina e dai calcoli sulla numerazione delle ville, mi restava ancora un buon tratto di strada. Dovevo ancora sorpassare l’osteria alberata e il grande parco sempre deserto, dove in giugno si vedevano tra l’erba scura le fragole. Che idea, quella di Ginia, di andarsi a stabilire lassú. Si ricordava ancora Ginia della franca golosità con cui si buttava su un piatto di frutta o era ormai troppo invecchiata?
Per quanto l’idea di rivederla mi signoreggiasse, non ero inquieto. A me accade di gustare la solitudine specialmente quando so che tra poco dovrò uscirne, e, solo com’ero su per quella strada del passato, i ricordi mi facevano compagnia come tante nuvolette. Ero io? Ero proprio il ragazzo di un tempo? Chi avrei veduto quella sera? Guardavo il torrentaccio e i cancelli radi delle ville; e sulla strada asfaltata mi pareva di calpestare una segreta tristezza, quasi un presentimento. Melanconici erano soltanto i cupi scenari degli alberi antichi, non la brezza e la solitudine.
Giunsi cosí a un’altra svolta e vidi in distanza, seduto sopra un muricciolo, il giovanotto di prima. Stava a guardare il cielo, limpido nel primo imbrunire, e fumava una sigaretta. Ebbi l’impressione avvicinandomi che fosse straordinariamente giovane per la sua statura dinoccolata. Posava un piede a terra e l’altro sul muricciolo.
Alla mia domanda se sapeva indicarmi la villa, staccò la sigaretta e mi disse additandomi un cancello a pochi passi: – Ci vado anch’io. È qui.
Il cancello era solo accostato e mostrava una gradinata stretta che metteva a un terrapieno fiorito. Si vedeva tra le piante il tetto rosso della villa e veniva di lassú un chiacchierio di gente che si fa festa.
Il giovanotto non si muoveva. Continuava a fumare e guardare il cielo. Non so perché, stetti ad aspettare, in piedi, contro il cancello.
Adagio, la sigaretta fini. Allora il giovane saltò in piedi e, facendomi un sorriso, infilò con me la porticina.
— Non si può stare un momento soli, – disse Ginia entrando con me sul terrazzo e sbattendosi la porta alle spalle. C’era una scintillante mensa imbandita per sette o otto persone, che nella sera fresca raccoglieva in sé tutta la luce del cielo.
— Sembra d’essere su un lago, – dissi. Ginia si buttò su una panchina e mi fissò di sotto in su, intenerita. Dal basso venivano voci e scricchiolio di ghiaia.
Parlammo a lungo, avidamente. C’erano delle tristezze in Ginia che non penetravo, ma in questi casi tacevo, abbandonandomi a guardarla. Era pur sempre la stessa.
Alla fine contrasse il suo solido viso che le prime rughe scolpivano senz’avvizzirlo e si guardò intorno.
— Mi cercano, sotto, – disse.
— È arrivato tuo marito?
Ginia tornò a sorridere. – Non lui. Sa che abbiamo molte cose da dirci.
— Non si finirebbe mai, – dissi allora. – Ma tutto si riduce a questo: desideri sempre?
Ginia chinò il capo, ambigua. – Lodando il cielo, sí.
— E allora, tutto va bene.
— Vogliamo scendere? – disse alzandosi. Vestiva un semplice abito, bianco come la tovaglia sul tavolo.
Scendendo dissi: – Sono amici tuoi o di tuo marito, tutta questa gente?
— Li abbiamo mescolati, sposandoci, come si fa coi libri. Che poi non si leggono piú.
— Nemmeno i nuovi acquisti? – dissi con intenzione.
— Oh!… quelli.
Nel giardino sul crepuscolo, dove uscimmo, feci la conoscenza di qualcuno degli ospiti. Tutti, chiedevano a Ginia del marito. Ginia si schermí, scherzando con impazienza, e m’invitò a sedere su una poltrona di vimini. Il giovanotto biondo comparve da un viottolo.
Avevo di fronte una donna angolosa, dalle gambe accavalciate.
