Vespa

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 7 minuti


Corradino da poco conosceva un tale che senza che avessero gran che da dirsi, occupava qualche serata. Era Vespa, un giovanotto reduce dall’Africa, ferito e malato. Viveva al quinto piano di una casa senz’ascensore, dov’erano saliti la prima volta con Fabio nel giugno. Una sera che con Fabio erano venuti su parlando, s’era sentito toccare la porta prima ancora che bussassero ed era subito stato aperto, quasi che Vespa li aspettasse con impazienza. Questo Vespa era secco e bruno, si muoveva per la stanza zoppicando e parlava poco. Fabio che l’aveva aiutato quando faceva il ciclista, gli toccò la caviglia gonfia e lo fece parlare dell’Africa. Vespa aveva, del ciclista, un maglione giallo chiuso al collo e la faccia stirata che quando rideva sembrava un altro.
Corradino c’era tornato da solo, soffermandosi sull’ultimo pianerottolo a guardare da una finestretta che dava nel vuoto. Aveva di bello, questo Vespa, che un po’ per la convalescenza un po’ per il cattivo umore non si muoveva di lassú, contento che qualcuno venisse a trovarlo. Non aveva né madri né sorelle; si sedeva sopra un letto sempre sfatto (una sera Corradino osservò tutto il tempo la cocca del lenzuolo che scendeva in terra a toccare una pozza d’acqua) teneva alla rinfusa sul tavolo pane secco chiavi inglesi e gusci d’uovo, e spalancava la finestra al suo arrivo per rinnovare l’aria. C’era del tanfo nella stanza, ma Vespa era tanto giovane che parevano puzzo e sporcizia d’altri tempi, di quando si vive da studenti in mezzo al disordine e non ci si bada.
Vespa con Fabio si davano del tu, perché questa è l’usanza tra sportivi; ma Corradino, benché salisse ancora quelle scale dopo che Fabio non fu piú in città, mantenne sempre con Vespa un certo distacco, non per superbia ma per sua pace. Non voleva che Vespa troppo avvezzo a gente come loro, diventasse invadente. Erano insieme in un rapporto come da ufficiale a graduato, lo stesso rapporto che se anche a lui fosse toccata l’avventura dell’Africa avrebbero naturalmente tenuto.
Gli piaceva salire e fargli compagnia, ascoltarlo e rispondere, ma domani, se avesse voluto, smettere e starsene solo. Gli invidiava del resto proprio quella capacità di vivere isolato e bastare a sé in cima a un pianerottolo, di aspettare qualcosa – la guarigione, l’avvenire – senza pena eccessiva. Capiva che Vespa non s’isolava apposta, come lui, tra i salici: Vespa apriva la porta con un saluto breve e convinto, accettava le visite senza stupirsene, e non aveva l’aria di credersi piú disgraziato di un altro. Del resto vari suoi coetanei lo venivano a trovare nelle ore piú insolite – gente che lavorava, e la sera si divertiva – e magari a tarda notte, di ritorno da una festa, si ricordavano di lui e facevano quei cinque piani per portargli una commissione o raccontargli una novità.
Di questi ragazzi Corradino cominciò a conoscerne qualcuno, quando Vespa gli chiese se, passando davanti al caffè non aveva veduto questo o quello. Poi ne incontrò una volta uno in bicicletta sulla strada dei boschi, proprio nei giorni che scoprí la radura. Era un biondo lungo lungo, che era passato una volta da Vespa avanti notte – non in visita, quella gente non si faceva visite – e se n’era stato qualche minuto seduto contro la finestra senza parlare. Poi s’era alzato bruscamente, brontolando: – Là, addio –. Non riconobbe Corradino, s’erano visti che la stanza era già buia; Corradino lo ricordava perché aveva acceso la sigaretta nell’ombra rischiarando un viso ossuto e severo – ma forse era stata la luce radente e improvvisa a dargli risalto. In bicicletta, nel sole di luglio, parve un qualunque giovanotto meccanico; e pedalando si dondolava e fischiava. Corradino lo guardò allontanarsi e gli venne in mente che andare in barca e girare nei boschi era stata ai suoi tempi la gran distrazione della gioventú dei sobborghi.
Allora con Fabio ne aveva conosciuto qualcuno; alla domenica se ne incontravano barche piene, con chitarre e ragazze, tutti i prati della periferia echeggiavano dei loro canti e delle loro voci. Si ripromise di non parlare con Vespa della radura tra i salici, ben sapendo che Vespa aveva bisogno dei bagni di sole per la sua caviglia che al minimo sforzo tornava a dolergli.
Del resto Corradino smetteva ogni tanto di andare al Sangone, e le ore che la stagione avanzata gli lasciava libere, le bighellonava nella città, per stradicciole fuori mano. Se Vespa gli avesse chiesto perché saliva da lui, Corradino gli avrebbe risposto ch’era per sentirsi piú solo, e non si sarebbero capiti, ma Vespa non era uomo da far di queste domande, e certe sere parlavano unicamente del tempo, di un po’ di vento che rompeva l’afa, della pioggia imminente.
