Il medico miracoloso
John Silence
Caso II. Vecchie stregonerie

di
Algernon Blackwood

tempo di lettura: 78 minuti


I

Esistono persone del tutto insignificanti, con nessuna delle caratteristiche che invoglino all’avventura, le quali tuttavia nel corso della loro vita tranquilla, attraversano talvolta un’esperienza tanto strana che il mondo trattiene il respiro.

Erano questi i casi che, più di ogni altro, attiravano l’attenzione di Giovanni Silence, il dottore psichico. Facendo capo alla sua profonda umanità, alla sua pazienza, alla sua simpatia spirituale, quei casi portavano spesso alla rivelazione di problemi della più strana complessità, e del più profondo interesse umano.

Il Dr. Silence amava risalire alle loro origini nascosre fatti ed eventi che sembravano troppo curiosi e fantastici per poter essere creduti. Districare un dilemma insolubile nell’anima stessa delle cose, sollevare un’anima umana sofferente in una particolare contingenza, rappresentavano per lui una vera passione. E i nodi che scioglieva, si presentavano, infatti, assai spesso, in modo strano.

Il mondo, naturalmente, esige una base plausibile su cui appoggiare la sua convinzione, qualcosa che si possa, almeno, pretendere di spiegare. Può comprendere gli uomini avventurosi: essi portano con sè una spiegazione adeguata della loro vita sensazionale, e sono i loro stessi caratteri che li spingono, per forza di cose, nelle circostanze che creano l’avventura. Non ci si attende altro da loro, e tutti sono soddisfatti. Ma la gente insipida, comune, non vanta diritti ad esperienze stravaganti. Il mondo, se indotto a pensarla diversamente, ne rimane poi sconcertato, se non addirittura urtato. Il suo giudizio compiacente appare violentemente turbato dai fatti insoliti, sensazionali.

«Una cosa simile è accaduta a quell’uomo!» grida. «Una persona così normale come quella! Assurdo! Qui dev’esserci sotto qualche cosa!».

Senza dubbio qualche cosa di assai strano era effettivamente accaduto al piccolo Arturo Vezin. E questo, anche malgrado le beffe dei suoi pochi amici, che ascoltavano il racconto, ed osservavano saggiamente che «una cosa di quel genere» avrebbe forse potuto toccare a Iszard, a quella testa balzana di Iszard; o a quello strano tipo di Minski, ma non avrebbe mai potuto capitare al piccolo Vezin, così normale, predestinato sicuramente a vivere e a morire nel modo più regolare di questo mondo.

Vezin non viveva davvero «secondo le regole», per quanto riguardava quel particolare evento della sua vita, d’altronde senza eventi. Nel sentire il suo racconto e ad osservare il cambiamento dei suoi pallidi e delicati lineamenti, nell’ascoltare la sua voce farsi più morbida e sommessa, ci si faceva la convinzione che le sue parole mancavano forse di attrattiva, ma erano molto interessanti. Riviveva letteralmente la sua vicenda ogni volta che la raccontava. Tutta la sua personalità era coinvolta nella rievocazione. Quella vicenda lo soggiogava più che mai, cosicchè il racconto diventava una prolissa apologia di un’esperienza che egli stesso deprecava. Sembrava scusarsi e chiedere perdono per aver osato prender parte ad un episodio tanto fantastico. Era un’anima timida, il piccolo Vezin, gentile e sensibile, raramente capace di affermarsi, tenero verso gli uomini e le bestie e quasi per costituzione incapace di dire di no, o di reclamare quelle cose che avrebbero dovuto essere legittimamente sue. Il suo tenore di vita sembrava estremamente lontano da ognuna di quelle cose che sono normalmente ritenute irregolari e sgradevoli, come ad esempio il perdere il treno o dimenticare un’ombrella nell’autobus. Quando quella curiosa vicenda gli accadde, aveva già passato di parecchio i quaranta, senza che i suoi amici lo sospettassero o egli potesse ammetterlo.

Il Dr. Silence, che lo sentì parlare della sua esperienza più di una volta, disse che tralasciava spesso certi particolari e ne inseriva altri. Eppure, erano tutti veri, senza dubbio. Tutta la scena era indimenticabilmente cinematografata nel suo cervello. Nessuno dei particolari era immaginato o inventato. E quando raccontava la storia al completo nei minimi particolari, l’effetto era innegabile. I suoi occhi bruni, attraenti, splendevano, e molto dell’affascinante personalità, di solito tanto accuratamente repressa, affiorava, rivelandosi. Vi era sempre la sua modestia, naturalmente, ma durante il racconto dimenticava il presente della sua vita comune e si lasciava andare tanto da apparire quasi vivace, nel rivivere il passato della sua avventura.

La cosa era accaduta nella Francia settentrionale, nel viaggio di ritorno da una gita in montagna o qualcosa del genere ch’egli effettuava tutto solo ogni estate. Non aveva altro che una valigia, e il treno era rigurgitante sino a soffocare. Molti dei passeggeri erano inglesi in ferie. Egli non sentiva per loro alcun affetto, non perchè fossero dei compatrioti, ma perchè erano rumorosi e ingombranti, fastidiosi con le loro grandi membra, rivestiti com’erano di lana in tutte le tinte più vistose, che gli procuravano tuttavia una certa soddisfazione in quanto lo mettevano in grado di fondersi nella massa e dimenticare di essere qualcuno. Quegli inglesi rumoreggiavano intorno a lui come una banda di strumenti di ottone, facendogli sentire vagamente che doveva comportarsi in modo più autoritario e clamoroso, che non reclamava abbastanza insistentemente quelle cose di cui non aveva alcun bisogno e che erano del resto inutili, come i posti a sedere nell’angolo, le finestre aperte o chiuse, e così via.

Si trovava perciò a disagio nel treno, e desiderava che il viaggio fosse terminato in modo da trovarsi di nuovo a casa, a vivere la sua solita vita, a Subirton, con la sorella zitella.

Quando il treno si fermò, per dieci eterni minuti, a quella piccola stazione della Francia settentrionale, uscì sul marciapiede per sgranchirsi le membra, e vide con spavento una nuova infornata di compatrioti sbucare da un altro treno. Gli sembrò allora immediatamente, impossibile continuare quel viaggio. Perfino la sua anima mansueta si ribellò, e l’idea di fermarsi una notte nella piccola cittadina e proseguire il giorno dopo con un treno più lento e più sgombro gli si affacciò alla mente. Il fattorino gridava già «In vettura!» e il corridoio dello scompartimento era stipato fino all’inverosimile, quando gli venne quell’idea. Una volta tanto, agì con decisione, e si lanciò a prendere la valigia.

Trovando il corridoio e i predellini ostruiti, picchiò al finestrino, stando a terra, sulla piattaforma e, poichè aveva un posto d’angolo, pregò il francese che gli sedeva di fronte nel viaggio di passargli la valigia, spiegandogli nel suo misero francese che intendeva interrompere il viaggio. Il francese, una persona anziana, gli diede in quel momento uno sguardo, fra il suggerimento e il rimprovero che, finchè fosse vissuto, non avrebbe mai più potuto dimenticare. Passò tuttavia la valigia attraverso il finestrino del treno già in moto; e gli mormorò al tempo stesso nell’orecchio una lunga frase, pronunciata rapidamente e a voce bassa, di cui potè disgraziatamente comprendere solo le ultime poche parole, queste:

«…. a causa del sonno e a causa dei gatti».

In risposta al Dr. Silence, il cui singolare intuito psichico aveva subito puntato su quel francese come elemento vitale nell’avventura, Vezin ammise che l’uomo lo aveva impressionato favorevolmente fin dal principio, benchè non ne sapesse spiegare la ragione. Erano stati seduti di fronte per quattro ore di viaggio, e benchè nessuna conversazione avesse avuto luogo fra loro, dato che Vezin era timido in quanto possedeva soltanto i primi elementi della lingua francese, confessò che gli teneva gli occhi continuamente fissi sulla sua faccia, al punto da sentirsi quasi imbarazzato. Ciascuno di essi, attraverso una dozzina di piccole e anonime cortesie e attenzioni, aveva manifestato il desiderio di dimostrarsi gentile col compagno. Simpatizzavano reciprocamente, le loro personalità non si urtavano, nè si sarebbero urtate qualora fossero addivenuti ad una più intima conoscenza. Il francese, infatti, pareva esercitare una silenziosa influenza protettiva sul piccolo e insignificante inglese. Senza parole nè gesti manifestava tuttavia la sua benevolenza e il piacere di essergli utile, se possibile.

«E quella frase che vi disse?» chiese il Dr. Silence, con quel sorriso particolarmente simpatico che sempre disarmava i pregiudizi del paziente. «Non avete potuto capirla esattamente?».

«Fu così rapida e sommessa», spiegò Vezin, con la sua piccola voce, «che il suo senso praticamente mi sfuggì. Afferrai soltanto le ultime parole, perchè le pronunciò più chiaramente, e la sua faccia si sporse in fuori, dal finestrino della vettura, vicinissima alla mia».

«A causa del sonno e a causa dei gatti!» ripetè il Dr. Silence, come parlando fra sè.

«Proprio!», disse Vezin. «E il resto della frase, poichè la prima parte non ho potuto comprenderla, doveva essere un avvertimento di non fare qualche cosa… di non fermarmi nella città, o in qualche punto di essa in particolare, forse. Ecco l’impressione che fece su di me».

Poi naturalmente il treno partì e lasciò Vezin sul marciapiede solo e piuttosto sperduto.

La cittadina stava a ridosso di una ripida collina situata sulla pianura, dietro la stazione, ed era coronata dalle torri gemelle della cattedrale in rovina. Vista dalla stazione, appariva moderna e priva d’interesse. La parte medioevale giaceva fuori della visuale, proprio dietro l’altura. E una volta che ne raggiunse la cima e si addentrò nelle vecchie vie, passò di punto in bianco dalla vita moderna ad un secolo remoto. Lo strepito e il tumulto del treno affollato sembravano lontanissimi. Lo spirito di quella silenziosa città, lontana dai turisti e dalle automobili, che sognava la propria silenziosa vita sotto il sole d’autunno, si levò e proiettò il suo incanto su di lui. Molto prima che lo avvertisse, già agiva sotto la sua influenza. Passò pian piano, quasi in punta di piedi, giù per le strette viuzze ritorte, dove i comignoli gli sovrastavano di poco la testa, e varcò la soglia della solitaria locanda con un contegno umile e contrito, come per scusarsi di essersi introdotto in quel luogo a disturbarne il placido sonno.

Dapprima non avvertì che indistintamente tutto ciò. Il tentativo di analizzare, venne più tardi. Ciò che allora lo colpì fu soltanto il delizioso contrasto del silenzio e della pace, dopo la fuliggine e le rumorose scosse del convoglio. Si sentiva ricreato e accarezzato come un gatto.

«Come un gatto, avete detto?» domandò il Dr. Silence prontamente, interrompendolo.

«Sì! L’ho sentito subito nell’incamminarmi». Rise come per scusarsi. «Avevo la sensazione che il tepore, il silenzio e il sollievo mi inducessero a fare le fusa. Mi sembrava che quella dovesse essere l’abitudine di tutti, in quel luogo…».

La locanda, una vecchia casupola screpolata, ancora avvolta nell’atmosfera di giorni lontani, non gli diede, apparentemente, un benvenuto troppo caloroso. Gli pareva di essere a malapena tollerato. Ma era a buon prezzo e comoda, e dopo una deliziosa tazza di tè, si congratulò con se stesso per aver lasciato il treno in quel modo ardito e originale. Poichè gli era sembrato davvero un modo ardito e originale. Sentiva qualche cosa come l’impressione di un cane slegato. La stanza, con l’oscuro pavimento a riquadri e il soffitto basso e irregolare, col lungo corridoio tortuoso che vi conduceva e sembrava il naturale addotto a un’autentica alcova dei tempi passati, tutto contribuiva a dargli la sensazione di un piccolo buco buio, fuori del mondo, dove i rumori della vita non potevano giungere. La stanza dava sul cortile interno. Tutto questo era davvero incantevole. Gli parve d’essere vestito di velluto, i pavimenti sembravano ovattati, le pareti provviste di cuscini. I rumori della via non potevano penetrare là dentro. Era un’atmosfera di assoluto riposo.

Impegnando la stanza da due franchi, aveva parlato con la sola persona visibile in quel pomeriggio sonnacchioso: un cameriere anziano dai baffi alla Dundreary, dalla cortesia sonnolenta, che si era trascinato pigramente verso di lui attraverso il cortile di pietra. Ma nel ridiscendere le scale per fare un giretto in città prima di cena, s’incontrò con l’ostessa. Era una donna alta e grossa. Le mani, i piedi e tutta la persona sembravano nuotare verso di lui, emergendo sulle onde. Aveva occhi grandi, neri, vivaci, che reagivano alla massa del corpo, e mostravano chiaramente che era altrettanto vigile quanto vigorosa. Stava lavorando a maglia in una bassa poltrona, quando la vide la prima volta, e gli parve una grande gatta variegata, sonnecchiante, ma pronta a un’azione immediata. Era come una grande cacciatrice di sorci in agguato. L’occhiata d’invito che gli diede era cortese senza esser cordiale. Aveva il collo flessibile, malgrado le proporzioni, e girava la testa, per seguirlo, con una strana elasticità.

«Ma quando mi guardava, sapete», disse Vezin col suo lieve sorriso di scusa negli occhi bruni e con quel gesto lievemente contrito delle spalle che gli era caratteristico, «ebbi la strana sensazione che volesse fare una mossa del tutto diversa, e che con un sol balzò avrebbe potuto saltare sopra di me attraversò il cortile di pietra e agguantarmi come un enorme gatto agguanta un topo».

Rise d’un piccolo riso delicato, e il Dr. Silence inserì un’annotazione nel suo taccuino senza interrompere, mentre Vezin proseguiva incerto, come se temesse di aver già detto qualcosa di incredibile.

«Era molto morbida, ma assai attiva, malgrado le sue dimensioni. Sapeva cosa stavo facendo anche dopo che ero passato e mi trovavo dietro la sua schiena. Quando mi parlò, la sua voce era blanda e fluida. Mi chiese se avessi il mio bagaglio e se mi trovavo bene nella stanza. Aggiunse che si cenava alle sette, e che la gente cenava presto in quella cittadina, come per farmi comprendere che chi tardava non era gradito».