— Ginia mi ha molto parlato di lei, – mi disse a un tratto confidenzialmente. Siccome imbruniva, si sporgeva innanzi e socchiudeva gli occhi per vedermi meglio. Poi si riabbandonò sulla poltrona.
— Ginia è una donna straordinaria, – continuò, – ha la vitalità di un’adolescente e un goût de vivre. eccezionale. Quando racconta un fatto del passato, pare di sentirla gioire con tutto il corpo. Ricordo sempre una volta che ci descrisse la gioia con cui faceva il bagno da bambina. Anche di lei parla con gusto. Come l’ha trovata dopo tanti anni?
— Bene.
— Sono contenta. A me pareva un poco stanca, preoccupata. Forse ha bisogno di distrazioni. Ma il piacere di rivedere un vecchio amico, e giovane, le avrà fatto da tonico. Lei conosce suo marito?
— No.
— Lo conoscerà. Ma come ritarda. Ritardano sempre i mariti, vero?
Siccome rideva, di un riso aspro, angoloso, socchiusi gli occhi nella penombra e mi congiunsi le mani sotto il mento.
La voce rauca riprese:
— È un uomo interessante, Paolo. Un uomo serio, troppo serio forse per Ginia. Tutto l’opposto di Ginia. Ginia è rimasta bambina, epidermica. Paolo vive forse anche piú intensamente di lei, ma si sorveglia, non traspare mai. Ginia invece è un cristallo, un delizioso cristallo. Ma sono sciocca: lei la conosce meglio di me.
In quell’istante qualcuno della casa accese la lampada sul nostro capo e mi apparve nel fiotto di luce il viso olivastro, magro, dagli occhi canzonatori. Accolse la luce un vocio d’applauso, e la conversazione divenne generale.
Un altro applauso salutò l’arrivo del marito di Ginia che, vestito di flanella bianca, sbucò dalla scaletta a braccetto di Ginia e seguito dal giovanotto. Era un uomo alto, dal viso fermo, che salutò in giro tutti con un sorriso leggero, senza scusarsi del ritardo. Mi strinse la mano con noncuranza, e ci pregò di sedere. Il giovanotto era rimasto indietro nella zona d’ombra.
Il marito s’allontanò con Ginia, a prepararsi per il pranzo. Qualche altro s’alzò ed entrò in casa. Poco dopo ero solo, nel cerchio delle poltrone, ma sentivo che nell’ombra il giovanotto respirava.
— Qui tutti fanno quello che gli pare, – dissi a mezza voce, conciliante.
— Ginia tornerà a chiamarla, – rispose. Uscí alla luce e si fermò sulla ghiaia, esitante. Il suo viso, improvvisamente illuminato, non mi pareva piú cosí giovane e liscio, ma portava un’unghiata di sofferenza che stonava con gli occhi.
— Malinconico? – chiesi.
— Mi scusi di prima, – disse adagio. In quel momento Ginia apparve sulla porta e venne verso di noi.
Finita la cena, qualcuno spense la luce nel turbinare dei moscerini, e restammo seduti sul terrazzo fra le cime nere degli alberi. Ginia e Ada accompagnarono dentro una signora che aveva preso freddo, e per un poco nessuno fiatò.
— Quest’oggi i marciapiedi erano un forno, – disse una voce profonda dall’altro capo del tavolo.
Due o tre fumavano e i puntolini rossi palpitavano come lucciole immobili. Sorseggiai il mio caffè come non avessi sentito.
Finalmente un’altra voce – la macchia pallida del marito di Ginia – osservò:
— Il piú forte è passato.
Poi una voce ben nota:
— Veramente, non era mai stato quassú?
— Conosco queste strade, – risposi nel buio. – Le battevo quando avevo la sua età. Senza discendere nei torrenti, sono però andato a rischio di rotolarci molte volte. Poi le ho perdute di vista.
— E conosceva Ginia, allora?
— Intendiamoci, la collina era una cosa e Ginia un’altra. Benché, credo che anche a lei le piacesse la cenetta all’osteria.
Il marito disse a un tratto:
— A sentir Ginia parlare di voialtri, sembra che foste tanti lupi.
