Lettere di un sopravvissutoViktor E. Frankl
Lettere di un sopravvissuto. Ciò che mi ha salvato dal Lager
a cura di E. Fizzotti
Rubbettino, Soveria Mannelli 2008
pag. 170,
€ 14,00.

Prima di chiudere significativamente la sua Terza sinfonia con uno straordinario tempo finale che raffigura la rinascita della vita, nel IV movimento, l’ebreo acquisito viennese Gustav Mahler lascia risuonare con la voce di contralto parole tratte dallo Also Sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche:

URLICHT O Mensch! Gib Acht!
Was spricht die tierfe Mitternacht?
Ich schlief, ich schlief!
Aus tiefem Traum bin ich erwacht:
Die Welt ist tief,
Und tiefer als der Tag gedacht.
O Mensch! Tief ist ihr Weh,
Lust tiefer noch als Herzleid!
Weh spricht: Vegeh!
Doch alle Lust will Ewigkeit!
Will tiefe, tiefe Ewigkeit!
LUCE PRIMORDIALE Attento, Uomo, ascolta!
Che cosa dice mezzanotte fonda?
Dormivo, dormivo!
Da un sogno profondo mi sono destato:
il mondo è profondo,
più profondo di quel che il giorno ha pensato.
O Uomo, profondo è il suo dolore,
il godere è ancor più profondo del soffrire!
Il dolore dice: vai vai!
Ma ogni gioia vuole eternità,
vuole profonda, profonda eternità!

Queste parole del pensatore di Röcken, col loro sovraccarico espressivo musicale mahleriano di una gioia proiettata oltre le tenebre profonde, mi sono tornate alla mente rileggendo alcune delle lettere che Viktor E. Frankl scrisse dopo la liberazione dai campi della morte nazisti. Lettere che pongono il lettore, fin dalle prime battute, di fronte a quello che parrebbe un quesito improponibile: c’è un dolore più atrocemente profondo, indicibile ed incomunicabile dell’esser vittima del male assoluto Auschwitz?

Il responso di Viktor E. Frankl, uno dei più illustri superstiti della Shoah, non lascia dubbi. E la sua è una risposta affermativa, che obbliga a ripensare gli eventi seguiti alla Liberazione e alla ripresa del dopoguerra in una luce meno trionfale del solito. Una luce oscurata dai detriti lasciati sulla pelle dei sopravvissuti da almeno 3 anni di massacro industrialmente organizzato, e di per sé incapace di dar conto sia della solitudine esistenziale e fisica di chi tornò alla vita, sia di quella sofferenza la quale, riemergendo come un fiume carsico del tempo dopo decenni, carica di inquietanti inconfessate sofferenze le tragiche vite e morti di Jean Amery/Hans Mayer e Primo Levi.

Con la traduzione di Raffaele Pentangelo e la cura di Eugenio Fizzotti, allievo prediletto e docente della Pontificia Università Salesiana di Roma, e come selezione epistolare tratta dai Gesammelte Werke editi da Böhlau (Wien) in occasione del centenario della nascita, l’editore Rubbettino ha meritatamente pubblicato lo scorso anno l’interessante volumetto con le lettere scritte da Viktor E. Frankl nei primi anni successivi alla conclusione della Seconda guerra mondiale.

Psicologo, psichiatra e neurologo viennese universalmente noto quale padre della logoterapia, autore del più volte ristampato Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, Viktor E. Frankl torna alla libertà e alla vita, dopo anni di traversie, per scoprire d’essere l’unico sopravvissuto del ramo europeo della propria famiglia. Le illusioni delle prime settimane circa la salvezza dei congiunti: «Speriamo che siano tutti ancora in vita. Ho paura del momento della certezza… una volta tornato in patria» (lettera del 15 giugno 1945, p.130), sono presto spazzate via dalla dura realtà. Solo pochi mesi dopo aver nutrito illusioni riguardo al destino dei familiari, le parole di Frankl non lasciano più adito a speranze: «Sono rimasto completamente solo. Chi non ha sofferto la mia medesima sorte non mi può comprendere. Mi sento indicibilmente stanco, indicibilmente triste, indicibilmente solo. Non ho più nulla da sperare e niente più da temere. Non ho più alcuna gioia dalla vita» (p.137).