Con la voce e con le maniere voleva evidentemente fargli capire che là sarebbe stato semplicemente «amministrato» e che ogni cosa sarebbe stata disposta e organizzata per lui, in modo che non avrebbe dovuto far altro che «ubbidire». Nessuna azione decisa, nessun sforzo personale gli sarebbe stato richiesto. Era davvero tutto l’opposto del treno. Vezin uscì tranquillamente sulla strada, confortato e tranquillo. Si trovava in un ambiente che gli andava a genio e che gli tracciava la giusta via da seguire. Tutto era più facile con l’ubbidienza. Cominciò di nuovo a far le fusa e sentì che tutta la città faceva le fusa insieme a lui.

Si addentrò a suo agio nei meandri delle vie, assorbendone sempre più a fondo lo spirito riposante. Senza uno scopo preciso girò qua e là, in lungo e in largo. Il sole settembrino si proiettava obliquo sui tetti. Di sotto, vedeva i viali tortuosi, frangiati di comignoli e di finestre aperte. Coglieva sprazzi di luce evanescenti, che provenivano dalla vasta pianura laggiù in fondo, e ammirava prati e boscaglie distese, come una carta geografica di sogno, nella nebbia. Dovunque sentiva alitare, persistente, l’incantesimo del passato.

Le vie erano piene di uomini e donne dai costumi pittoreschi, tutti affaccendati, ma nessuno si curava di lui nè si voltava a fissare il suo aspetto inconfondibile di inglese. Riuscì perfino a dimenticare che col suo costume turistico era una nota stonata nel paesaggio incantevole, e si fondeva sempre più nella scena, sentendosi deliziosamente insignificante, privo d’importanza e inconscio di sè. Era come se facesse ormai parte di un sogno dalle tinte delicate. Nè si rendeva conto che si trattasse di un sogno.

La collina sprofondava verso oriente più scoscesa, e la pianura sottostante si perdeva in un mare d’ombre in cui le piccole macchie boschive apparivano come isole e i campi di stoppie come acqua profonda. Vezin vagava affascinato lungo i vecchi bastioni delle antiche fortificazioni che dovevano essere state formidabili, in un incantevole avvicendarsi di grige mura crollanti, ornate d’edera e di viti selvatiche. Dal vasto spiazzo, a livello di cime arrotondate di platani tosati, vedeva la pianura lontana, nell’ombra. Qua e là un raggio dorato di sole s’infiltrava e posava sulle foglie cadute. Dall’altura, vedeva in basso la gente passeggiare nella frescura della sera. Poteva anche udire il suono dei loro passi lenti, e il mormorìo delle voci si levava sino a lui, attraverso gli alberi. Le persone sembravano ombre, quando coglieva ad intervalli i loro calmi movimenti, laggiù in fondo.

Sedette là per qualche tempo a riflettere, avvolto dai mormorii e dagli echi che gli giungevano, attutiti dalle foglie dei platani. Tutta la cittadina, e la collinetta accanto gli sembravano un essere sonnecchiante nella pianura, che brontolasse nel dormiveglia.

Mentre sedeva pigramente, come immerso in un sogno, un suono di musica silvestre gli giunse alle orecchie. La banda cittadina cominciava a suonare lontano, presso il terrazzo affollato, laggiù, accompagnata dal suono morbidissimo di un tamburo dalla voce profonda. Vezin era assai sensibile alla musica. Se ne intendeva parecchio, e si era perfino provato, all’insaputa di tutti, nella composizione di soavi melodie dagli accordi profondi, che suonava per il proprio piacere, quando nessuno lo poteva ascoltare. Quella musica che si librava dal basso, da una pittoresca orchestrina popolare, invisibile fra gli alberi, lo riempiva d’incanto. Non capiva cosa suonassero. Sembrava che improvvisassero. Nessun ritmo definito usciva dai singoli strumenti, che finivano e cominciavano in modo strano, come il rumore del vento. Quella musica faceva parte del luogo e della scena, come la luce morente e il vento facevano parte della scena e dell’ora. Le morbide note dei corni lamentosi, foggiati all’antica, interrotte dal suono più acuto degli strumenti a corda, erano soffocate dal continuo rimbombo del tamburo e gli toccavano il cuore. Il fascino strano e potente che ne provava era troppo penetrante per essere del tutto piacevole.

Vi era un senso bizzarro, come di magia, in tutto ciò. La musica gli pareva strana, per nulla artificiale. Lo faceva pensare agli alberi sfiorati dal vento, alle brezze notturne vibranti tra i fili metallici, ai ceppi ardenti nel camino, al sartiame di navi invisibili, oppure, e il paragone gli sorse nella mente con un guizzo improvviso, oppure, ad un coro di animali, di creature selvatiche, in qualche regione desolata del mondo, che urlassero o cantassero, come appunto fanno gli animali, verso la luna. Sognava di udire gli urli lamentevoli, quasi umani, dei gatti sui tetti, di notte. Quei suoni, ingigantiti o affievoliti a magici intervalli, e quella musica, attutita dalla distanza e dagli alberi, lo facevano pensare a una bizzarra riunione di creature feline, su qualche tetto lontano, o in alto nel cielo, che inviassero alla luna, in coro, la loro musica solenne.

Era, questa, che gli veniva in mente, una immagine singolare. Eppure gli serviva ad esprimere in via pittorica, meglio di ogni altra cosa, la sensazione che provava. Gli strumenti suonavano a intervalli talmente strani, gli alti e i bassi erano talmente suggestivi, da evocare un ipotetico paese di gatti, sui tetti, di notte. Il suono si elevava rapidamente e ridiscendeva senza preavviso alle note basse, il tutto con una confusione stranissima di disaccordi e di accordi. Una dolcezza delicata risultava nello stesso tempo dal complesso, e i disaccordi di quegli strumenti di tanto in tanto interrotti, erano talmente singolari da non opprimere tuttavia la sua anima musicale, come l’avrebbero fatto dei violini stonati.

Ascoltò a lungo, abbandonandosi tutto, com’era nel suo carattere. Poi s’avviò verso casa nel crepuscolo, mentre l’aria si faceva più fredda.

«C’era qualche cosa di allarmante, in tutto questo?» interloquì brevemente il Dr. Silence.

«Assolutamente nulla!», rispose Vezin. «Ma, sapete, era tutto così fantastico e affascinante, che la mia immaginazione ne era profondamente impressionata. Forse», spiegò gentilmente, «la mia immaginazione, impressionata, provocava altre impressioni. Mentre mi trovavo sulla via del ritorno, infatti, l’incantesimo del luogo cominciava ad agire in mille modi su di me. Vi erano altre cose, di cui non mi rendevo conto, neanche allora».

«Intendete dire degli incidenti?».

«Non erano incidenti, credo. Erano sensazioni vivaci che si affollavano alla mia mente e delle quali non potevo stabilire la causa. Il sole era tramontato e i vecchi edifici screpolati tracciavano magiche linee contro un cielo opalescente di rosso e d’oro. Il crepuscolo scendeva per le viuzze tortuose. Tutt’intorno, sotto la collina, la pianura si stendeva come un mare cupo, che saliva, insieme alle tenebre. Il fascino di quella scena era molto impressionante, sapete! Sentivo che tutto quello che provavo non aveva nulla a che fare col mistero e con l’incanto della scena».

«Non soltanto, cioè, le sottili trasformazioni dello spirito che accompagnano la bellezza», interloquì il dottore, notando la sua esitazione.

«Proprio così!», proseguì Vezin, incoraggiato e non più preoccupato dai nostri sorrisi. «Le impressioni arrivavano da qualche altro punto. Per esempio, dalla via principale, che si rianimava e nella quale uomini e donne tumultuavano verso casa, ritornando dal lavoro, facendo acquisti intorno a baracche e carrette, chiacchierando oziosamente in gruppi. Da parte mia, mi accorgevo che non destavo nessun interesse. Nessuno si voltava per guardarmi come si fa di solito con un forestiero. Mi ignoravano completamente. La mia presenza fra loro, non richiamava nessun interesse, nessuna particolare attenzione.

«Allora, ad un tratto, mi balenò la convinzione che tutta quella indifferenza, fin da principio, fosse completamente fittizia. Ognuno mi sorvegliava invece minutamente. Ogni mia mossa era notata e osservata. Quel non vedermi era tutto una finzione… una elaborata finzione».

Fece una breve pausa e ci guardò per vedere se ridevamo di lui. Poi, rassicurato, proseguì:

«Inutile chiedermi come me ne accorsi. Davvero non saprei spiegarlo. Ma quella scoperta mi fece trasalire. Prima che arrivassi alla locanda, però, un’altra stranezza mi assalì la mente, con tutta la potenza della realtà. Anche questo, debbo dirlo subito, era per me inesplicabile come il resto. Posso esporre unicamente il fatto, ma non posso darne la spiegazione».

Vezin si alzò dalla sedia e si avvicinò al fuoco. La sua diffidenza andava diminuendo. Si perdeva nuovamente nella magia della vecchia avventura. I suoi occhi splendevano mentre parlava.

«Ebbene!», proseguì, mentre la voce sommessa si faceva un po’ più forte per l’eccitazione. «Mi trovavo in un negozio, quando mi venne per la prima volta quell’idea… Ma doveva trovarsi da lungo tempo in atto nel mio subcosciente, per apparire così ad un tratto in forma tanto completa. Stavo comperando calze, credo», e rise. «Annaspavo con quel mio terribile francese, quando mi accorsi di colpo che la donna nel negozio non si curava affatto se comperavo o no. Non le importava un bel nulla di vendere o non vendere. Fingeva soltanto di vendere: ecco tutto!

«Sembra, una cosa troppo insignificante e arbitraria per giustificare quel che segue. Ma in realtà non era così. Era la scintilla che doveva provocare una vasta fiammata nella mia mente.

«Tutta la città, me ne resi subito conto, era qualcosa di diverso da quanto avevo creduto fino a quel momento. Le attività e gli interessi reali di quella gente si trovavano altrove ed erano diversi da quanto sembrava. La loro vera vita si svolgeva in qualche altro luogo, fuori della visuale, dietro le quinte. Il loro darsi da fare era soltanto l’apparenza esteriore e mascherava i loro scopi reali. Comperavano e vendevano, mangiavano e bevevano, passeggiavano per le vie, ma la corrente principale della loro esistenza fluiva invece in qualche luogo, fuori della portata dei miei occhi, nel sottosuolo, in punti segreti. Nei negozi e davanti alle baracche, non si curavano se acquistavo o no i loro articoli. Nella locanda, erano indifferenti se restavo o me ne andavo. La loro vita si svolgeva lontana dalla mia. Zampillava da sorgenti recondite, misteriose. Si sperdeva al di là della vista, sconosciuta. Era tutta una grande, elaborata finzione, adottata forse a mio beneficio, per degli scopi loro particolari, forse. Il corso principale delle loro energie seguiva una direttiva diversa. Ero come un corpo estraneo, sgradito, che avesse trovato accesso in un organismo umano e che si trovasse di fronte a tutte le contromisure dell’organismo stesso, intese ad espellerlo od assorbirlo. Tutta la città faceva proprio questo nei miei riguardi.

«Questa bizzarra constatazione si affacciò insistentemente alla mia mente mentre ero diretto verso casa, verso la locanda. Cominciai a chiedermi con insistenza in che cosa potesse consistere la vera vita di quella città. Quali erano i veri interessi e le attività della sua vita nascosta?

«Ora che i miei occhi erano parzialmente aperti, notavo altre cose che mi stupivano. Era, innanzi tutto, lo straordinario silenzio che regnava dovunque. La città sembrava assolutamente priva di rumori. Benchè il lastricato delle vie fosse di pietra, la gente vi si moveva in silenzio, morbidamente, con piedi ovattati, come i gatti. Non c’era nulla che facesse strepito. Tutto appariva silenzioso, sommesso, ammutolito. Le stesse voci erano calme, di registro basso, come quello del gatto quando fa le fusa. Nulla di clamoroso, di violento, di enfatico pareva vivere nella sonnolenta atmosfera di un placido sognare che cullava la piccola città nel suo sonno, sopra la collina. Tutto era come la padrona della locanda… un riposo esteriore che nascondeva una intensa attività, un proposito segreto.

«Eppure, non vi era alcun segno di letargo, alcun indizio di indolenza, in alcun luogo. La gente era attiva e affaccendata. Soltanto una magica, allarmante mollezza, avvolgeva tutti e tutto, come un incantesimo».

Vezin si passò un attimo la mano sugli occhi, come se il ricordo si fosse fatto troppo vivo. La sua voce svaniva in un bisbiglio. Udimmo con difficoltà le sue ultime parole. Diceva sicuramente una cosa vera, una cosa di cui amava e odiava, nello stesso tempo, il ricordo.

«Ritornai nella locanda», continuò poi, con voce più alta, «e cenai. Sentivo un nuovo strano mondo intorno a me. Il mio vecchio mondo, quello della realtà, si allontanava. C’era qualche cosa di nuovo e d’incomprensibile, là. Deplorai di aver lasciato tanto impulsivamente il treno. Un’avventura mi attendeva, e detestavo le avventure, come contrarie alla mia natura. Per di più, pareva questo l’inizio di un’avventura che aveva origine nella profondità stessa del mio essere, in una regione che non conoscevo, che non potevo controllare nè misurare. Un sentimento di allarme si mescolava al mio sbalordimento… Allarme per la stabilità di tutto quanto, per quarant’anni, aveva costituito la mia vita, di quello che, sino ad allora, avevo riconosciuto come la mia «personalità».

«Salii le scale e mi misi a letto, mentre la mia mente era grave di pensieri per me nuovi, ossessionanti. Per confortare la mente, mi misi a ripensare a quel bel treno prosaico e rumoroso, a tutti quei sani viaggiatori rumorosi. Desideravo quasi di ritrovarmi insieme a loro. Ma la mia fantasia mi trascinava altrove. Sognavo gatti, creature dalle movenze feline, il silenzio di una vita estatica, in un mondo cupo e taciturno, al di là dei sensi.