Venne la cameriera e gli parlò all’orecchio. Il marito ci chiese scusa e la seguí senza scomporsi. Rimasero due signori anziani e una signorinetta che confabulavano in fondo al tavolo, e il mio giovanotto passeggiò un istante irrequieto, poi s’appoggiò alla ringhiera.
Socchiusi gli occhi, rovesciando il capo. Trascorse non so quanto tempo, poi di nuovo sentii vicinissima la voce del giovane che parlava beffardo. Quel tono mi fece alzare. Lo presi a braccetto e dissi: – Andiamo a cercarli?
L’altro mi portò invece alla ringhiera di dove si scopriva, nell’avallamento, una fetta immensa di città, tremolante come un lago.
— Dica la verità: lei è qui tutte le sere? – gli feci, dopo un poco ch’eravamo appoggiati.
— Sono stufo, – mi disse piano, – stufo. Mi spieghi lei come ha fatto a essere giovane in questi posti.
— Queste cose si scoprono quando sono passate. Tiri avanti e non ci pensi.
Non mi rispose.
— A lei non si confà la collina, – dissi tranquillo. – Provi laggiú…
Non disse nulla e sputò adagio nella grondaia.
— Come si sta in Sicilia? – chiese bruscamente.
— Nel suo caso, bene.
— Quella stupida di Ada! – esclamò piano. – Si è accorto come s’interessa di lei e di Ginia?
— Tutte le donne sono cosí…
In quell’istante ci raggiunse uno dei due vecchi signori e ci disse ch’era impensierito per sua moglie.
— Andiamo a cercarla.
La incontrammo sulla porta col marito di Ginia.
— Io sto bene. È preso male a Ginia.
— Niente, niente, – disse il marito. – Digestione.
Scoppiarono parole concitate e vidi il marito che tratteneva per il polso il giovanotto agitatissimo.
— Dove vuol andare? Tornano subito.
Ci risedemmo e molti parlavano. La signora diceva affannata ch’era tutto colpa del caldo e del freddo alternati; e il marito spiegò con calma che non era nemmeno il caso di parlarne. Il giovanotto non s’era seduto: camminava irrequieto.
— Vogliamo fumare?
S’aprí finalmente la porta e comparve Ada, scura e beffarda. E accanto Ginia, pallida, con l’aria stupita.
Avrei voluto non essere là. Meno male che la penombra m’isolava e isolava ciascuno degli altri seduti sul terrazzo, anche gli abiti candidi di Ginia e del marito. Qualcuno parlava, tra il frinio dei grilli. Poi parlò Ada.
Perché ero venuto lassú?
Dopo molto, molto tempo uno dei vecchi si lagnò dei moscerini, e parlarono di rientrare.
— È un peccato rinunciare a questa vista.
Ci alzammo tutti, e cominciammo a sfilare giú per la scala. Rimasi in coda, e Ginia mi venne accanto tra lo scarpiccio.
— Povero diavolo. Ti annoi?
— Non eccessivamente. Fate sempre cosí?
— Piú o meno –. Mi strinse il braccio e soffiò nell’orecchio stravolta: – Parla con quel ragazzo. Non lasciarlo solo un momento.
Sotto, i vecchi e il signor Paolo si sedettero in sala, mentre le donne proseguivano in giardino. Mi fermai un momento alla radio, dove tutti armeggiavano, e quando fui per mettere i piedi sulla ghiaia del sentiero, mi sbucò incontro Ada dall’ombra. Osservai che aveva un passo baldanzoso.
— Dov’è Ginia? – le chiesi.
— Si consola con la gioventú, – disse aspra. – Ha visto che cose succedono?
— Che cosa?
— Ma come non sa?
— Che cosa?
— Sono cose di cui non è lecito parlare, ma via, ci si sposa per questo.
Parlava con un tono irridente, piú aspra che mai.
— Su, vada a farle le congratulazioni. Le aspetta. Dice che le dà l’impressione di tornare bambina.
Entrò dentro. Non volevo cercare nessuno e mi sedetti, volto al buio delle piante.
