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Considerata opera minore del Munthe, è in verità propedeutica al testo che gli diede fama mondiale e che è largamente noto anche oggi avendo avuto frequenti ristampe: Storia di San Michele. Incontriamo in questo Vagabondaggio i personaggi della sua opera maggiore: lo spazzino di Montparnasse Arcangelo Fusco, don Gaetano e suor Filomena, il drammaturgo mancato Monsieur Alfredo e la famiglia Salvatore. In questi racconti, apparentemente ingenui ma intessuti in realtà con fini risvolti psicologici e portatori di una sensibilità particolare ma toccante, appare la figura di Munthe in tutta la sua complessità e trasparenza.
Dice Curzio Malaparte, che Munthe conosceva bene e di cui era amico, nelle pagine iniziali di Kaputt: “Munthe teneva un cane lupo al guinzaglio, e, sebbene il cane apparisse mansueto, non appena egli mi vide di lontano fra gli alberi si mise a gridarmi di non avvicinarmi troppo. «Via! via!», gridava, facendo grandi gesti con la mano, ed esortava il cane a non saltarmi addosso, a non dilaniarmi le carni, fingendo di trattenerlo a fatica, di non poter reggere ai furiosi strappi di quella sua belva: la quale mi guardava avvicinarmi scodinzolando quieta e festosa, e io procedevo lentamente, con finta paura, lieto di prestarmi a quella innocente commedia.” Ecco come quindi possiamo leggere la vicenda che Munthe ci narra della perdita e ritrovamento del suo cane e dell’intenso suo rapporto con questo.
Poco più sotto Malaparte prosegue: “Axel Munthe, quando è di buon umore, si diverte a improvvisar maliziose scene per burlarsi degli amici. Ed era quello, forse, il suo primo giorno sereno dopo alcuni mesi di rabbiosa solitudine. Aveva trascorso un triste autunno, in preda ai suoi neri capricci, alle sue bizzose malinconie, per giorni e giorni chiuso nella sua torre, spolpata e rosicchiata, come un vecchio osso, dai denti aguzzi del libeccio, il vento che soffia da Ischia, e della tramontana, che porta fino a Capri l’acre odore di zolfo del Vesuvio; chiuso a chiave nella sua falsa prigione umida di salmastro, fra i suoi falsi quadri antichi, i suoi falsi marmi ellenici, le sue madonne quattrocentesche scolpite nel legno di qualche mobile Luigi XV.”
Vediamo qui il medico, burbero e sollecito, medico dei potenti, certo, ma sollecito e disponibile verso tutti quelli che ne hanno bisogno. E poi la sua sensibilità, acuta e personalissima, verso gli animali. Così ce la descrive sempre il Malaparte: “Ogni sera, verso il tramonto, egli esce dalla sua torre, s’inoltra a passi lenti e cauti fra gli alberi del parco, col suo mantellaccio verde sulle spalle, il suo cappelluccio buttato di traverso sui capelli arruffati, gli occhi nascosti dietro gli occhiali neri, finché giunge in un luogo, dove gli alberi più radi fan come uno specchio di cielo nell’erba: là si ferma, e diritto, magro, legnoso, simile a un antico tronco scarnito e inaridito dal sole, dal gelo, e dalle tempeste, un riso felice acquattato fra il pelo della sua barbetta di vecchio fauno, aspetta: e gli uccelli volano a lui a frotte, cinguettando affettuosi, gli si posano sulle spalle, sulle braccia, sul cappello, gli beccano il naso, le labbra, gli orecchi. Munthe riman così, diritto, immobile, a discorrere con i suoi piccoli amici nel dolce dialetto caprese, finché il sole tramonta, si tuffa nel mare azzurro e verde, e gli uccelli volano via al loro nido, tutti insieme, con un alto trillo di saluto.”
L’autore ritiene gli animali spesso migliori e più sinceri degli uomini. Con spirito decisamente nordico ritiene gli animali possessori di “anima”. Si astiene, fortunatamente, dal formulare idee lombrosiane sui criminali che saranno invece presenti nella sua opera più famosa, quando la malattia agli occhi indirizzerà le sue considerazioni verso malinconia, amarezza e presagio di morte. Da ricordare le pagine dove vediamo il medico Munthe impegnato nell’epidemia di colera che infierì su Napoli.
Ottima la traduzione di Gian Dàuli, riproposta anche recentemente con il titolo di Uomini e bestie (riprendendo il titolo dell’edizione francese dell’opera Hommes et bêtes) dalle edizioni La Conchiglia, privata dell’introduzione del traduttore sostituita da una breve presentazione della nipote di Munthe Katriona Munthe-Lindgren.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
L’avevo impegnato per l’anno. Veniva due volte la settimana e andava ripassando tutto il suo repertorio; e in ultimo a esecuzione finita, per la simpatia che aveva per me, suonava due volte di seguito il Miserere del «Trovatore», ch’era il suo pezzo favorito. Se ne stava là nel mezzo della strada, mentre suonava, guardando fisso la mia finestra, e quando aveva finito, si levava il cappello con un «Addio Signor!»
Ben si sa che l’organetto, come il violino, viene ad avere un tono completo e simpatico quanto più passa il tempo. Il vecchio sonatore aveva un eccellente strumento, non del rumoroso tipo moderno che imita un’orchestra intera con flauti campane e tamburi, ma un melanconico antico organetto che poteva esprimere da un sognante mistero al gaio allegretto, e nel cui più superbo e fragoroso tempo di marcia si sentiva un certo che di rassegnato. Nei più teneri pezzi del repertorio la melodia, soffocata e tremolante come la voce di un vecchio cantante da strada, si arrampicava nelle canne arrugginite degli acuti, e poi c’era un tremolo nei toni bassi che sembravano singulti soffocati. Di quando in quando la voce dello stanco organetto mancava completamente; allora il vecchio si rassegnava a spostare l’indice della suonata: ma quel motivo mancato era più commovente di qualunque musica, nel suo eloquente silenzio. È vero che l’istrumento era per se stesso molto ubbidiente, ma il vecchio certo influiva sulla tristezza che mi avvolgeva ogni volta sentivo la sua musica. Egli percorreva le vie del quartiere povero, dietro il Jardin de Plantes e spesso io durante il mio solitario vagabondaggio in quei dintorni, mi fermavo tra lo scarso uditorio di ragazzi cenciosi della strada che lo attorniavano.
Scarica gratis: Vagabondaggio di Axel Munthe.