II

Vezin si era trattenuto un giorno dopo l’altro, indefinitamente, nella piccola città, molto più a lungo di quanto fosse stata la sua intenzione. Era caduto in uno stato di intontimento, di sonnolenza. Non faceva nulla di particolare, ma il luogo lo affascinava. Non poteva decidersi a partire. Le decisioni gli riuscivano assai difficili. Si domandava talvolta come avesse mai fatto ad abbandonare il treno. Gli sembrava come se fosse stato qualcun altro che avesse predisposto le sue cose in quel modo. Una o due volte, i suoi pensieri ritornarono a quel francese bruno che gli era stato seduto di fronte. Se soltanto avesse potuto comprendere, allora, quella lunga frase che terminava con le parole, misteriose: «a causa del sonno e a causa dei gatti»! Si domandava che cosa significasse tutto ciò.

Nel frattempo, la placida tranquillità della cittadina lo teneva prigioniero, ed egli cercava, confusamente, di comprendere in che cosa consistesse il mistero, e quale significato potesse avere. Ma la sua limitata conoscenza della lingua francese e il suo odio costituzionale contro ogni indagine attiva gli rendevano difficile di attaccar discorso con alcuno o fare delle domande. Si accontentava di osservare, di vigilare, di rimanere negativo.

Il tempo si manteneva calmo e nuvoloso, e questo gli confaceva. Girò per la città fino a conoscerne ogni via, ogni viale. La gente lo lasciava andare e venire, senza ostacolarlo in nulla. Ogni giorno gli appariva tuttavia più chiaro di essere sempre oggetto della loro osservazione. Tutta la cittadina vegliava su di lui, come una gatta che sorveglia un topo. E non riusciva mai a scoprire in che cosa fossero tanto affaccendati, o dove si trovasse la principale corrente delle loro attività. Questa, rimaneva nascosta. La gente era molle e misteriosa, come i gatti.

Ma che egli si trovasse sotto un’osservazione continua, era chiaro, e diventava di giorno in giorno sempre più chiaro.

Per esempio, quando passeggiava nei sobborghi della piccola città ed entrava in un piccolo giardino pubblico sotto i bastioni, e sedeva su una panca, al sole, era completamente solo, in principio. Nessun altro posto era occupato. Il piccolo parco era vuoto, i sentieri deserti. Dopo una diecina di minuti, tuttavia, una ventina di persone appariva e si sparpagliava intorno a lui. Alcune vagavano oziosamente lungo i viali guardando i fiori; altre, sedute sulle panche di legno, si godevano come lui il sole. Nessuno sembrava occuparsi minimamente di lui; ma comprendeva benissimo che tutti accorrevano per osservarlo. Lo tenevano strettamente d’occhio. Nelle vie potevano apparire piuttosto affaccendati e frettolosi, dediti alle loro occupazioni. Ma tutto era dimenticato, nel giardino, e non avevano altro da fare che gironzolare e bighellonare al sole, immemori delle loro incombenze. Cinque minuti dopo che se n’era andato, il giardino tornava nuovamente deserto, i posti rimanevano vuoti. Nelle vie affollate la cosa si ripeteva. Non era mai solo. Era sempre nei loro pensieri. Cominciava inoltre ad accorgersi di essere osservato in modo talmente abile, che nulla avrebbe dovuto trasparirne. La gente non faceva nulla direttamente. Si comportava obliquamente. Vezin rideva fra sè, al pensiero di dover far uso di espressioni del genere, ma erano proprio quelle espressioni che rendevano esattamente il suo pensiero. Lo sogguardavano in modo tale che, secondo il modo naturale di guardare, avrebbero dovuto vederlo in una direzione completamente diversa. Anche i loro movimenti erano obliqui, in quanto si riferivano a lui. Il loro modo di fare, evidentemente, non era nè chiaro nè lineare. Non facevano nulla in modo naturale. Se egli entrava in un negozio per fare un acquisto, la donna si ritirava subito e si dava da fare con qualche cosa nell’angolo più lontano del banco, pur rispondendo subito quando parlava, dimostrando così di sapere che egli era presente. Era la maniera del gatto, che veniva adottata. Perfino nella sala da pranzo della locanda, il cameriere, baffuto e cortese, flessibile e silenzioso in tutti i movimenti, non sembrava mai in grado di venire diritto al suo tavolo per servirlo. Arrivava sempre a zigzag, indirettamente, vagamente, tanto da sembrare avviato verso un altro tavolo, ed era soltanto all’ultimo momento che si girava all’improvviso, e si trovava di colpo, lì, accanto a lui.

Vezin sorrideva curiosamente fra sè mentre descriveva in qual modo cominciò a rendersi conto di tutto questo. Non v’erano traccie di alcun’altro turista nell’albergo. Poteva però rievocare le figure di due vecchi, che vi abitavano, e che vi consumavano la colazione e la cena. Ricordava in qual modo fantastico facevano il loro ingresso nella sala da pranzo. Dapprima, sostavano sulla soglia, spiando intorno nella sala. Poi, dopo questa ispezione preliminare, entravano, per così dire, di traverso, mantenendosi accosto alle pareti tanto che Vezin si domandava quale tavolo avrebbero preso di mira. All’ultimo momento facevano quasi una piccola corsa ai loro posti particolari. E questo lo induceva ancora a pensare ai modi ed alle abitudini dei gatti.

Altri piccoli incidenti lo impressionavano, espressioni tutte di quella strana, silenziosa città. Il modo con cui la gente appariva e scompariva con straordinaria sveltezza lo sconcertava infinitamente. Questo poteva anche svolgersi per vie del tutto naturali, era possibile. Non poteva tuttavia rendersi ragione come mai i viali se li inghiottissero o li proiettassero fuori in un secondo, quando non c’erano porte, o comunque aperture, abbastanza vicine da spiegare il fenomeno. Una volta pedinò due donne anziane che lo avevano insistentemente osservato dall’altro lato della strada, e le vide svoltare all’angolo, a pochi passi davanti a lui. Eppure, dopo averle seguite quasi alle calcagna, altro non vide, ad un tratto, che un viale completamente deserto. Di fronte a lui, non c’era più alcun segno di anima viva. L’unica apertura nella quale avrebbero potuto rifugiarsi era un portico lontano una cinquantina di metri, che neanche il più veloce corridore avrebbe potuto raggiungere in tempo così breve.

Nello stesso modo, all’improvviso compariva la gente quando meno se l’aspettava. Una volta, sentì il fracasso di una lotta che si svolgeva dietro un basso muricciuolo e si affrettò per vedere cosa accadesse. Altro non vide, tuttavia, che un gruppo di ragazze e di donne impegnate in rumorosa conversazione, che si abbassò immediatamente di tono quando la sua testa apparve sopra il muro. Anche allora, nessuna di esse si voltò per guardarlo direttamente, ma sgattaiolarono via con inconcepibile rapidità scomparendo nelle porte e sotto le tettoie. Le loro voci gli erano sembrate molto simili al rabbioso ringhiare di animali in lotta, quasi di gatti.

Tutto lo spirito della città continuava a sfuggirgli come qualche cosa di elusivo, proteiforme, separato dal mondo esteriore, e tuttavia intensamente e genuinamente vitale. Poichè faceva ora parte di quella vita, quel continuo giuoco a rimpiattino lo sconcertava e lo irritava. Anzi… cominciava quasi a spaventarlo.

Gli sorgeva spesso l’idea e il sospetto che tutti gli abitanti aspettassero che si dichiarasse, cioè desse segno di voler fare questo o quest’altro. Quando lo avesse ben fatto, avrebbero infine risposto nel senso di accettarlo o rifiutarlo. Ma quale potesse essere la vitale questione sulla quale aspettavano si decidesse, non gli balenò mai alla mente.

Seguì qualche volta di proposito le piccole processioni o gruppi di cittadini per scoprire, se possibile, a quale scopo tendessero. Ma il suo giuoco era sempre scoperto in tempo. Tutti si eclissavano, ognuno avviandosi per proprio conto. Si tornava ogni volta daccapo: non poteva mai venire conoscere quali fossero i loro interessi principali. La cattedrale era sempre vuota, la vecchia chiesa di San Martino, all’altra estremità della città, deserta. Facevano acquisti perchè se lo imponevano, non perchè lo desiderassero. Le botteghe erano trascurate, i banchi abbandonati, i piccoli caffè desolati. Eppure le vie erano sempre affollate, gli abitanti indaffarati, tumultuanti.

«Forse», pensava tra sè, sorridendo perchè la cosa gli sembrava troppo buffa: «forse è una gente del crepuscolo. Forse vivono la loro vita reale soltanto di notte, e si manifestano quali sono, soltanto all’imbrunire. Che si prestino durante il giorno a una messinscena, fittizia quanto abile, e dopo il tramonto del sole cominci la loro vera vita? Che abbiano l’anima delle cose notturne, e tutta la vita della città si trovi in potere dei gatti?».

La fantastica idea lo colpì di raccapriccio e di terrore. Si accorse comunque che si sentiva sempre più a disagio e che strane forze sembravano fermentare nel suo essere. Qualcosa di estremamente lontano dalla sua vita ordinaria, qualcosa che non aveva mai avvertito, cominciò ad agitarsi nella sua anima, allungando tentacoli in fondo al suo cervello e al suo cuore, dando forma a strani pensieri e penetrando perfino in certune fra le sue azioni minori. Qualche cosa di straordinariamente vitale per lui, per la sua anima, pareva sospeso sulla bilancia.

Ogni volta che ritornava alla locanda verso l’ora del tramonto, vedeva i cittadini insinuarsi e sparire nel crepuscolo uscendo dai negozi, con l’atteggiamento di sentinelle che passeggiassero agli angoli delle vie, ma si dileguavano sempre, silenziosamente, come ombre, al suo avvicinarsi. Poichè la locanda chiudeva invariabilmente le porte alle dieci, non aveva mai potuto vedere come la cittadina si presentasse di notte.

«…a causa del sonno e a causa dei gatti» quelle parole gli risuonavano sempre più di frequente nell’orecchio, benchè sempre senza un significato preciso.

Per di più c’era qualche cosa che lo induceva a dormire profondamente, come se fosse morto.

III

Era, ormai, il quinto giorno, benchè in questo particolare il suo racconto talvolta variasse, quando fece una scoperta ben definita, che contribuì ad aumentare il suo allarme. Anche prima si era accorto che stava per verificarsi un cambiamento e che sottili trasformazioni erano all’opera nel suo carattere, tanto da modificare alcune sue abitudini. Aveva tuttavia cercato di non pensarvi. Ecco invece, ora, qualche cosa che non poteva più trascurare e che lo preoccupava vivamente.

Normalmente non era mai stato molto energico; al contrario, era remissivo e accondiscendente. Ma quando la necessità lo imponeva, era ancora capace di un’azione ragionevolmente vigorosa e poteva prendere una decisione abbastanza radicale. La scoperta che ora fece e che lo scosse ed allarmò, consisteva nel fatto che quella forza lo aveva senz’altro abbandonato. Gli era impossibile rifarsi la mente. Si rese chiaramente conto al quinto giorno, di essersi trattenuto abbastanza nella città e che, per ragioni che soltanto vagamente sapeva spiegarsi, sarebbe stato più saggio e più salutare andarsene.

E si accorse che non poteva partire!

Difficile spiegar questo a parole. Era piuttosto a mezzo di gesti e con l’espressione del viso, che comunicò al Dr. Silence lo stato di impotenza in cui si era trovato. Tutto questo spiare e osservare, disse, aveva per così dire tessuto come una rete intorno a lui, cosicchè si sentiva chiuso in trappola e impotente a fuggire. Si sentiva come una mosca impigliata in una vasta ragnatela. Era preso, imprigionato, e non poteva andarsene. Era una sensazione spaventosa. Un torpore aveva invaso la sua volontà sino a renderla incapace di una decisione. Il solo pensiero di un’azione vigorosa, un’azione rivolta alla fuga, cominciava ad atterrirlo. Tutte le correnti della sua vita erano rivolte verso l’io, allo scopo di far affiorare qualche cosa che giaceva sepolta, fuori portata, e determinare il riconoscimento di qualche cosa che aveva da lungo tempo dimenticato… dimenticato col susseguirsi degli anni, forse dei secoli. Una finestra, nelle profondità del suo essere, sembrava stesse per aprirsi e rivelare un mondo affatto nuovo, ma non del tutto sconosciuto. Al di là, immaginava fosse calata un’ampia tenda; e quando si fosse sollevata, avrebbe visto più addentro, per comprendere infine qualche cosa della vita segreta di quella gente straordinaria.

«È per questo che attendono e vigilano?» si domandava con cuore tremante. «Sino al momento in cui mi associerò a loro… o rifiuterò? La decisione sta in me, dunque, e non in loro?».

Fu a questo punto che il carattere sinistro dell’avventura si rivelò per la prima volta, ed egli ne fu veramente costernato. Sentiva che era in gioco la stabilità della sua piccola personalità piuttosto debole, e un sentimento di paura gli si destò nel cuore.

Per quale ragione, infatti, cominciava a camminare furtivamente, silenziosamente, facendo il minimo rumore, e guardandosi sempre indietro? Per quale ragione camminava quasi sulla punta dei piedi nei corridoi della locanda praticamente deserta, e quando era fuori, si sorprendeva ad approfittare egli stesso di ogni buco che gli si offriva? Perchè, se non aveva paura, il fatto di trovarsi, in casa dopo il tramonto gli sembrava all’improvviso oltremodo desiderabile? Perchè, dunque?

Quando il Dr. Silence gli sollecitò gentilmente una spiegazione, ammise, scusandosi, che non era in grado di darla.

«Temevo semplicemente che potesse accadermi qualche cosa se non mi comportavo con molta circospezione. Avevo paura. Era istintivo!», ecco tutto quanto sapeva dire. «Ebbi l’impressione che tutta la città m’inseguisse – che avesse bisogno di me per qualcosa. Se mi avesse raggiunto, sarei stato perduto, o per lo meno sarebbe stato perduto il mio Io, la mia anima. Ma non sono uno psicologo, sapete», soggiunse modestamente, «e non so spiegarmi meglio di così».