È in questo preciso e catastrofico passaggio esistenziale, che lo scienziato e l’uomo Frankl scopre ed esperisce quel dolore ancora più atroce dell’inumana segregazione concentrazionaria che ha vissuto prima a Theresienstadt (dove muore di stenti il padre), Auschwitz (dove è assassinata nelle camere a gas l’anziana madre) e nelle due filiali di Dachau Kaufering III e Türkheim.

«Peccato non si arrivi mai a vedere la fine del dolore – annota il 30 ottobre del 1945 – Nel Lager si pensava di aver toccato il fondo ed invece lo si è raggiunto al ritorno a “casa” da uomini “liberi”. Finalmente libero, troppo libero» (p.55). E prima, il 14 settembre dello stesso anno scrivendo agli amici Wilhelm e Stepha Börner notava: «Nel Lager si credeva di aver già toccato il fondo dell’esistenza ma al ritorno abbiamo dovuto constatare che non è così, che ciò a cui si teneva è andato perduto, che nel momento in cui siamo tornati a essere uomini possiamo piombare in una sofferenza ancora più grave, più abissale» (p. 138).

L’esperienza del Lager, da scienziato definita un experimentum crucis (p. 34), si presenta come una tappa esistenziale che non potrà essere né cancellata né, tanto meno, rimossa. Nel bene, come nel suo breve e fecondo rapporto con la moglie Tilly – morta a Bergen-Belsen -, come nel male per lo psicologo austriaco «Quello che abbiamo vissuto non potrà essere annullato» (p. 138). Del resto, è la vita di ogni giorno, con la sua routine di una Vienna tenacemente incapace, a partire dai circoli accademici, di depurarsi di un certo sottaciuto antisemitismo (p. 52, p. 67 e p. 146), a rammentare al Frankl superstite la sua condizione di «sopravvissuto al passato» (p. 135).

Il proposito di lasciare «una volta per tutte l’Europa alle spalle con buona coscienza» (p. 84), è una tentazione che, comprensibilmente, e più o meno apertamente, circola in molte delle lettere presentate al lettore. E se la liberazione del Lager ha rappresentato «il mio secondo compleanno» (p. 88), per l’uomo di scienza Frankl è fin troppo ovvio che né la gioia ed il sollievo per questa nuova nascita, né l’esperienza concentrazionaria stessa, in quanto momenti chiave della biografia di un popolo e di una cultura – quella yiddish – letteralmente spazzati via dall’Europa orientale, siano avvenimenti di facile comunicabilità e comprensibilità per chi è stato solo uno spettatore del massacro. «Quel che ho passato nei diversi Lager in cui sono stato – scrive il 17 novembre 1945 alla sorella Stella Bondy, residente in Australia – è difficile da descrivere e può comprenderlo solo un compagno di sventura» (p. 64).

Eppure, il pessimismo dell’esperienza in Frankl non diviene mai una totale abdicazione all’insensatezza della vita. Se la sua risposta alla domanda iniziale: può esistere un dolore più grande della segregazione concentrazionaria è sicuramente affermativa, ciò non si traduce mai in un nichilismo immobilizzante. Il rimpianto del passato e la luttuosa solitudine del presente – osserva: «non ho più nulla, infatti, della mia vita precedente!» – non privano l’uomo Frankl del desiderio di costruirsi una nuova vita e d’inseguire un rinnovato futuro.

Che cosa, allora, salva Frankl dal Lager – così suona il sottotitolo del libro? E, soprattutto, aggiungerei, che cosa lo preserva, come uno scudo morale, dal tarlo intimo di una memoria dell’inaudita sofferenza per altri rivelatasi fardello insostenibile? Dalla «vergogna» di sapersi vivo nel mondo del dopoguerra quando dal Lager «i migliori non sono tornati» (p. 142), e «davanti ai nostri occhi compaiono le immagini delle fosse dei nostri camerati del Lager, accatastati alla meno peggio in un boschetto; uomini giovani come me o ancora più giovani, più capaci e migliori di me» (p. 135)?