Poi uscirono dall’ombra Ginia e il giovane, a braccetto. Si staccarono subito e Ginia mi fece un sorriso. Si sedettero anch’essi sulle poltrone di vimini. Piano, senza disturbare il silenzio della notte, la radio suonava dalla sala. Corse fuori la signorinetta bionda e si fermò di colpo sulla ghiaia, trovandoci seduti in circolo.
Non guardavo Ginia per non vedere l’occhiata supplichevole che mi gettava. Appoggiavo il mento sulle mani congiunte.
— Lei conta sempre di mettersi in viaggio? – dissi finalmente.
Mi rispose invece Ginia, con una voce remota: – A provare la noia di certe giornate viene davvero la voglia di mettersi in treno.
— È un’illusione come un’altra.
Il giovanotto guizzò. – Ha perfettamente ragione. E in certi casi è anche una vigliaccheria. Si dice degli ubriaconi, ma chiunque fugge una responsabilità è un ubriacone.
— La responsabilità di passare l’estate in collina non mi sembra capitale, – disse Ginia sorridendo.
— Posso entrare anch’io? – ci fece la signorinetta, sedendosi. – Come sta, signora?
Nel silenzio che seguí, ascoltammo la voce leggera della radio, fin che tacque. S’era levata un po’ di brezza.
— Volete bere qualcosa? – disse Ginia alzandosi.
Quando tornò col vassoio, tacevamo. La biondina ci guardava inquieta. Ginia prese a versare.
— Tanto per qualcuno siamo tutti ubriaconi.
La biondina rise forte. Il giovanotto scattò in piedi.
— Voglio parlare con tuo marito, Ginia, – disse adagio.
Freddamente Ginia posò un bicchiere, e lo fissò. Si fissarono qualche secondo.
— Avanti, – disse secca. – Gli parleremo tutti e due. Andiamo.
Il giovane si fece vermiglio e sorrise sdegnoso. Poi si mosse al fianco di Ginia, ma quando giunsero all’entrata le strinse un braccio e la lasciò, scantonando nel buio delle aiuole.
Ginia piangeva. Il suo viso era tutto arrossato e si contraeva come quello di una bimba. Non l’avevo mai veduta piangere.
Le lasciai il braccio e me la feci sedere innanzi, chiudendo la porta.
Quando il silenzio divenne intollerabile, fu Ginia che mi levò incontro gli occhi, spalancati grandi.
— Come vedi, invecchio, – disse sorridendo. – Dove sarà andato quel ragazzo?
Non le risposi e la guardavo. Ginia riprese senza muoversi:
— È un ingenuo. Non è stato nemmeno capace di vendicarsi.
— Doveva?
— Pare di sí. Non c’è gente piú vendicativa degli ingenui. Sono capaci di tutto. Ma non sanno andare a fondo.
— Vorresti che l’avesse fatto?
— Forse era meglio.
— Lo sa, di te?
Ginia accennò del capo, gravemente.
— È questo che l’ha esasperato?
Ginia si piegò innanzi, poggiando il mento sulle mani. – Credo di essere il suo primo amore, – disse storcendo la bocca, – e non c’è cosa piú pericolosa.
Le sue narici arrossate palpitavano forte. Continuava a guardarmi intrepidamente e gli occhi eran tornati limpidi. Ma li abbassò.
Poi si alzò in piedi disinvolta, passeggiando.
— Tu a vent’anni hai mai creduto di esser padre?
S’aprí la porta e in un brusio di musica entrò il marito di Ginia. Chiuse dietro di sé e, nel silenzio, venne alla nostra volta.
Disse a Ginia: – Ero in pensiero. Come stai?
Ginia fece un comico broncio: – Piangevamo insieme.
Quell’uomo allora le prese la mano e, volgendola dalla palma, se la portò alle labbra. Tutti e due poi, a fianco a fianco, mi guardarono, e il marito disse: – Lei mi deve scusare ma sono in pensiero.
— Coi bambini non si scherza, – disse Ginia.
— Ecco.
Congratulandoci, rientrammo in sala. Avevo bisogno di star solo. Cercai gli occhi di Ginia tentando di strapparle una conferma. Lei si strinse nelle spalle, e dovette dare una risposta ad Ada. Uscii allora sulla soglia.