Vezin stava gironzolando nel cortile mezz’ora prima di cena quando fece quella scoperta, e salì subito le scale per raggiungere la sua camera tranquilla, in fondo al tortuoso corridoio, per ripensare in solitudine ai fatti suoi. Il cortile era vuoto, naturalmente, ma era possibile che quel donnone che temeva uscisse da qualche porta fingendo di cucire, ma col proposito di sorvegliarlo. Questo era avvenuto altre volte, e non poteva perciò sopportarne la vista. Ricordava ancora la bizzarra impressione che gli aveva fatto la prima volta. Gli sembrava sempre che avrebbe potuto saltargli addosso, con un balzo travolgente, per agguantarlo alla nuca, quando avesse voltato le spalle. Naturalmente, era una sciocchezza, ma questo tuttavia lo ossessionava, e quando un’idea comincia ad ossessionare non è più una sciocchezza. Si riveste della realtà.

Salì dunque le scale. Era buio, e le lampade a olio non erano ancora accese nei corridoi. Inciampò sul vecchio impiantito, oltrepassando gli oscuri contorni delle porte lungo il corridoio. Quelle porte non le aveva mai viste aperte. Quelle stanze non sembravano mai occupate. Si moveva, come ormai d’abitudine, furtivamente e sulla punta dei piedi.

A mezza strada, laggiù, nell’ultimo tratto del corridoio, verso la sua stanza, v’era una svolta improvvisa, e fu proprio là, mentre brancolava contro le pareti con le mani tese, che le sue dita toccarono qualche cosa che non era il muro… qualche cosa che si moveva. Era qualche cosa di morbido e caldo, indescrivibilmente fragrante, all’altezza circa della sua spalla. In quel momento, pensò che fosse un gattino peloso, dolcemente profumato. Ma subito dopo si accorse che era una cosa ben diversa.

Invece di indagare, tuttavia, dato lo snervamento in cui si trovava, si ritrasse precipitosamente a ridosso del muro opposto. La cosa, qualunque fosse, sgusciò via; sorpassandolo con un suono frusciante, e svanì con passi lievi lungo il corridoio. Un alito d’aria calda e profumata gli inondò le narici, mentre quella cosa passava.

Vezin trattenne il respiro per un istante e sostò, appoggiato al muro. Poi raggiunse di corsa la sua stanza, e chiuse a chiave la porta dietro di sè. Eppure, non era paura quello che lo faceva correre: era eccitazione, gioiosa eccitazione. I suoi nervi formicolavano. Sentiva un delizioso calore per tutto il corpo. In un lampo gli venne in mente che fosse esattamente la stessa cosa che aveva sentito venticinque anni prima, quando era ancora un ragazzo, ed aveva amato per la prima volta. Calde correnti di vita lo attraversavano tutto e gli salivano al cervello in un turbine di dolce smarrimento. I suoi modi si erano improvvisamente fatti teneri, languidi, amorosi.

La stanza era completamente al buio, ed egli si lasciò cadere su un divano vicino alla finestra, stupito di quanto gli era accaduto e chiedendosi cosa potesse significare. Ma l’unica cosa che comprese chiaramente in quel momento fu che qualche cosa in lui si era rapidamente, magicamente cambiato: non desiderava più partire, nè mettersi a ragionare con se stesso a proposito della partenza. L’incontro nel corridoio aveva cambiato tutto. Quello strano profumo rimaneva ancora sospeso intorno a lui, ispirandogli il cuore e la mente. Sapeva che era una ragazza che gli era passata accanto; era il volto di una ragazza che le sue dita avevano accarezzato nell’oscurità, e gli pareva di essere stato addirittura baciato in pieno, sulle labbra.

Tremando, si sedette sul divano accanto alla finestra e si sforzò di raccogliere i suoi pensieri. Era del tutto incapace di comprendere come il solo incontro con una ragazza nel buio di uno stretto corridoio potesse imprimere un brivido così elettrizzante a tutto il suo essere, da agitarlo tuttora con soprannaturale dolcezza. Eppure, era così! Cercò inutilmente di ragionare. Il fuoco gli era rientrato nelle vene, e gli scorreva ora nel sangue. Che avesse quarantacinque anni, anzichè venti, non aveva importanza alcuna. Da tutto il tumulto interiore e dalla confusione emerse un unico fatto saliente: la sola atmosfera, il tocco del tutto casuale di quella ragazza, non veduta nè conosciuta, nel buio, era stato sufficiente a ridestargli un fuoco assopito nel profondo del cuore, e a sollevare tutto il suo essere, da uno stato di debolezza e di indolenza, ad uno stato di eccitazione fervida e tumultuante.

Dopo un certo tempo, tuttavia, gli anni di Vezin cominciarono ad affermarsi, e si fece più calmo. Quando infine sentì bussare alla porta e la voce del cameriere gli annunciò che la cena era quasi terminata, si alzò in piedi, ridiscese lentamente le scale ed entrò nella sala da pranzo.

Al suo ingresso, tutti lo guardarono, poichè era molto tardi. Egli occupò il suo posto abituale, nell’angolo più lontano, e si mise a mangiare. La trepidazione durava ancora nei suoi nervi, ma il fatto che aveva attraversato il cortile e l’atrio senza incontrare una gonnella, era valso a calmarlo un po’. Mangiò tanto in fretta da aver già quasi finito il suo pasto, quando una lieve commozione nella sala attirò la sua attenzione.

La sua sedia era collocata in modo che la porta e la maggior parte della sala da pranzo si trovavano dietro di lui. Ma non fu necessario che si voltasse per sapere che la stessa persona che aveva incontrata nel corridoio era ora entrata nella sala. Sentì la sua presenza molto tempo prima di udire o di vedere qualcuno. Poi si accorse che i vecchi, gli unici clienti oltre a lui, si levavano l’uno dopo l’altro dai loro posti e scambiavano dei saluti con qualcuno che passava fra loro, di tavola in tavola. Quando infine si volse, col cuore in tumulto, per accertarsene, vide la figura di una giovane ragazza, flessuosa e snella, avviarsi attraverso il centro della sala proprio in direzione del suo tavolo d’angolo. Si muoveva meravigliosamente, con una grazia sinuosa, come una giovane pantera, e il suo avvicinarsi lo riempì di uno smarrimento tanto delizioso che fu del tutto incapace di indovinare a cosa mai somigliasse il suo volto, o di scoprire che cosa ci fosse in tutto l’atteggiamento di lei, che lo riempiva di trepidazione e di diletto.

«Ah, la signorina è di ritorno!» udì mormorare il vecchio cameriere al suo fianco, e potè indovinare che si trattava della figlia della proprietaria, quando era già vicino a lui e ne udiva la voce. Essa gli parlava. Vide confusamente delle labbra rosse, dei bianchi denti ridenti, delle ciocche ribelli di fini capelli bruni intorno alle tempie; ma tutto il resto era come un sogno. L’emozione gli aveva sollevato una fitta nebbia davanti agli occhi e gli impediva di vedere con precisione, o sapere esattamente cosa facesse. Si accorse che lo salutava con un affascinante piccolo inchino; che i suoi grandi e begli occhi guardavano e cercavano nei suoi; che il profumo che egli aveva aspirato in quel buio corridoio, assaliva nuovamente le sue narici, e che essa stava un po’ inclinata verso di lui, appoggiata con una mano sul tavolo al suo fianco. Gli stava vicinissima, quest’era la cosa essenziale. Stava spiegando che era suo desiderio conoscere se gli ospiti di sua madre si trovavano a loro agio.

«Il signore è qui già da alcuni giorni», sentì dire il cameriere, mentr’ella si presentava a lui, e poi la voce di lei, dolce e melodiosa, rispose:

«Ah, ma il signore non vorrà lasciarci così presto, spero. Mia madre è troppo vecchia per potersi occupare adeguatamente del benessere dei nostri clienti, ma ora sono qui io, e voglio rimediare a tutto». E sorrise deliziosamente. «Il signore sarà servito alla perfezione!».

Vezin, lottava con l’emozione e, desiderando di essere cortese, si alzò a metà per mostrare che apprezzava il bel discorsetto e per balbettare una specie di risposta. Mentre così faceva, la sua mano toccò per caso quella di lei che stava appoggiata sul tavolo, e una scossa elettrica passò dalla pelle di lei nel corpo di lui. L’anima gli fluttuava e gli si agitava in fondo al cuore. Vide gli occhi di lei fissi nei suoi con uno sguardo della più intensa curiosità. Poi si accorse di aver ripreso posto sulla sedia, senza profferire una parola, mentre la ragazza si trovava di nuovo a metà sala, ed egli cercava di mangiarsi l’insalata con un cucchiaino e un coltello.

Desiderando il ritorno di lei, e forse temendolo, trangugiò il resto del suo pasto, e poi si avviò subito dopo verso la stanza da letto per esser solo coi suoi pensieri. In quel momento i corridoi erano illuminati, e non ebbe incidenti eccitanti. Eppure, il corridoio era cupo di ombre, e l’ultimo tratto, dalla svolta della parete in avanti, sembrava più lungo che mai. Gli sembrava un sentiero di montagna in discesa che dovesse condurlo fuori della casa, fino nel cuore della grande foresta. Tutto il mondo cantava con lui. Strane fantasie gli riempivano il cervello e, una volta nella stanza, con la porta chiusa a chiave, non accese nemmeno le candele, ma si mise a sedere vicino alla finestra aperta, fantasticando, mentre pensieri sconvolgenti gli invadevano, suo malgrado, la mente.

IV

Questa parte della storia Vezin la raccontò al Dr. Silence, balbettando, con tono alquanto imbarazzato. Non poteva minimamente comprendere, disse, come la ragazza avesse fatto per colpirlo così profondamente, anche prima ch’egli avesse posato gli occhi su di lei. La sua vicinanza nel buio era bastata per infiammarlo. Non conosceva nulla di incantesimi femminili. Per anni si era mantenuto estraneo a ogni approccio o rapporto sentimentale con l’altro sesso, chiuso com’era nella sua timidezza, mentre conosceva, d’altra parte, anche troppo, i suoi opprimenti difetti. Ma quell’affascinante giovane creatura veniva a lui deliberatamente. Le maniere di lei erano inequivocabili. Lo cercava in ogni possibile occasione. Casta e dolce era, senza dubbio, ma francamente incoraggiante. Lo avrebbe tutto conquistato col primo sguardo dei suoi occhi luminosi, se non fosse già stato affascinato, nel buio, con la magia della sua invisibile presenza.

«Sentivate che era completamente intemerata e buona?» domandò il dottore. «Non sentivate nessuna reazione… per esempio, di allarme?».

Vezin alzò lo sguardo con lieve sorriso, quasi volesse chiedere scusa. Trascorse qualche minuto, prima di rispondere. Il solo ricordo dell’avventura gli aveva soffuso il volto di rossore. Gli occhi bruni si abbassarono, prima che rispondesse.

«Non posso affermarlo con sicurezza», spiegò. «Mi accorsi di una specie di malessere, quando più tardi mi trovai seduto nella mia stanza. Una convinzione faceva sempre più presa su di me… che vi fosse qualche cosa intorno a lei… come potrei spiegare?… Ebbene, qualche cosa di allarmante. Non era impurità, in alcun modo, nè fisico nè mentale, voglio dire. Qualche cosa di completamente indefinibile, che mi ricordava la sensazione che si prova in vicinanza dei rettili. Mi attirava, e al tempo stesso mi respingeva, più che… più che…».

Esitò, arrossendo tutto, incapace di terminare la frase.

«Nulla del genere mi era mai capitato prima, e nemmeno dopo», concluse un po’ confuso. «Credo si trattasse, come dicevate voi, di qualche cosa di simile a un incantesimo. Ad ogni modo, era tanto forte, che mi sarei trattenuto in quella piccola città per degli anni pur di poterla vedere ogni giorno, udire la sua voce, osservare i suoi meravigliosi movimenti, e toccarle qualche volta la mano».

«Potete spiegarmi quale fosse la fonte del suo fascino e del suo potere?» domandò il Dr. Silence, guardando di proposito altrove, per non confonderlo maggiormente.

«Sono sorpreso che siate proprio voi a rivolgermi una domanda simile», rispose Vezin, abbozzando un gesto dignitoso. «Credo che nessun uomo possa descrivere a un altro in modo convincente dove risieda il fascino della donna che lo ha colpito. Io, ad ogni modo, non ci riesco. Posso dire soltanto che quella ragazza mi stregava, e il solo sapere che viveva e dormiva nella stessa casa mi riempiva d’un senso inesprimibile di gioia.

«Ma vi posso assicurare una cosa» continuò, con gli occhi accesi. «Sembrava che assommasse e sintetizzasse in se stessa tutte le strane forze nascoste che operavano misteriose nella città e nei suoi abitanti. Aveva le seriche movenze della pantera. Camminava mollemente, silenziosamente, usando gli stessi metodi obliqui dei suoi concittadini, covando, come loro, propositi segreti… propositi dei quali, ne ero sicuro, ero io l’obiettivo. Mi teneva, con mio terrore e diletto, incessantemente d’occhio, con tanta consumata indifferenza, che chiunque meno sensitivo o meno preparato di me, non se ne sarebbe accorto. Era sempre calma, riposante, ma mi cercava dovunque, cosicchè non potevo mai sfuggirle. M’imbattevo continuamente nello sguardo e nel riso dei suoi grandi occhi, negli angoli delle stanze, nei corridoi, tranquillamente rivolti verso di me».

La loro intimità crebbe assai presto, dopo quel primo incontro che aveva tanto violentemente turbato l’equilibrio di Vezin. Era una di quelle persone così «a puntino», viveva in un mondo così ristretto, che qualsiasi avvenimento del genere doveva renderlo diffidente. Dopo qualche tempo, tuttavia, cominciò a sentirsi un po’ più a suo agio, giungendo persino a trascurare la propria persona, come se si trovasse a casa sua.

La ragazza aveva sempre dei modi modesti, e come rappresentante della madre doveva per forza di cose trattare con gli ospiti dell’albergo. Ne doveva perciò sortire una specie di cameratismo. Era inoltre giovane, bella da incantare, francese, e… sentiva evidentemente della simpatia per lui.

