Vento di marzo

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 7 minuti


Saranno cose appartenenti alla vecchia letteratura, ma sono anche vere e, se non eterne, infinite: e il fatto è questo, che la signora Dolfin, quella notte, non poteva dormire, a causa del vento furibondo che scuoteva tutta la casa e pareva la volesse respingere come una nave verso il porto.

— Va, vecchia carcassa sconquassata; che hai da cercare ancora nell’oceano? È già molto se ti permetto di salvarti, poiché non mi degno neppure di farti naufragare: va, dietro front.

La casa infatti era vecchia, sebbene ancora solida: solidi i muri, di vero travertino e non di ricotta, diceva il signor Dolfin; ma le aperture e gli infissi tutti spaccati, con fessure per le quali il vento fischiava come un monello fra le dita. Chi, a sua volta, s’infischiava del vento era il signor Dolfin, nella camera attigua a quella della moglie: il fragore del libeccio lo faceva anzi dormire, e, nelle brevi soste di silenzio, si sentiva, come un accompagnamento d’organo in una sacra funzione, il suo russare davvero quasi musicale.

Ma questa sinfonia d’uomo in realtà santo perché accettava la vita come un dono di Dio, e non tradiva nessuna delle sue leggi, irritava maggiormente la signora, e il miglior complimento ch’ella potesse fare al compagno della sua vita era quello di dargli dell’animale.

Ecco però il vento riprende la sua terribile battaglia: e non potendo, in quel luogo, capovolgere velieri e buttare poveri diavoli in mare, si contenta di prendersela con gli embrici dei tetti, con le canne degli orti, e soprattutto con le persiane della casa; pareva avesse un mostruoso bisogno di spaccare i vetri, e divorarseli come un mangiatore di spade. E infatti ecco uno strepito di vincitore gonfiò la camera in fondo al corridoio; le persiane pareva applaudissero con allegro furore, un vetro fu spaccato e portato via. Si spalancò l’uscio, e l’aria si mosse, sino a far scricchiolare anche quello della signora. Ella si buttò giù dal letto come per ricevere in piedi l’assalto: ma vi fu di nuovo una sosta, e in mezzo alla rovina il russare del vecchio sposo parve un suono di zampogna fra i ruderi pittoreschi di un antico maniero.

Ella si infilò la veste da camera, ancora giovanilmente fiorita di grandi peonie, e andò ad esplorare. E camminava piano, con le pantofole felpate, tentando di non fare il minimo rumore; ma accorgendosi che erano l’istinto e l’abitudine a spingerla così, come una lepre fra i roveti. Infatti nella casa non c’era nessuno da poter disturbare; casa davvero silenziosa e deserta, con un profumo di solitudine come quello delle rovine dei castelli un giorno fastosi e pieni di rumore e di vita: e la finestra della camera di fondo, aperta sul buio tremolante di stelle della notte agitata, ne completava l’impressione. D’un balzo, per evitare una nuova invasione del vento, la signora tirò con tutta la forza delle sue braccia ancora bianche e resistenti, le persiane ribelli e, per maggiore sicurezza, legò la maniglia col cordone della sua vestaglia; poi chiuse i vetri, attenta a non ferirsi con quello del quale rimanevano solo due pugnali verdastri, e fermò gli scurini sulle tendine dove i grifi del filé continuavano a rincorrersi tranquilli. Il vento ricominciò: ma era vinto, ormai, e batteva invano le sue armi contro la persiana che non si moveva più.

Allora la signora si volse, e le parve di riflettere sul viso i biancori della camera: quello della coperta del lettuccio, quello del pavimento inghirlandato di edera nera, e soprattutto quello gelido del marmo del cassettone. Un senso di smarrimento era intorno e dentro di lei: il vento aveva sparso qua e là i fogli di carta e di giornale, sollevato la tovaglietta del comodino, rovesciato una scatolina sul cassettone: ma, quello che alla donna sembrava più significativo e di fatali presagi, staccato dalla testiera del lettuccio il ramoscello di ulivo benedetto: le foglie accartocciate si erano disperse, chi sa dove; si erano nascoste, come spaventate dall’assalto dell’invasore: rimaneva il piccolo scheletro del ramo, sul lettuccio funereo.