«Ciò di cui ho bisogno è uno scopo nella vita e un lavoro che me la riempia», scrive a due anni dalla liberazione (lettera del 22 luglio 1947, p. 99). Ed in effetti Frankl, riconquistata la libertà, si getta a capofitto nel lavoro. Dettando libri e tenendo conferenze ovunque in Austria e nella Germania meridionale, Frankl appaga l’ansia della verità che lo caratterizza come testimone, spingendolo a render noto agli altri, a spiegare, ad elencare, a mostrare anche a chi mostra perplessità e dubbi quanto di incredibile è avvenuto nella civile Europa del XX secolo. È il lavoro, constata Frankl, scorrendo le missive di ringraziamento di alcuni malati incurabili rinfrancati dalle parole da lui pronunciate durante una conferenza radiofonica, a permettergli di riassaporare dopo mesi di apatica atonia psichica il piacere di «un senso vivo di gioia…» (p. 145).

Ma da solo il lavoro non sarebbe sufficiente allo sforzo da compiere. Il vero carburante morale di questa rinascita si trova altrove, originando paradossalmente proprio dagli insegnamenti che può trarre dall’esperienza «di ex prigioniero del Lager» (p. 121). «Dopotutto – scrive già il 04 agosto 1945 – a chi ha vissuto un’esperienza simile non sembra tutto così importante. Ci si accontenta anche solo di vivere ancora (…) Vedete, tutto questo ci abitua per il futuro a rimanere infinitamente distanti dalle gioie e dai dolori di questa terra: intendo una distanza che non paralizza, ma al contrario, ti fa sentire meritevole delle gioie della vita solo quando fai qualcosa» (p. 135). E chiarisce nella missiva del 14 settembre 1945: «Forse riderete di me, forse ve la prenderete a male con me, ma io non mi contraddico affatto e non mi tiro indietro davanti alla mia originaria volontà di far prevalere il senso della vita di fronte all’esperienza (…) se io non avessi salda come una roccia questa concezione positiva della vita, cosa mi sarebbe capitato in queste ultime settimane e, prima ancora, nei mesi trascorsi nei lager? A dire il vero io vedo le cose solo alla luce di una dimensione più ampia» (p. 138).

Come ricorda nell’introduzione il curatore del volume, Eugenio Fizzotti, se Frankl riuscì a sopravvivere alle devastanti esperienze del periodo bellico grazie ad un’oggettivazione del dolore, «ossia ad una presa di distanza da quel mondo che lo circondava» (p. 9), la sua stessa parabola biografica post-1945 è il segnale esplicito della sua convinzione, connotata di genuina religiosità, che «la tragica triade, formata da sofferenza, colpa e morte, non priva l’esistenza umana del suo profondo significato» (p. 13).

Una soluzione ottimistica, quella frankliana, non valida universalmente – ed i già citati casi di Amery e Levi lo confermano ad abundantiam. Una sorta di riflesso di un meccanismo difensivo, come lasciano intendere i critici di Frankl, utile per compensare il processo di disintegrazione dell’Io e preservare l’individuo dalla banalità del male dello sterminio e dalla solitudine del naufrago giunto a riva?

Una risposta, personalmente, la posso ritrovare nel contenuto musicale del Nietzsche mahleriano, con l’intrinseca carica di visionaria ed artistica meditazione «sul dolore e il di lui superamento» (P. Isotta). In conclusione, comunque, giudichi il lettore dal confronto intellettuale con una silloge di lettere meritevoli d’essere sia conosciute oltre i ristretti gabinetti specialistici, sia decostruite nei passaggi più intimi per seguire, passo dopo passo, una parabola. Quella interiore di uomo emerso dai gironi infernali del Lager più consapevole che mai del dovere «di continuare a vivere, per esser degno della grazia che mi è stata concessa nell’essere ancora in vita – nonostante tutto» (p. 50).