Vi era al tempo stesso qualche cosa di indescrivibile, un’atmosfera indefinibile d’altri luoghi e d’altri tempi, per cui durava fatica a tenersi in guardia, e tratteneva talvolta il respiro, come in attesa di una scossa improvvisa. Era come un sogno delirante, dilettevole e pauroso ad un tempo, come confidò con un bisbiglio al Dr. Silence. Spesso non sapeva cosa facesse o dicesse, come se fosse trascinato da impulsi che quasi non riconosceva come propri.

Benchè il pensiero della partenza gli si affacciasse di nuovo alla mente, ciò avveniva con insistenza sempre minore. La rimandava di giorno in giorno, partecipando sempre più alla vita sonnolenta di quella sognante città medioevale, perdendo sempre più della sua personalità. Ben presto, lo sentiva, il velario si sarebbe alzato di colpo, paurosamente, e sarebbe stato introdotto nei segreti recessi di quella vita nascosta. A quell’epoca, si sarebbe certamente trasformato in un essere del tutto diverso.

Nel frattempo, notava dovunque l’intenzione di rendergli più attraente il soggiorno: fiori nella sua stanza da letto, una poltrona più comoda nell’angolo, pietanze fuori lista al suo tavolo riservato, nella sala da pranzo. Anche le conversazioni con la «signorina Ilse» si facevano sempre più frequenti e piacevoli. Benchè sconfinassero di rado dall’argomento del tempo, cioè dalla situazione atmosferica, o dai particolari della cittadina, si accorgeva che la ragazza non manifestava mai fretta per portarle a termine. Cercava anzi di inserire frasi strane, che egli non comprendeva mai nel loro vero significato quanto ne intuisse l’importanza.

Erano queste vaghe allusioni, piene d’un significato che gli sfuggiva, che puntavano verso qualche proposito nascosto e lo mettevano a disagio. Tutte quante si riferivano a pretesti perchè rimanesse in quella città a tempo indeterminato.

«Il signore non ha ancora deciso?» gli diceva lievemente all’orecchio, seduta accanto a lui nel cortile assolato, prima di colazione, la conoscenza avendo progredito con significativa rapidità. «Se la cosa è tanto difficile, dobbiamo cercare tutti quanti di aiutarlo!».

Questo lo spaventò. Le parole erano state pronunciate con una risatina, mentre un ricciolo vagabondo le ricadeva su un occhio. Una curiosità maliziosa le splendeva nello sguardo. Forse non comprendeva bene il francese di lei, perchè la sua vicinanza metteva una disastrosa confusione nelle esigue conoscenze ch’egli aveva della lingua. Eppure, le parole e i modi, e qualcos’altro ancora che covava dietro tutto questo, nella mente di lei, lo spaventavano. Aveva la chiara sensazione che tutta la città lo attendesse al varco.

Al tempo stesso, la voce di lei, quando gli era vicina nel suo morbido costume scuro, lo faceva rabbrividire ineffabilmente.

«È vero, trovo difficile partire», balbettò, perdendo il filo del discorso, «e specialmente ora che è venuta la signorina Ilse».

Fu sorpreso dal successo delle sue parole, ed esaltato dalla sua piccola galanteria. Ma avrebbe al tempo stesso voluto mordersi la lingua.

«Allora, dopo tutto, amate la nostra piccola città, altrimenti non vi piacerebbe fermarvi tanto», essa disse, quasi ignorando il complimento.

«Ne sono affascinato, e affascinato da voi», esclamò, sentendo che la lingua stava sfuggendo al suo controllo. Era sul punto di dire chissà quali altre cose del genere, quando la ragazza si accinse ad andarsene.

«Oggi abbiamo zuppa di cipolle!» esclamò, ridendo. «Vado a vedere a che punto siamo. Altrimenti, chissà, il signore non potrà gustarla, e allora, forse, ci lascerà!».

La vide attraversare il cortile, con la grazia e la leggerezza della razza felina. Il suo semplice vestitino nero le si attagliava proprio come la pelliccia di un felino. Si volse ancora a ridere al suo indirizzo, poi si fermò un momento per parlare con sua madre, che sedeva agucchiando dietro l’entrata del vestibolo.

Ma come mai, quando il suo occhio cadde su quella donna poco simpatica, la coppia apparve improvvisamente diversa da quella che era? Donde veniva quella improvvisata dignità, quel senso di potenza che le avvolgeva entrambe come per magia? Perchè quella donna massiccia appariva istantaneamente regale, come su un trono, in un tenebroso e pauroso scenario, sul rosso bagliore di un’orgia tempestosa? Perchè quella delicata ragazza, graziosa come un salice, flessuosa come un giovane leopardo, assumeva ad un tratto un’aria di sinistra maestà, e si muoveva, con fiamme e fumo intorno al capo, e le tenebre della notte sotto ai piedi?

Vezin trattenne il respiro e rimase come trafitto. Poi, quasi simultaneamente con la sua apparizione, la bizzarra immagine svanì di nuovo, e la luce del giorno assolata le colpì entrambe. Udì che la giovane rideva con sua madre a proposito della zuppa di cipolle, e la vide di nuovo guardare in direzione di lui, con un sorriso adorabile, che gli suggerì l’idea di una rosa baciata dalla rugiada, lievemente dondolante sotto gli zefiri d’estate.

La zuppa di cipolle fu davvero eccellente, quel giorno, poichè vide un altro coperto sul suo piccolo tavolo e, con cuore palpitante, udì il cameriere mormorare a titolo di spiegazione, che la signorina Ilse avrebbe onorato il signore a colazione, com’era talvolta sua abitudine con gli ospiti di sua madre.

Così, essa sedette accanto a lui per tutto quel pasto delizioso, parlandogli tranquillamente in un facile francese, mescolando gli ingredienti dell’insalata, e aiutandolo perfino a servirsi, con le proprie mani. Più tardi, nel pomeriggio, mentre stava fumando nel cortile, ansioso di rivederla, essa venne di nuovo verso di lui, non appena ebbe sbrigato le sue faccende, stette per un momento a guardarlo, piena di una dolce timidezza, prima di parlare:

«Mia madre pensa che dovreste conoscere meglio le bellezze della nostra cittadina, ed io pure ne sono convinta! Il signore gradirebbe forse che gli facessi da guida? Posso mostrargli ogni cosa, poichè la nostra famiglia è vissuta qui per molte generazioni».

Lo prese per mano, infatti, prima che potesse trovare una sola parola per manifestare il suo piacere, e lo guidò, senza che egli resistesse fuori, sulla strada, in un modo che fece sembrare del tutto naturale che essa dovesse agire così senza dare la minima impressione di sfrontatezza o immodestia. Il volto di lei ardeva dal piacere, e col suo vestitino corto ed i capelli cascanti, appariva in ogni minimo particolare la vezzosa bambina di diciassette anni che era, innocente e gioconda, orgogliosa della sua città natale, sensibile a quella suggestiva antica bellezza.

Così passeggiarono insieme per la città, ed essa gli mostrò ciò che considerava di maggior interesse: la vecchia casa crollata in cui avevano abitato i suoi avi; la tetra palazzina dall’aspetto aristocratico in cui la famiglia di sua madre aveva abitato per secoli, l’antica piazza del mercato su cui alcuni secoli fa le streghe erano state bruciate a diecine. Gli raccontava vivamente tutto questo, benchè egli non capisse che una minima parte di quello che essa diceva, mentre si trascinava al suo fianco, maledicendo i suoi quarantacinque anni, con tutte le emozioni della sua virilità che riaffioravano a burlarsi di lui. L’Inghilterra e Surbiton, mentre essa parlava, apparivano lontanissime, appartenenti a un altro mondo, a un altro secolo. La voce della ragazza toccava qualche cosa di incommensurabilmente vecchio in lui, qualche cosa che dormiva da tempo. Questo gli cullava e assopiva la coscienza, ridestando in lui ciò che vi era di più antico. Come la città, con la sua finzione di vita moderna e attiva, gli strati superiori del suo essere si offuscavano e assopivano, e ciò che sonnecchiava nel fondo cominciava ad agitarsi, risvegliandosi. Quella pesante cortina si agitava… Avrebbe potuto da un momento all’altro sollevarsi del tutto…

Infine cominciò a comprendere un po’ meglio. L’atmosfera della città stava per agire su di lui. A misura che il suo «io» andava offuscandosi, la segreta vita interiore, molto più reale e vitale, si affermava. E quella ragazza ne era certamente la sacerdotessa, lo strumento principale. Nuovi pensieri, con nuove interpretazioni, gli invadevano la mente, mentre le camminava al fianco per le viuzze tortuose. La pittoresca antica città, soavemente colorata nel tramonto, non gli era mai apparsa tanto meravigliosa e seducente.

Un solo curioso incidente venne a turbarlo e sconcertarlo, incidente insignificante in se stesso, ma affatto inesplicabile, che fece impallidire dal terrore il volto della ragazza e strappò un grido di spavento dalle sue labbra ridenti. Le aveva incidentalmente, additato una colonna di fumo azzurra che si levava dal fogliame autunnale cui era stato appiccato il fuoco e che faceva un effetto pittoresco contro i tetti rossi, era poi corso verso il muro e l’aveva chiamata a sè per osservare insieme le fiamme che salivano qua e là attraverso al cumulo di rifiuti. Alla vista di ciò, come colta di sorpresa, la faccia di lei si era paurosamente alterata. Era fuggita come il vento dal lato opposto, gridando frasi incoerenti e selvagge, di cui egli non aveva afferrato una sola parola, tranne che il fuoco evidentemente la spaventava, e doveva subito allontanarsene, cercando di allontanare lui pure.

Cinque minuti dopo, era di nuovo calma e felice come se nulla fosse accaduto, ed avevano entrambi dimenticato l’incidente.

Sedettero sui bastioni ascoltando insieme l’incantevole musica dell’orchestrina. Quella musica lo commosse di nuovo profondamente. Cercò di sciogliere la lingua e di usare il suo miglior francese. La ragazza stava appoggiata alle pietre, stretta al suo fianco. Il luogo era deserto. Mosso da un impeto irresistibile, cominciò a balbettare qualche cosa della strana ammirazione che sentiva per lei. Alla prima parola essa saltò agilmente dal muro e si volse a lui sorridente. Come al solito, era senza cappello, e il sole le illuminava i capelli e una parte della guancia e del collo.

«Oh, sono tanto contenta!» esclamò, passandogli le piccole mani sul viso con una carezza leggera, «tanto contenta, poichè, se mi volete bene, dovete pure amare ciò che faccio e l’ambiente in cui vivo».

Allora egli si pentì di aver perduto la padronanza di sè. Aveva paura di imbarcarsi su di un mare sconosciuto e pericoloso.

«Prenderete parte alla nostra vita reale, vero?», domandò con delicatezza, indescrivibilmente carezzevole nei modi, come se avesse notato la sua esitazione. «Ritornerete fra noi?».

Già quella bambina sembrava dominarlo. Sentì che la forza di lei lo sopraffaceva sempre più. Qualche cosa che emanava da lei aveva presa sui suoi sensi e lo avvertiva che la personalità di lei, con tutta la sua semplice grazia, conteneva forze cospicue, imponenti, imperiose. La rivedeva muoversi attraverso fumo e fiamme in mezzo a uno scenario sconvolto e tempestoso, travolgente nella sua forza, con la sua terribile madre al fianco. Questo traspariva oscuramente dal suo sorriso e dalla sua apparenza d’incantevole innocenza.

«Lo farete, lo so!» ripetè, incatenandolo con gli occhi.

Erano completamente soli, lassù, sui bastioni, e la sensazione che essa stava per dominarlo, eccitò una selvaggia sensualità nel suo sangue. Abbandono e riserva si avvicendavano in lei, e questo lo attraeva furiosamente. Tutto quanto era in lui di virile si ribellò e resistette alla subdola influenza, al tempo stesso secondandola col pieno diletto della sua giovinezza lontana. Un irresistibile desiderio lo invase di interrogarla, di raccogliere quanto ancora gli rimaneva della sua piccola personalità, in uno sforzo di conservare il diritto del suo io.

La ragazza si era acquetata, e stava ora appoggiata sull’ampio muro, stretta al suo fianco, guardando sulla pianura che sempre più si oscurava, immobile come una figura scolpita nella pietra.

«Ditemi, Ilse!», proruppe egli, facendosi coraggio ed imitando senza saperlo la stessa dolcezza avvolgente e felina della voce di lei, «che cosa significa questa città, e qual’è questa vita reale di cui parlate? Perchè la gente mi osserva da mattina a sera? Ditemi cosa significhi tutto ciò! E, ditemi», soggiunse precipitato, con voce appassionata, «che cosa… che cosa siete voi stessa?».

Essa volse la testa e lo guardò attraverso le palpebre semichiuse, mentre l’eccitazione traspariva dal colorito attenuato che come un’ombra le velava il viso.

«Mi sembra», ed egli si impappinò buffamente sotto lo sguardo di lei, «che avrei qualche diritto di sapere…».

Improvvisamente essa sgranò gli occhi come stupita: «Voi mi amate dunque?» chiese teneramente.

«Lo giuro!», egli esclamò impetuosamente, spinto da una forza irresistibile. «Non ho mai sentito prima d’ora… non ho mai conosciuto un’altra ragazza, che…».

«Allora avete il diritto di sapere», essa interruppe, «poichè l’amore divide tutti i segreti».

Essa fece una pausa, e un brivido lo percorse tutto. Quella sospensione era una cosa atroce. Sentiva una felicità radiosa, seguita quasi allo stesso istante, in orribile contrasto, dal pensiero della morte. Si accorse che essa aveva volto gli occhi verso di lui e stava di nuovo parlando.

«La vita reale», essa bisbigliò, «è la vecchia, la vecchia vita interiore, la vita di molto tempo fa, la vita alla quale voi pure altra volta avete appartenuto, e alla quale tuttora appartenete».

Una lieve onda di ricordi turbò le profondità dell’anima di Vezin quando la voce di lei gli penetrò nell’animo. Egli sapeva per istinto che quello che essa stava dicendo era vero, anche se non poteva comprenderne tutta la portata. La sua vita sembrava abbandonarlo mentre ascoltava, sommergendo la sua personalità in un’altra molto più antica, e più vasta. Era questa perdita del suo io attuale che gli ispirava il pensiero della morte.

