Il secondo libro dei Viaggi copre il periodo dalla primavera del 1619 all’agosto del 1626. Dopo aver soggiornato per più di due anni alla corte persiana, ai primi di ottobre 1621 Pietro della Valle scende allo stretto di Hormuz, forse intenzionato a rientrare in Italia dal Capo di Buona Speranza. Ha da poco visitato le rovine di Persepoli quando la crisi politica fra la Persia e il Portogallo, da tempo latente per il possesso dello stretto, sfocia in un conflitto che lo blocca non lontano dalla meta d’imbarco, e alle difficoltà logistiche unisce, improvvisa, la tragedia: a Minà, disagevole e malsano villaggio di retrovia, la moglie Sitti Maani si ammala e il 30 dicembre di quello stesso anno muore. Sconvolto per la perdita e disorientato dagli avvenimenti, egli decide allora di imbalsamare la salma e di portarla con sé, chiusa in una cassa, per darle degna sepoltura in Italia.
Poiché la sopraggiunta conquista persiana di Hormuz impedisce di navigare verso il Mediterraneo e lascia però aperte le rotte inglesi per l’India, è qui che l’instancabile viaggiatore si dirige, volendo reagire all’inazione dello sconforto, ma anche mosso dal desiderio di conoscere più a fondo il modo di vivere degli abitanti e i molteplici aspetti del politeismo indù. Trascorso un biennio di peregrinazioni indiane con perno su Surat e Goa, nella persistente chiusura della navigazione mediterranea Pietro della Valle inizia nel gennaio del 1625 un laborioso ritorno in Italia, percorrendo un itinerario alternativo che da Mascat nella penisola arabica lo conduce lungo il Golfo Persico e poi da Bassora attraverso il deserto fino ad Aleppo, continuamente taglieggiato dalle bande dei governatori locali. Salpato da Alessandretta e raggiunta Cipro, dopo una prolungata quarantena a Malta a causa della peste in Sicilia sbarca a Siracusa, bordeggia fino a Napoli, e il 28 marzo 1626 conclude la sua straordinaria avventura a Roma, donde era partito dodici anni prima e dove tumula infine nella cappella di famiglia il corpo della moglie, che è riuscito a far passare indenne fra mille peripezie.
Sinossi a cura di Giovanni Mennella
Dall’incipit della Lettera VI:
Da Ispahan, del 24 di agosto 1619.
I. Benchè V. S. mostri omai di tener poca memoria di me, poichè son già più di due anni che non mi ha scritto, cioè dall’otto di gennaio del 1617, con qual data fu l’ultima sua che ricevei in queste parti; con tutto ciò, io, come quello che di lei tengo grande e continua ricordanza, non posso far di meno di non mostrargliene anche segni, scrivendole per ogni occasione che posso, ed importunandola forse tutto il giorno con queste mie lettere lunghe e tediose. La lettura delle quali, alle occupazioni ordinarie degli studi e degli altri virtuosi esercizii di V. S., ben mi accorgo che non deve esser se non molesta: ma, che posso io fare? se l’antica affezione, con alte radici di virtù fortemente affissa nel mio cuore, come da quello non si può svellere, così nè anco si può contener di mandar fuori quei pochi germogli che può, da lei soliti a prodursi. Sicchè, con buona pace di V. S., persevererò nella vecchia usanza di darle spesso molte nuove di me e di questa corte: e se fosse troppo spesso e troppo a lungo, abbia pazienza e mi perdoni; giacchè non deve avere a male che io, con questa ricreazione di parlar seco per lettere, che a me è grandissima, massimamente dove poche altre simili ne ho, mi trattenga alquanto, e
passi il tempo con piacere.
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