Per giungere alla casa di Vespa, si traversava una grande via che il fresco della sera rendeva animata e clamorosa. Ma, una volta lassú, bisognava tendere l’orecchio per cogliere le voci e il tramestío. All’angolo c’era un grosso caffè di sobborgo che raccoglieva passanti intorno al muggito della sua radio. Tra i visi già noti degli uomini e delle ragazze che si cercavano, Corradino passava in incognito, e tanto gli piaceva questa condizione, che avrebbe voluto avvicinarsi a qualcuno dei crocchi e ascoltare i discorsi dalla porta del caffè. Poteva darsi che qualcuna delle ragazze si tradisse come conoscente di Vespa, e allora gli sarebbe piaciuto cavarne un ricordo, una parola, uno scherzo, da portare lassú. Gli amici ciclisti o meccanici di Vespa si lasciavano sempre dietro un’eco di avventura, di casi salaci, di perpetrate oscenità. Erano ragazzi, ma non tanto. Vespa con lui non ne parlava, ma gli ridevano gli occhi.
Una sera Corradino – era stato piú a lungo del solito sulla riva del Sangone – chiese un gelato alla ragazza del banco. Mentre la ragazza si asciugava la fronte col braccio nudo, Corradino le chiese se aveva qualcosa di fresco da dargli che si potesse portare al quinto piano. La ragazza disse: – Un gelato –, e già si chinava sul banco, quando una voce venne da un tavolo dietro la porta, una voce casuale: – Vespa ci sputa sul gelato –. La ragazza si fermò; era quel biondo Amelio che aveva parlato; Corradino chiese allora impassibile che cosa poteva prendere. La voce di Amelio – che giocava alle carte e non si era voltato – disse: – Nina; portategli Nina. È abbastanza fresca.
I giocatori ridevano; la ragazza fece un gesto impaziente, come a dire che si decidesse; Corradino brontolò: – Se volete venire.
Nuova risata degli astanti. Amelio disse ancora qualcosa che andò perduto nel frastuono, e la ragazza senza scomporsi guardava ambigua Corradino.
— Datemi della birra, si vedrà.
Vespa accolse la birra senza stupirsi. Mise in fresco le bottiglie e intanto cercò i bicchieri. Zoppicava al solito e Corradino gli chiese se uno di quei giorni non avrebbe disceso le scale.
— Scendere è niente, salirle è difficile, – rispose Vespa.
Corradino sapeva che una vicina, una vecchia casigliana, gli preparava i pasti e qualche volta ripuliva la stanza. Vespa che la caviglia se l’era definitivamente spezzata dopo il congedo saltando dalla bicicletta, non aveva un soldo dal Governo, e non si capiva di che cosa vivesse. È anche vero che medicine non ne comprava. Da varie sere tuttavia parlava di scendere e vedere qualcuno. – Ci vuole un pianterreno, – gli diceva Corradino. – Dal pianterreno potrete muovervi –. Diceva questo ma sapeva che un Vespa mescolato alla gente, non piú solo e sdegnoso sotto i tetti, lo avrebbe interessato molto meno, né lui avrebbe piú contato per Vespa. Il vantaggio che godeva sugli altri, sui coetanei di Vespa, di avergli fatto compagnia, era legato a quel quinto piano.
Ora, proprio la sera della birra, Corradino intorpidito dal gran sole del Sangone, era salito da Vespa per far notte passivamente, abbandonandosi alle rade parole e al consueto ricordo che la finestra sul vuoto, il brusio delle strade, e la presenza amica provocavano. Vespa capiva questo modo di passare il tempo, ci s’era avvezzato da un pezzo –, una delle prime sere, quando c’era anche Fabio, aveva raccontato di mezze giornate trascorse con dei colleghi sul ciglione del mare nei pomeriggi d’uscita, quando aspettavano d’imbarcarsi e non sapevano ancora se ci sarebbe stata la guerra. Diceva che un uomo, messo a far questa vita, pensa a casa sua piú che all’avvenire, e gli sembra di esser vecchio mentre soltanto l’anno prima andava ancora alla scuola serale.
— E voi perché non vi togliete dai marciapiedi, come il vostro amico? – disse Vespa bruscamente, quando fu seduto sul letto.
Corradino sorrise nella penombra: – Non sarei qui a bere la birra.
— Voi siete malato, scommetto.
Corradino, a cavalcioni della seggiola, col mento appoggiato sullo schienale, fissava il riquadro della finestra. Mai s’era sentito cosí bene, cosí rassodato dal sole e dall’acqua. Ma queste cose non poteva dirle a uno storpio, a Vespa.
— Può darsi, – rispose. – Sono piú vecchio di voialtri.
— Voialtri chi?
— Amelio… voi…
— Quel lavativo, – disse Vespa.
Tacquero un pezzo e Corradino temeva che Vespa volesse accendere il lume a petrolio. L’aveva sentito muoversi sul letto e attese che continuasse il discorso. Dalla finestra venne un fiato fresco che sapeva di piante.
— Stasera volevano mandarvi una donna, – disse Corradino. – La ragazza dei gelati. Nina.
Vespa non disse nulla né si mosse. Corradino s’accorse che le sue parole pesavano nella stanza. Per caso la radio da basso era taciuta, e cosí per un attimo s’erano spente le voci e i fragori della città.
— Silenzio, – brontolò ridendo.
Ma Vespa non dovette sentirlo. Aveva già detto con voce diversa: – Con Amelio chi c’era?
— Non so, – disse Corradino. – Giocavano a carte. La ragazza mi ha fatto due occhi…
— Nina?
— La ragazza del banco.
— Quella è una stupida, – disse Vespa. – Nina è un’altra.

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Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Vespa
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)