«Siete arrivato qui», essa continuò, «col proposito di cercarla. La gente ha sentito la vostra presenza ed è in attesa di conoscere la vostra decisione, se cioè volete lasciarci senza averla trovata, o se…».

Gli occhi di lei rimasero fissi in quelli di lui, ma il suo volto cominciò a mutarsi. Pareva diventasse sempre più grande e oscuro assumendo una espressione di età avanzata.

«I loro pensieri, che costantemente si occupano dell’anima vostra, vi dànno la sensazione che essi vi sorveglino. Non vi sorvegliano coi loro occhi. I propositi della loro vita interiore vi chiamano, vi reclamano. Fate tutti parte della stessa vita, di molto molto tempo fa, ed ora vi vogliono di nuovo, di ritorno tra loro».

Il cuore timido di Vezin venne meno dal terrore mentre ascoltava; ma gli occhi della ragazza lo sostenevano e lo trattenevano come una rete intessuta di gioia. Non sentiva nemmeno il desiderio di sfuggire. Essa lo affascinava, isolandolo dalla sua normale personalità.

«Da sola, la gente non avrebbe mai potuto attirarvi nè trattenervi», essa proseguì. «La forza motrice non era forte abbastanza; è svanita nel corso degli anni. Ma io» e fece una breve pausa, guardandolo con una confidenza completa nei suoi splendidi occhi, «io ho il potere, il fascino, di dominarvi e trattenervi: il fascino e l’incantesimo di un antico amore. Posso riconquistarvi e farvi vivere l’antica vita con me, poichè la forza dell’antico legame tra noi, se voglio usarla, è irresistibile. E io voglio usarla. Ho ancora bisogno di voi. E voi, anima cara del mio tenebroso passato» e gli si strinse più appresso, mentre il suo respiro gli sfiorò gli occhi, e la sua voce cantava, «voglio riavervi, poichè mi amate e vi trovate sempre in mio potere!».

Vezin sentiva, e non sentiva; comprendeva, e non comprendeva. Era passato ad uno stato di esaltazione. Il mondo gli si era fatto di musica e di fiori sotto i piedi. Volava chissà dove, lontano, attraverso la luce solare, in un’atmosfera di pura gioia. Era senza respiro, stordito dall’incanto delle parole di lei. La sua voce lo intossicava. E nel frattempo, il terrore di tutto quello che udiva, lo spaventevole pensiero della morte, premeva sempre, dietro le frasi di lei. Fiamme sembravano levarsi dalla voce di lei, in un fumo nero, e gli lambivano l’anima.

Comunicavano fra loro, gli pareva, per un fenomeno di rapida telepatia, poichè il francese di lui non avrebbe mai potuto esprimere quanto le diceva. Eppure essa comprendeva alla perfezione, e quello che gli diceva era come la recita di versi noti da lungo tempo. Quell’avvicendarsi di pena e dolcezza era più di quanto la sua piccola anima potesse sopportare.

«Eppure, sono venuto qui per puro caso…» disse esitando.

«No!», essa esclamò con passione. «Siete venuto qui perchè vi ho chiamato. Vi ho chiamato per anni. Siete venuto con tutta la forza del passato dietro di voi. Dovevate venire, perchè sono vostra padrona, e vi reclamo».

Si alzò e gli si avvicinò ancor di più, guardandolo con una certa insolenza nel volto, l’insolenza della forza.

Il sole era tramontato dietro i campanili dell’antica cattedrale. Il buio avanzava dalla pianura e li avvolgeva. La musica della banda era cessata. Le foglie dei platani pendevano immobili, ma il freddo della serata autunnale si faceva sentire e faceva rabbrividire Vezin. Non c’era altro rumore all’infuori del suono delle loro voci e il morbido fruscio del vestito della ragazza. Egli poteva sentire il sangue battergli alle tempia. Quasi non si rendeva conto dove si trovasse e che stesse facendo. Un terribile incanto dell’immaginazione dal più profondo del suo essere, gli diceva che le parole di lei riflettevano la verità. E quella semplice ragazza francese, che parlava accanto a lui con un’autorità così strana, egli la vedeva curiosamente mutarsi in un essere del tutto diverso. Mentre la guardava negli occhi, il quadro nella mente di lui cresceva e viveva, sistemandosi vividamente nella visione interiore, con un grado di realtà che era costretto a riconoscere. Come già una volta, prima di allora, egli la vedeva nuovamente alta e maestosa, passare attraverso uno scenario selvaggio e sconvolto di foreste e caverne di montagna, con un bagliore di fiamme dietro la testa e nuvole di fumo cangiante intorno ai piedi. Oscure foglie le cingevano la chioma svolazzante, sciolta al vento, e le membra trasparivano attraverso la veste ridotta a brandelli. Altri erano pure intorno a lei, e occhi ardenti, da tutti i lati, lanciavano sguardi deliranti su di lei. Ma gli occhi suoi erano sempre rivolti verso uno solo, uno che essa teneva per mano. Essa dirigeva la danza in un’orgia tempestosa, accompagnata dalla musica, e dal canto di una quantità di voci, e la danza che conduceva girava intorno a una grande e macabra figura seduta su un trono, che sovrastava sulla scena attraverso luridi vapori, mentre innumerevoli visi e forme selvagge si affollavano furiosamente intorno a lei, nella ridda. Ma colui che essa teneva per mano era lui stesso, e la mostruosa figura sul trono era la madre di lei.

La visione sorgeva nel suo interno, ritornando a lui con impeto attraverso i lunghi anni d’un tempo sepolto, gridando a voce altissima, la voce della memoria ridestata… Poi la scena svanì, ed egli vide il chiaro cerchio degli occhi della ragazza guardare fermamente nei suoi, mentre ridiventava la piccola cara figliuola della locandiera, ed egli ritrovava la sua voce.

«E voi», sussurrò egli tremante «voi, bambina di visioni e incantamenti, com’è che mi stregate in questo modo, e mi dite che vi ho amata prima di avervi vista?».

Essa si levò in piedi accanto a lui in atteggiamento di rara dignità.

«Il richiamo del passato», disse; «e inoltre», soggiunse altera, «nella vita reale sono una principessa…».

«Una principessa!» egli esclamò.

«…e mia madre è una regina!»

A sentir questo, il piccolo Vezin perdette completamente la testa. La gioia gli inondò il cuore e lo trascinò nella pura estasi. Quella dolce voce incantevole, e quelle adorabili piccole labbra fecero traboccare la bilancia. Egli la prese fra le braccia e le coprì il viso di baci appassionati, mentr’ella non opponeva alcuna resistenza.

Mentre così faceva, e mentre l’ardente passione lo inondava, egli sentiva tuttavia che essa era molle e schifosa, e che i baci che essa gli ricambiava macchiavano la sua stessa anima… Quando essa si svincolò da lui e dileguò nel buio, egli rimase là, appoggiato contro il muro in uno stato di collasso, ritraendosi con orrore dal contatto del corpo arrendevole di lei, adirato con sè per la debolezza che egli già oscuramente riconosceva foriera del suo stesso disfacimento.

E dalle ombre delle vecchie case, in cui essa scomparve, si levò nel silenzio della notte, uno strano grido prolungato, che gli parve dapprima una risata, ma in cui riconobbe poi, ne era certo, il lamento quasi umano di una gatta.

V

Per lungo tempo Vezin rimase là, appoggiato al muro, solo coi suoi pensieri e le sue emozioni tumultuanti. Comprendeva infine di aver fatto la sola cosa necessaria ad evocare in sè tutta la forza dell’antico passato. In quei baci appassionati aveva riconosciuto il groviglio di giorni antichi, da lui vissuti. Il ricordo di quella morbida, impalpabile carezza nel buio del corridoio della locanda, ritornò a lui con un brivido. La ragazza dapprima lo aveva dominato, e lo aveva poi portato all’unico atto, indispensabile allo scopo cui tendeva. Era stato ingannato, dopo lo spazio di secoli… afferrato e dominato.

La cattedrale appariva irreale, immersa in una nebbia argentea. Egli camminava piano, celandosi nell’ombra. Ma le vie erano deserte e silenziose, le porte chiuse, le imposte sbarrate. Non un’anima si muoveva. Il silenzio della notte avvolgeva ogni cosa. Era come una città di morti, un cimitero dalle lapidi gigantesche, grottesche.

Chiedendosi dove tutta la vita affaccendata del giorno fosse così completamente scomparsa, egli si avviò verso una porta posteriore per dove si entrava nella locanda attraverso le stalle, pensando di raggiungere in tal modo la sua camera senza essere osservato.

Raggiunse sano e salvo il cortile e lo attraversò, mantenendosi nell’ombra del muro. Camminava di fianco, sulla punta dei piedi, proprio come avevano fatto quei vecchi quando erano entrati nella sala da pranzo. Inorridiva, accorgendosi di far questo istintivamente. Uno strano impulso lo coglieva, in qualche modo, nel centro del corpo… l’impulso di buttarsi carponi per avanzare più presto e più silenziosamente. Guardò in alto, e gli venne l’idea di fare un salto sul davanzale lassù, invece di salire e girare per le scale. Questo gli si presentava come la via più facile, e più naturale. Era come il principio di una orribile trasformazione in qualche cosa d’altro. Era paurosamente sospeso verso una orribile attesa.

La luna stava ora più in alto. Le ombre erano molto oscure al lato della via. Infilò istintivamente quelle più profonde, e raggiunse il portico.

Ma il portico era illuminato. Gli ospiti, sfortunatamente, vi si trovavano ancora. Nella speranza di poter svignarsela attraverso la sala senza essere osservato e raggiunger le scale, egli aprì cautamente la porta e sgusciò dentro. Allora vide che la sala non era vuota. Una gran cosa scura giaceva contro la parete alla sua sinistra. Pensò dapprima che fossero degli articoli casalinghi. Poi la cosa si mosse, e pensò allora che fosse un immenso gatto, sfigurato in qualche modo dal giuoco fra luce ed ombra. Poi quella massa sorse, dritta dinnanzi a lui, ed egli, vide alfine che era la proprietaria.

Che cosa stesse facendo in quella posizione, su ciò poteva solo osare una spaventevole supposizione, ma nel momento che essa si alzò e lo guardò, egli si accorse che una terribile dignità l’avvolgeva tutta tanto da ricordargli le strane parole della ragazza, che essa fosse cioè una regina. Gigantesca e sinistra, stava là, sotto la piccola lampada ad olio; sola con lui nella sala vuota. Il terrore gli fece sussultare il cuore, e sorgere il ricordo di qualche antica paura. Sentiva che doveva inchinarsi davanti a lei e fare atto di sottomissione. L’impulso era violento e irresistibile, come contratto per lunga abitudine. Si guardò rapidamente intorno. Non c’era nessuno. Poi, deliberatamente abbassò il capo in direzione di lei e le fece un inchino.

«Finalmente! Il signore si è dunque deciso! Va bene, allora. Ne sono ben lieta!».

Le parole di lei gli arrivarono sonore come attraverso un ampio spazio aperto.

Poi la grande figura gli mosse subito incontro attraverso la sala e gli afferrò le mani tremanti. Un potere opprimente emanava da lei e lo teneva avvinto.

«Possiamo fare un giretto insieme, non è vero? Vi andiamo questa notte, ed occorre esercitarsi un po’, prima. Ilse, Ilse, vieni dunque! Vieni presto!».

E lo fece girare nei passi introduttivi di una danza che gli sembrò stranamente e orribilmente familiare. Non faceva nessun rumore sul pavimento, quella loro coppia, così grottescamente combinata. Tutto era sommesso e furtivo. Poi, mentre l’aria sembrava condensarsi come fumo e un rosso bagliore come di fiamma vi guizzava di traverso, egli si rese conto che qualcun altro si era unito a loro e che la sua mano, che la madre aveva lasciata andare, era ora stretta da quella della figlia. Ilse era accorsa in risposta alla chiamata, ed egli la vide con foglie di verbena avviticchiate nei capelli scuri, avvolta da brandelli rimasti da qualche curioso vestito, bella come la notte e orribilmente, odiosamente, schifosamente seducente.

«Al Sabba! al Sabba!» gridavano. «Su, al Sabba delle Streghe!».

Danzarono in su e in giù, per quella sala piuttosto stretta, le donne ai suoi fianchi, sino al ritmo più selvaggio che avesse mai immaginato, ma che oscuramente, paurosamente, ricordava, finchè la lampada appesa alla parete si agitò e si spense ed essi si trovarono nel buio perfetto. Il demonio vegliava nel suo cuore, con una infinità di suggerimenti infami che lo riempivano di terrore.

Improvvisamente esse lasciarono le sue mani ed egli udì la voce della madre gridare che era l’ora, e che dovevano andarsene. Quale via prendessero egli non ebbe nè tempo, nè modo di vedere. Si accorse soltanto che era libero, ed avanzò tentoni attraverso l’oscurità, finchè trovò le scale, che infilò barcollante, fuggendo poi sino alla sua camera, come se tutto l’inferno gli fosse alle calcagna.

Là si lasciò cadere sul divano, con la faccia tra le mani, gemendo. Diede una rapida scorsa mentale a una dozzina di espedienti per una fuga immediata, tutti ugualmente impossibili, e decise finalmente che l’unica cosa da farsi, per il momento, era di starsene tranquillamente seduto, ed attendere. Doveva vedere cosa stesse per accadere. Almeno nella riservatezza della propria stanza da letto, avrebbe ben dovuto essere salvo. La porta era chiusa a chiave. Allora si fece coraggio e aprì cautamente la finestra che dava sul cortile e permetteva anche una vista parziale della sala, attraverso le porte a vetri.

Mentre così faceva, un ronzìo e mormorìo di grande attività gli giunse alle orecchie. Il suono di passi e di voci, attutiti dalla distanza. Si sporse cautamente e ascoltò. La luce della luna era ora chiara e intensa, ma la finestra su era nell’ombra, il disco d’argento essendo ancora dietro la casa. Gli venne irresistibile l’idea che gli abitanti della città, che un istante prima erano tutti invisibili dietro le porte chiuse, stessero ora per uscire, occupati in qualche segreta odiosa incombenza. Ascoltò attentamente.