Vidi il capo biondo di quella ragazza, seduta ancora dove l’avevamo lasciata. Fissava una poltrona vuota e pareva riflettere. Le girai alle spalle e mi persi nel buio.
Speravo vagamente di incontrare il giovanotto e mi spinsi fino a una piccola radura sotto un tiglio, donde si scorgeva, alta e nera, la spalla della collina. Stridevano i grilli e non giungeva suono umano se non, attutita, la voce della radio.
Cercavo di abituarmi all’idea che il giovane fosse sparito. E l’ombra fresca, la fragranza dei boschi, la visione di Ginia, non mi davano pace, non si componevano piú in intimo ricordo, ma mi mordevano alle radici del cuore, inquietanti ed equivoche come cose non mie. Pensavo anche che in quella radura, davanti a quella collina, Ginia e il mio giovanotto dovevano avere passeggiato insieme molte volte.
Lo ritrovai seduto, invece della signorina, con le spalle alla luce. Era solo e pareva ascoltasse, tutto raccolto, la voce d’Ada che usciva grave dalla sala.
Fermandomi colsi qualche parola. Ada scherzava, forte. Mi sedetti di fronte alla luce e il giovanotto mi vide ma non parlò. Lo guardai pacatamente senza dir nulla.
Mi pareva di essere tornato al nostro incontro del muricciolo quando improvvisamente, buttando la sigaretta, mi aveva sorriso. Ma non fumava né sorrise questa volta. Disse invece:
— Anche lei cerca la solitudine?
Non rispondevo e lo guardavo.
— …Non soltanto in disparte, ma solo capisce? via dai piedi e dagli occhi. Può dirlo a Ginia: starò solo. La rassicuri.
La sua voce suonava rauca e scandita.
— Perché è tornato a dirmelo? – chiesi.
Tacque un momento, e poi riprese:
— Lei non può sapere. Volevo dirlo a Ginia, ma non serve. Glielo dica lei che è suo amico. Io debbo andare –. S’era alzato in piedi.
— Io non le dirò nulla, – dissi.
— Perché?
— Perché mi pare che lei esageri.
Mi piantò in faccia quegli occhi sdegnosi, ma tremava.
— Vada da Ginia, – ripresi calmo, – e la tratti da eguale e le dica le cose che pensa; vedrà che Ginia non è donna da sciocchezze, e saprete uscirne. Tutto il resto non conta.
— Tutto il resto conta, – balbettò il giovane. – Ginia non tornerà indietro. Ginia non è una stupida. Io stesso che le parlo, non so la verità.
Senza levare gli occhi, fissai l’intrico d’ombre della glicine sulla ghiaia. Sentivo pulsarmi e dolere le tempie.
— Me ne vado, – disse il giovane, – senza salutare nessuno. Cosí non tornerò. La prego di parlare con Ginia –. Il fruscio leggero s’allontanò sulla ghiaia.
Quando rientrai in casa, trovai gli ospiti in procinto di andarsene. Mentre le donne salivano a prepararsi, il marito di Ginia m’invitò a tornare di pomeriggio quando, essendo molto caldo, Ginia era sola e avrebbe volentieri parlato con me dei tempi passati. Scusai il giovanotto, ma si mise a ridere e mi disse che sovente spariva a quel modo per gironzolare solo, sulle colline. E a quell’età non si poteva dargli torto.
Quando attraversammo in frotta il giardino, Ginia mi serrò la mano e mi bisbigliò di tornare, di non lasciarla sola. Il marito camminava avanti, tra la biondina e la vecchia signora. Al cancello Ada gli strinse forte la mano, e abbracciò Ginia baciandola.
Formammo due gruppi. Avanti, la signora e i due vecchi; dietro, io tra Ada e la biondina. Gli scenari scuri delle piante avevano perso nell’ombra ogni materialità, e il sentore profondo di terra e di notte era solo, sotto le stelle. Camminavo senza ricordi, rispondendo appena ai discorsi, anelando all’istante che sarei stato solo.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Villa in collina
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)