— La colpa è mia, la colpa è mia, la colpa è mia — ella disse fra sé; e le parve d’inchinarsi, come il peccatore quando, davanti all’altare, si picchia con involontaria ipocrisia il petto.

Poi si guardò attorno, e le parve che, oltre allo scheletrino grigio dell’olivo, i fogli a terra fossero brani di fantasmi: fantasmi ch’ella da due mesi aveva chiuso nella camera, dove non era più entrata per non soffrire la loro presenza. Così, per la noncuranza dolorosa di lei, la persiana era rimasta mal fermata, e il vento aveva avuto buon gioco come il nemico contro l’avversario addormentato.

Ella raccolse i fogli, li fermò sullo scrittorio a fianco della finestra: spiegò la tovaglietta, sollevò la scatola sul cassettone: ogni oggetto le gelava e bruciava le dita, quasi fosse quello di un morto adorato.

E non era forse morto, per lei, il suo unico figlio, il suo sempre piccolo Cesco, che si era sposato, andato lontano, abbandonando il vecchio nido per formarsene uno tutto nuovo? Ella non voleva male alla donnina che si era portato via il figlio. Ma era stata, ed era, gelosa di lei, come tutte le madri che si vedono portare via i figli, d’una gelosia ch’ella era la prima a riconoscere animalesca e superficiale. Più che altro, forse, a farla soffrire era la rottura delle abitudini familiari, o quel senso di vuoto che lascia la partenza di una persona amata. Disse bene chi disse: partire è un pochino morire.

E tutto era morto davvero, nella casa grande in cui le risate, i pianti, le canzoni e le collere di lui, e i suoi passi e soprattutto il suono della sua voce, avevano palpitato come il sangue in un corpo giovane e vigoroso.

Oltre alla scatoletta rovesciata, altri oggetti si allineavano sul marmo del cassettone; un porta calendario di ferro battuto, con l’ultimo foglietto che aveva la data delle nozze, pareva un palo in una pianura nevosa che indicasse la direzione della via da seguire. E lui se ne era andato, per quella via, appunto in un bel giorno d’inverno tutto scintillante di neve: ma la madre aveva chiuso le imposte e dentro le era rimasto solo il buio e la desolazione dei luoghi ove non ci si sa più orizzontare.

Quest’impressione le durava ancora, quando uno squillo, simile appunto a quello di una stazione di campagna all’annunzio del passaggio di un treno, la richiamò all’ordine. Era il telefono.

— A quest’ora? Chi può essere? Forse uno scherzo del vento?

Ma non era poi tanto tardi: la sveglia, nella saletta da pranzo dove da tanto tempo il telefono non funzionava che parcamente per i fornitori della famiglia, segnava le undici.

— Pronti. Pronti.

— Con chi parlo? Pronti. Mamma sei tu?

La voce veniva di lontano, come da una grotta marina; e cavernosa lo era, ma nello stesso tempo incantata, simile a quella dell’eco.

— Cesco! Sei tu?

Così si incontrarono, madre e figlio, attraverso uno spazio iperboreo, nel vento che di fuori pareva appunto il rombo delle onde contro l’apertura scogliosa di una grotta: ma dentro tutto davvero si fece luce, con stalattiti iridescenti e fantasmagorie favolose di perle e diamanti, e intorno l’azzurro dell’infinito, quando la voce lontana disse:

— Mamma, devo darti una buona notizia, una bella notizia. Mamma, Giacinta è… Giacinta è… mamma, mi ascolti?

— Parla, parla — ella rispose, forte, poiché aveva l’impressione che egli credesse di non essere ascoltato.

— Giacinta è… è anche lei madre.

Poi seguirono altre parole; un mese, due mesi, segni sicuri, l’ostetrico, il nome, la gioia di papà, le vacanze e la riunione nella villetta di Cervia, buona notte, scusate il disturbo.

Ma erano tutte parole decorative, come le foglie sullo stelo di un fiore.

Fine.


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TITOLO: Vento di marzo
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)