Dapprima tutto, intorno a lui, fu silenzio. Ma ben presto si accorse di movimenti che si susseguivano nella casa stessa. Fruscii e cigolii lo raggiungevano attraverso quel cortile silenzioso, inondato dalla luna. Un gruppo di esseri viventi mandava il brusìo della loro attività nella notte. Le cose erano in moto dappertutto. Un odore mordente, pungente, si levava nell’aria, proveniente chissà da dove. Ora i suoi occhi rimanevano appiccicati alle finestre della parete opposta, su cui il chiaro di luna batteva con mite splendore. Vedeva le figure di corpi oscuri muoversi a lungi passi sopra i tetti e lungo le grondaie. Passavano svelte e silenziose, sotto forma di immensi gatti, in una interminabile processione. Poi sembravano discendere a un livello inferiore dove li perdeva di vista. Avvertì ancora il lieve fruscìo dei loro salti. Talvolta le loro ombre si proiettavano sui bianchi muri di rimpetto, e allora non sapeva rendersi conto se fossero ombre di esseri umani o di gatti. Sembravano cambiare rapidamente da una forma all’altra. La trasformazione sembrava orribilmente reale, poichè saltavano subito nell’aria, e cadevano come animali.

Il cortile pure, sotto di lui, era ora animato dai movimenti striscianti di forme oscure, tutte sguscianti furtivamente verso il portico dalle porte di vetro. Si mantenevano talmente contro il muro, che non riusciva a distinguere la loro vera forma, ma quando le vide inoltrarsi verso il grande convegno che stava per addensarsi nella sala, comprese che erano queste le creature le cui ombre balzanti aveva prima viste sulla parete di fronte. Arrivavano da tutte le parti della città, raggiungendo il luogo di convegno stabilito, attraverso i tetti, balzando dall’uno all’altro, sino ad arrivare al cortile.

In quel momento, un nuovo suono gli giunse all’orecchio, vide che tutte le finestre intorno a lui si aprivano pian piano e che ad ogni finestra si affacciava un volto. Un momento dopo delle figure cominciarono a lasciarsi cadere svelte giù nel cortile. E quelle figure, mentre si staccavano dalle finestre, erano umane; ma una volta nel cortile, vi cadevano carponi e si trasformavano in un batter d’occhio in… gatti… giganteschi, gatti silenziosi. E tutti correvano a frotte per raggiungere il punto di confluenza, laggiù nella sala.

Così, dopo tutto, le stanze nella casa non erano affatto vuote e sfitte.

Inoltre, ciò che vedeva, non lo riempiva più di stupore. Poichè ricordava tutto ciò. Tutto gli era familiare. Tutto si era svolto proprio così; centinaia di volte, ed egli stesso vi aveva preso parte e ne aveva conosciuto la selvaggia follìa. I contorni dell’antico stabile cambiarono, il cortile si ampliò, e gli parve di guardare laggiù da un’altezza molto maggiore, attraverso vapori fumosi. E, mentre guardava, a metà ricordando, le antiche pene d’un tempo molto lontano, atroci e dolci, lo assalirono furiosamente, e il sangue gli si agitò orribilmente quando riudì nel suo cuore l’invito alla danza e provò ancora una volta l’antica magìa di Ilse, turbinante al suo fianco.

Improvvisamente, balzò indietro. Un grosso gatto flessuoso aveva mollemente spiccato un salto dalle ombre laggiù, raggiungendo il davanzale e quasi la faccia di lui. Gli occhi dell’animale lo guardarono con l’espressione di un essere umano. «Vieni», sembrava dire, «ricongiungiti alla nostra danza! Trasformati come ai tempi antichi! Fa presto, e vieni!». Anche troppo bene egli comprese il muto invito.

Era lei! E se n’era andata di nuovo, in un batter d’occhio, quasi senza far rumore, con le zampe ovattate sulle pietre. Poi, altri, una ventina circa, si lasciarono cadere dal fianco della casa, passandogli quasi davanti agli occhi, e tutti si trasformavano nel cadere, e fuggivano, rapidamente e mollemente, versò il punto di convegno. Di nuovo, sentì il pauroso desiderio di fare altrettanto, di mormorare l’antico incantesimo, e poi lasciarsi cadere su mani e ginocchia e correre svelto per spiccare il gran salto volante nell’aria. Quella brama sorgeva nel suo intimo, come una marea, sconvolgendogli le forze interne, facendo divampare le fiamme della passione e disperdendole nella notte, verso la danza antica degli stregoni, nel Sabba delle Streghe! Il turbinìo delle stelle lo avvolgeva. Ancora una volta subì il fascino della luna. La forza del vento scatenato sulle gole e sulle foreste, rimbalzante di rupe in rupe attraverso le valli, lo trascinava… Sentiva il grido dei danzatori e le loro risate, e con quella ragazza selvaggia fra le braccia, danzava furiosamente intorno al trono tenebroso…

Poi, improvvisamente, tutto si attutì e ammutolì. La febbre diminuì un po’ nel suo cuore. La calma luce lunare inondò il cortile vuoto e deserto. Erano partiti. La processione era scomparsa nel cielo. Ed egli si ritrovò… solo.

Camminò mollemente, sulla punta dei piedi, attraverso la stanza, e aprì la porta. Il mormorìo dalle vie, che cresceva mentre avanzava, gli raggiunse l’orecchio. Si avviò con la massima cautela lungo il corridoio. Al pianerottolo, sopra le scale si fermò ad ascoltare. Sotto di lui, la sala dove si era svolta l’adunanza era buia e silenziosa, ma attraverso porte e finestre, aperte sul lato più distante del fabbricato, arrivò sino a lui il suono di una grande folla che sempre più si allontanava.

Si incamminò giù, per le scale di legno, scricchiolanti, temendo eppur bramando di incontrare qualche ritardatario che gli indicasse la via, ma non ne incontrò alcuno. Attraversò la sala buia, poco prima pigiata di cose viventi, in moto, e oltrepassò il portone che dava sulla strada. Non poteva credere di essere stato realmente lasciato indietro, veramente dimenticato. Gli pareva impossibile che gli si lasciasse, di proposito, la possibilità di fuggire. Questo lo rendeva perplesso.

Nervosamente si guardò intorno, in su e in giù per la strada. Poi, non scorgendo nulla, avanzò lentamente, sul marciapiede.

Tutta la città, mentre camminava, appariva vuota e deserta, come se un gran vento ne avesse spazzato via ogni cosa vivente. Le porte e le finestre delle case erano aperte nella notte; nulla vi si agitava. Il chiaro di luna e il silenzio incombevano su tutto. La notte lo avvolgeva come un mantello. L’aria, mite e fresca, gli accarezzava le guancie come il contatto di una grossa zampa pelosa. Si rincuorò e cominciò a camminare veloce, pur tenendosi ancora nell’ombra. In nessun punto potè scoprire il benchè minimo segno del grande, macabro esodo cui aveva assistito e che si era svolto or ora. La luna navigava in alto, nel cielo terso e sereno.

Quasi senza rendersene conto, attraversò la piazza del mercato e arrivò ai bastioni, da dove sapeva che una scorciatoia discendeva sulla strada maestra. Di là avrebbe potuto fuggire, in direzione di una delle altre piccole cittadine che si susseguivano verso settentrione, e di conseguenza, verso la ferrovia.

Ma prima sostò, e gettò uno sguardo sulla scena ai suoi piedi, dove la grande pianura si stendeva come una argentea carta geografica di qualche paese di sogno. Quella silenziosa bellezza gli inondava il cuore, accrescendo il suo senso di sbalordimento. Non un soffio si faceva percepire, le foglie dei platani pendevano immobili, i particolari più vicini si delineavano con la precisione del giorno. In lontananza, i campi e i boschi si confondevano e si sperdevano in un mare di nebbia.

Soltanto il proprio respiro gli dava una sensazione di vita ed egli rimase silenzioso, estatico, quando il suo sguardo si ritrasse dall’orizzonte e cadde sulla prospettiva più vicina, nella profondità della valle ai suoi piedi. Tutti i pendii più bassi della collina, che si trovavano riparati da chiarore lunare, ardevano come bragia, e attraverso quel bagliore egli vide innumerevoli forme in movimento, cangianti, dense e rapide tra gli interstizi degli alberi; mentre al di sopra, come foglie trascinate dal vento, distingueva altre figure, volanti, che per un attimo si libravano oscure contro il cielo e poi si abbassavano con grida e canti da incantesimo attraverso i rami nello spazio in fiamme.

Affascinato, guardò, e guardò lungamente, per un tempo che gli parve infinito. Poi, spinto da uno di quei terribili impulsi che sembravano dominarlo, si arrampicò rapidamente sul vertice dell’ampia cima, e rimase a guardare indeciso per un momento laddove la valle si apriva ai suoi piedi. In quello stesso istante, mentre stava così sospeso, un improvviso movimento fra l’ombra delle case lo colpì. Si volse, e vide la sagoma di un grosso animale saettare attraverso lo spazio dietro di lui. La vide correre come il vento e, giunta ai suoi piedi, levarsi al suo fianco, sopra i bastioni. Un brivido sembrò correre attraverso il chiaro di luna, e la vista gli tremò per un attimo. Il cuore gli palpitava paurosamente. Ilse stava accanto a lui, guardandolo nel volto.

Mentre essa stendeva le mani verso di lui vide che qualche oscura sostanza le macchiava la faccia e la pelle luccicante al chiaro di luna. Era avvolta di miseri indumenti a brandelli, che le conferivano tuttavia imponenza, ruta e verbena s’intrecciavano intorno alle sue tempie, i suoi occhi splendevano di una luce infernale. Egli potè a malapena dominare il selvaggio impulso di stringersela fra le braccia e saltare con lei, da quel punto vertiginoso, nella valle, laggiù.

«Guarda!» essa gridò, puntando con un braccio, dal quale svolazzavano i brandelli dell’abito agitati dal vento che aveva ripreso a soffiare, in direzione della foresta in fiamme, in lontananza. «Guarda, dove essi ci attendono! I boschi rivivono! Già vi si trovano i grandi, e la danza comincerà subito! Eccoti l’unguento! Ungiti e vieni!».

Benchè un momento prima il cielo fosse terso e sereno, mentre parlava, il volto della luna si offuscò e il vento cominciò a scuotere le creste dei platani ai suoi piedi. Raffiche lontane recarono il suono di canti e di urli rauchi, dai pendii più bassi della collina. L’odore pungente, che aveva già avvertito nel cortile della locanda, si levava ora nell’aria, intorno a lui.

«Trasformati! trasformati!» essa gridò di nuovo, mentre la voce le si attenuava come in un canto. «Sfregati bene la pelle prima di volare. Vieni! Vieni con me al Sabba, alla pazzia delle sue delizie furiose, al dolce abbandono del suo culto malvagio! Guarda! I grandi esseri sono già arrivati. Il terribile sacramento è pronto! Il trono è occupato. Ungiti e vieni! Ungiti e vieni!».

Essa aumentò di dimensioni sino a raggiungere l’altezza d’un albero vicino a lui, saltellando sul muro, con occhi di bragia e la chioma sparsa nella notte. Egli pure cominciò ben presto a mutarsi. Le mani di lei gli toccavano la pelle del volto e del collo, spalmandolo di un unguento ardente che gli infondeva l’antica magia nel sangue, col potere che tutto distrugge, del buono e del bene.

Un urlo selvaggio risuonò al suo orecchio dal profondo del bosco, e la ragazza, nell’udirlo, saltellò sul muro, nella frenesia della sua gioia perversa.

«Vi è Satana!» essa gridò avventandoglisi contro e cercando di trascinarlo con sè sull’orlo del muro. «Satana è venuto! I sacramenti ci chiamano! Vieni, con la tua cara anima dannata, e noi adoreremo e danzeremo finchè non morirà la luna e il mondo non sarà dimenticato!».

Salvatosi appena dal pauroso tuffo, Vezin cercò di liberarsi dalla stretta frenetica di lei, mentre la passione gli sconvolgeva i sensi e tutto lo soggiogava. Gridò forte, senza sapere che cosa, poi gridò di nuovo. Erano gli antichi impulsi, le vecchie, spaventevoli abitudini. Esse trovavano istintivamente il loro sfogo, la loro voce. Poichè, sebbene gli sembrasse di non gridare che delle cose insensate, le parole che pronunciava racchiudevano realmente un senso, ed erano intelligibili. Era l’antica invocazione. E fu udita, laggiù. Vi fu risposto!

Il vento sibilava nelle pieghe del suo soprabito quando l’aria intorno a lui si offuscò per molte forme volanti che si affollavano, su, dalla valle. Le grida di voci rauche gli rintronarono le orecchie, sempre più vicine. Raffiche di vento lo schiaffeggiavano, trascinandolo lungo la sommità diroccata del muro di pietra. Ilse gli stava avvinghiata, con le lunghe braccia lucenti, carezzevoli e nude, tenendolo stretto intorno al collo. Ma non Ilse sola, poichè una dozzina di loro lo circondavano, lasciandosi cadere dall’aria. L’odore pungente dei corpi unti lo soffocava, lo eccitava all’antica follia del Sabba, alla danza delle streghe e degli stregoni, per rendere onore al male personificato del mondo.

«Ungiti e vieni! Ungiti e vieni!» gridavano tutti in un coro selvaggio intorno a lui. «Alla danza che non muore mai! Alla dolce e terribile fantasia del male!».

Un altro momento, ed avrebbe ceduto, e sarebbe andato, poichè la sua volontà si faceva arrendevole e la marea di ricordi appassionati lo inondava… Ma in quel momento, pose il piede su una pietra crollante dall’orlo del muro, e cadde con improvviso fracasso sul fondo sottostante. Ma cadde dalla parte delle case, nello spazio aperto di polvere e ghiaia, non nell’abisso spalancato della valle, dal lato opposto.

Ancora, essi lo circondarono in un mucchio rotolante, come mosche sopra una ghiottoneria, ma mentre si lasciavano cadere su di lui, egli si era liberato per un attimo dal potere malefico del loro contatto, e in quel breve attimo di libertà, gli balenò nella mente l’improvvisa intuizione che lo salvò. Prima che potesse di nuovo far uso dei piedi, li vide ritornare goffamente, brancolanti, sul muro, come se, a guisa di pipistrelli, potessero volare soltanto lasciandosi cadere dall’alto, e non avessero presa su di lui all’aperto. Ora vedendoli lassù appollaiati, in fila, come gatti su un tetto, tutti oscuri e informi, con gli occhi come lampade accese, l’improvviso ricordo gli ritornò nella mente, del terrore di Ilse alla vista del fuoco.

Rapidamente, come un fulmine, trovò i suoi fiammiferi, e appiccò il fuoco alle foglie secche, sotto il muro.

Disseccate e avvizzite esse presero fuoco immediatamente, e il vento portò la fiamma per lungo tratto lungo il muro, facendole nel suo percorso divampare verso l’alto. Con grida e gemiti, la fila di forme pigiate lassù sulla cresta del muro, se ne staccarono allora, scomparendo nell’aria, dall’altro lato, giù nel cuore della valle infestata, lasciandosi indietro Vezin senza fiato, tutto scosso dal terrore, nel mezzo dello spiazzo deserto.

«Ilse!» egli chiamò debolmente; «Ilse!» poichè il cuore gli doleva al pensiero che sarebbe veramente andata a partecipare alla grande danza senza di lui, e che avrebbe per sempre perduto l’occasione della sua macabra gioia. Ma, allo stesso tempo, il suo sollievo era tale e tanto, ed era talmente stordito e turbato, che quasi non sapeva che cosa dicesse, mentre follemente gridava nella violenza tempestosa della sua emozione…

Il fuoco continuava ad ardere, sotto il muro, e il chiaro di luna sbucò di nuovo, morbido e chiaro, dalla sua temporanea eclisse. Con un ultimo sguardo fremente ai bastioni in rovina, e con un sentimento di orrido stupore verso la valle infestata, laggiù, dove le sagome oscure ancora si pigiavano e volavano, egli volse la faccia verso la città e si avviò, lentamente, verso la locanda.

E mentre camminava, un alto frastuono di grida, e un suono rauco di urla, lo seguì per lungo tratto, dalla foresta ardente, laggiù, sempre più affievolendosi, col levarsi del vento, mentre egli scompariva tra le case.

VI

«Questa fine così improvvisa ed innocua potrebbe sembrarvi piuttosto rapida e incompleta.», disse Arturo Vezin, guardando con volto arrossato dall’emozione e con timidi occhi verso il Dr. Silence seduto ad ascoltarlo col taccuino tra le mani, «ma sta di fatto che… da quel momento la memoria mi è venuta a mancare. Non ho nessun distinto ricordo di come sia ritornato a casa e che cosa precisamente abbia fatto.

«Risulta che io non sia più ritornato alla locanda. Ricordo soltanto vagamente di aver corso per una lunga strada bianca, al chiaro di luna, passando per boschi e villaggi, silenziosi e deserti, fino al sorger dell’alba, di aver visto una città piuttosto grande e di essere finalmente arrivato a una stazione.

«Ma, molto tempo prima, ricordo che ho sostato in qualche punto della strada, e ho guardato indietro dove la cittadina sul colle si innalzava, nel chiaror della luna, e ho pensato che giaceva là, sulla pianura, proprio come un grosso gatto mostruoso, con le zampe anteriori gigantesche, che si incanalavano nelle due strade maestre, e i campanili gemelli, della cattedrale in rovina, che spiccavano, come orecchie lacere, contro il cielo. Questa apparizione rimane tuttora nella mia mente con la massima evidenza.

«Un’altra cosa rimane ancora nella mia mente, quella fuga… cioè; l’improvviso acuto ricordo di non aver pagato il conto, e la decisione che presi, stando là fermo sulla strada polverosa, che il piccolo bagaglio che avevo lasciato indietro, avrebbe più che coperto il mio debito.

«Per il resto posso soltanto dirvi che presi un caffelatte alla periferia di quella città dove ero arrivato, e che subito dopo infilai la via della stazione e presi un treno a giorno inoltrato. Quella stessa sera arrivai a Londra».

«E quanto tempo, in tutto», chiese il Dr. Silence tranquillamente, «ritenete di esservi fermato nella città della vostra avventura?».

Vezin alzò lo sguardo timidamente.

«Stavo per dirvelo», concluse, come per scusarsi. «A Londra mi accorsi di essere stato fuori solo una settimana. Ora, questo era inspiegabile… Mi ero fermato oltre una settimana nella città, e doveva essere il 15 settembre,… invece era soltanto il 10…».

«Perciò, in realtà vi sareste fermato soltanto una notte o due nella locanda?» domandò il dottore.

Vezin esitò prima di rispondere.

«Devo aver guadagnato tempo in qualche luogo…», disse infine «…in qualche luogo o in qualche modo. Certamente avevo una settimana a mio credito. Non so spiegarmelo. Posso soltanto comunicarvi il fatto».

«E ciò vi è accaduto l’anno scorso, dopodichè non siete mai più ritornato a quel luogo?».

«Sì! Mi è accaduto l’autunno scorso», mormorò Vezin. «E non ho mai osato ritornarvi. Credo che non ne sentirò mai il bisogno».

«E, ditemi», chiese il Dr. Silence infine, accorgendosi che il piccolo uomo era evidentemente arrivato al termine del suo racconto e non aveva più nulla da aggiungere, «non avete mai letto qualche cosa intorno alle antiche pratiche di stregoneria medioevale, o vi siete comunque interessato all’argomento?».

«Mai!» dichiarò Vezin decisamente. «Non ho mai pensato a cose simili, per quanto io sappia…».

«O alla questione della reincarnazione, forse?».

«Mai… prima della mia avventura; ma dopo, sì!», rispose in tono significativo.

C’era, comunque, ancora qualche cosa nella mente di quell’uomo, qualcosa di cui cercava di liberarsi con la confessione, ma che soltanto con difficoltà poteva decidersi a raccontare; fu soltanto dopo che il dottore si fu prodigato in incoraggiamenti pieni di tatto e di comprensione che finalmente entrò in argomento. Balbettò allora che desiderava mostrargli i segni che recava ancora al collo, dove, disse, la ragazza lo aveva toccato con le mani unte.

Si staccò il colletto dopo lunga, cauta esitazione, e abbassò un poco la camicia, per farsi esaminare dal dottore. E infatti, alla superficie della pelle, si propagava una leggera linea rossastra che dalla spalla si estendeva per breve tratto giù, per la schiena, verso la spina dorsale. Essa marcava esattamente la posizione che un braccio poteva aver occupato, all’atto dell’abbraccio. E dall’altra parte del collo, un po’ più in alto, vi era un segno simile, benchè non tanto chiaramente delineato.

«Ecco dove essa mi teneva quella notte, sui bastioni», sussurrò egli, mentre, una strana luce gli splendeva e gli svaniva negli occhi.

Erano passate alcune settimane quando riebbi l’occasione di consultare il Dr. Silence intorno a un altro caso straordinario che mi era venuto sotto mano, e ci mettemmo a discutere, allora, la storia di Vezin. Da quando l’aveva ascoltata, il dottore aveva esperito delle indagini per proprio conto, e uno dei suoi segretari aveva scoperto che gli antenati di Vezin erano effettivamente vissuti per delle generazioni in quella stessa città in cui aveva avuto luogo l’avventura. Due di loro, entrambi donne, erano state processate e convintenota 1 come streghe, ed erano state arse vive sul rogo. Inoltre non era difficile dimostrare che la stessa locanda in cui Vezin si era fermato, era stata costruita verso il 1700 sul punto stesso in cui erano stati eretti i palchi del supplizio e l’esecuzione aveva avuto luogo. La città era stata una specie di quartiere generale di tutti gli stregoni e streghe della regione e, dopo i loro processi, vi erano stati arsi a decine, sul rogo.

«Sembra strano», disse il dottore, «che Vezin sia rimasto all’oscuro di tutto questo; ma, d’altronde, sono inclino a pensare che tuttora non ne sappia nulla.

«L’avventura dev’essere stata un’assai intensa reviviscienza dei ricordi di una vita anteriore, provocata dalla presa di contatto diretta con le forze viventi, ancora abbastanza deste da rimanere sospese in quel luogo, e, per un caso assai singolare, con quelle stesse anime che avevano preso parte con lui agli avvenimenti di quella vita particolare. Poichè la madre e la figlia, che lo avevano impressionato tanto stranamente, devono esser state delle protagoniste di primo piano, con lui stesso, nelle scene e nelle pratiche di stregoneria, che in quell’epoca domivano le immaginazioni di tutto il paese.

«Basta legger le storie di quei tempi per sapere che quelle streghe reclamavano il potere di trasformarsi in vari animali, tanto per scopo di mascheramento come pure per portarsi più speditamente sulla scena delle loro orge immaginarie. La licantropia, o il potere di trasformarsi in lupi, era dovunque creduta e l’abilità di trasformarsi in gatti con lo spalmarsi il corpo con un unguento speciale fornito da Satana, trovava altrettanto credito. I processi di stregoneria abbondano di narrazioni di simili universali credenze».

Il Dr. Silence citò capitolo e capoverso di molti autori sull’argomento, e mostrò come ogni particolare dell’avventura di Vezin avesse una base nelle pratiche di quei giorni oscuri.

«Ma che tutta la vicenda si sia svolta soggettivamente nella coscienza di quell’uomo, su ciò non ho dubbi», egli proseguì, in risposta alle mie domande; «poichè il mio segretario, che è stato in quella città per investigare, ha scoperto la sua firma nell’albo dei visitatori, e dimostrò con ciò che egli vi era arrivato l’8 settembre, e ne era partito all’improvviso senza pagar il conto. Era partito due giorni dopo, le padrone erano tuttora in possesso della sua valigia e di qualche capo di vestiario da turismo. Pagai pochi franchi a saldo del suo debito, e gli feci spedire la sua roba. La figlia era assente da casa, ma la proprietaria, una donna d’un fisico imponente e proprio così com’egli l’aveva descritta, disse al mio segretario che gli era sembrato un tipo assai strano e dalla mente assente, e che dopo la sua scomparsa aveva temuto per molto tempo che egli avesse fatto qualche fine violenta, nella foresta vicina, dov’egli usava vagare solitario.

«Avrei avuto volentieri un incontro personale con la figlia, tanto per accertare quanto vi fosse di soggettivo e quanto effettivamente fosse avvenuto con lei, secondo il racconto di Vezin. Poichè il di lei terrore del fuoco e della sola sua vista, doveva, per forza di cose, derivare da un ricordo intuitivo della sua precedente orribile morte sul rogo, e spiegare perchè egli immaginasse più d’una volta che la vedeva attraverso fumo e fiamme».

«E quel segno sulla sua pelle, per esempio?», domandai.

«Puramente segni di meditazione isterica», rispose. «Come le stimmate delle religiose, e le ammaccature che appaiono sui corpi di soggetti ipnotizzati cui si sia detto che sono stati battuti. Ciò è molto comune e facile a spiegarsi. Piuttosto, sembra strano che questi segni si siano conservati tanto a lungo nel caso Vezin. Generalmente, scompaiono rapidamente».

«Evidentemente egli pensa tuttora a tutto ciò, meditando, e rivivendo tutto», arrischiai.

«Probabilmente. E ciò mi fa temere che egli non sia ancora giunto al termine del suo turbamento. Ne avremo di nuovo notizie. È un caso, purtroppo, in cui posso fare ben poco per alleviare le conseguenze!».

Il Dr. Silence parlava gravemente e con tristezza nella voce.

«E cosa pensate del francese nel treno?», domandai ancora. «L’uomo che lo aveva messo in guardia contro quel luogo, (a causa del sonno e a causa dei gatti)? Certo, un incidente assai singolare!».

«Un incidente singolare assai, infatti!», rispose lentamente. «E che saprei spiegarmi soltanto in base a una coincidenza assai poco probabile…».

«Cioè?».

«Che quello là fosse un uomo che a sua volta doveva aver dimorato in quella città e ivi stesso subìto un’esperienza analoga. M’interesserebbe trovare quell’uomo e interpellarlo. Ma il cercarlo non servirebbe a nulla, poichè non ne ho la minima traccia e posso soltanto concludere che qualche singolare affinità psichica, qualche forza tuttora attiva nel suo essere, derivante da quella stessa vita passata, lo abbia così attratto verso la personalità di Vezin, e messo in grado di temere ciò che avrebbe potuto accadere a lui stesso, e quindi di mettere in guardia l’altro, come ha fatto».

«Sì!», continuò, come parlando a sè stesso. «Sospetto in questo caso che Vezin sia stato trascinato nel vortice di forze provenienti dalle intense attività di una vita passata, ed abbia rivissuto una scena in cui egli spesso abbia avuto una parte importante secoli or sono. Poichè forti azioni generano forze tanto lente ad esaurirsi, che, in un certo senso, si può affermare che non muoiono mai. Nel caso attuale, esse non sono state abbastanza forti da rendere l’illusione completa, cosicchè il piccolo uomo è stato travolto da una confusione assai opprimente tra presente e passato. È stato tuttavia abbastanza sensitivo, da riconoscere che era realtà, e da lottare contro la degradazione di ritornare, sia pure nel solo ricordo, a uno stato precedente di inferiore sviluppo.

«Ah sì!» proseguì, attraversando la stanza per contemplare il cielo che si oscurava, e apparentemente del tutto dimentico della mia presenza. «Riaffioramenti subliminali di ricordi come questo, possono diventare estremamente dolorosi, e talvolta estremamente pericolasi. Spero tuttavia che quell’anima gentile possa quanto prima sottrarsi a quell’ossessione di un passato appassionato e tempestoso. Ma ne dubito, ne dubito assai!».

La sua voce era velata di tristezza, mentre parlava, e quando si voltò di nuovo verso la stanza, c’era nel suo volto l’espressione di una profonda tenerezza, la tenerezza di un’anima il cui desiderio di aiutare il prossimo supera talvolta le sue stesse umane possibilità.

Fine.


nota 1 – In originale “convicted” che però non significa convinte ma condannate. [Nota per l’edizione elettronica Manuzio].
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Vecchie stregonerie
AUTORE: Algernon Blackwood

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Il medico miracoloso : John Silence / Algernon Blackwood. - Milano : Bocca, 1946. - 390 p. ;
19 cm.

SOGGETTO: FIC009050 FICTION / Fantasy / Paranormale