Il medico miracoloso
John Silence
Caso I. Un’invasione psichica

di
Algernon Blackwood

tempo di lettura: 82 minuti


I

«Che cosa vi fa pensare che potrei essere utile in questo caso?» domandò il <Dr. Giovanni Silence, osservando un po’ scettico la signora svedese che sedeva dinanzi a lui.
«Il vostro cuore sensibile e la vostra competenza in occultismo».
«Per carità… che terribile parola!» interruppe il dottore con gesto impaziente.
«Ebbene, la vostra meravigliosa chiaroveggenza, allora, e la conoscenza psichica dei processi coi quali una persona può essere disintegrata e annientata… si tratta dei vostri strani studi di questi ultimi anni…».
«Se si tratta soltanto di un caso di personalità multipla, protesto sul serio», interruppe nuovamente il dottore con espressione seccata.
«No! Non è questo. Ascoltatemi, vi prego. Ho bisogno del vostro aiuto! Perdonate la mia ignoranza, se non mi so esprimere come vorrei, ed ascoltatemi con pazienza. Questo caso v’interesserà certamente. Nessun altro potrebbe occuparsene meglio di voi. Non ci sono in questi casi medici o medicine che possano ridare la pace perduta!».
«Il vostro caso comincia ad interessarmi!» disse a questo punto il dottore.
La signora Sivendson tirò un sospiro di soddisfazione quando lo vide uscire nel corridoio per dire alla domestica che non voleva essere disturbato.
«Credo abbiate già letto nei miei pensieri», disse: «la vostra intuizione di quanto si svolge nella mente altrui mette veramente paura».
Egli scosse il capo e sorrise, poi si appoggiò indietro sulla sedia e si dispose ad ascoltarla con gli occhi chiusi, come sempre faceva quando voleva comprendere il vero significato di un discorso espresso inadeguatamente.
Con questo metodo trovava più facile intonarsi ai pensieri viventi che si nascondono di solito dietro alle parole.
Dai suoi amici, Silence era considerato un originale, perchè, ricco e fortunato nella vita, faceva il medico per vocazione. Che un uomo indipendente di mezzi impiegasse il tempo a fare il medico, e di gente umile per di più, appariva loro incomprensibile. La nobiltà innata di un’anima, il cui spontaneo impulso era quello di aiutare coloro che non avevano risorse, li rendeva perplessi. Si irritavano, a questo suo modo di fare e, con sua grande soddisfazione, avevano finito per lasciarlo ai suoi progetti e ai suoi sogni.
Il <Dr. Silence era un fuori classe fra i medici. Non aveva nè ambulatorio, nè segretario, nè usanze professionali. Non riceveva compensi, perchè era in cuor suo un filantropo. D’altra parte, non suscitava rancori fra i colleghi, poichè non accettava che casi non rimunerativi, che lo interessavano per qualche ragione speciale. Pensava che i ricchi potevano pagare, che i veramente poveri potevano valersi della carità organizzata, ma che c’era anche una categoria numerosa di lavoratori mal retribuiti e dotati di amor proprio, che non potevano permettersi il lusso di un viaggetto ricreativo. Erano questi, che egli cercava di aiutare: casi che richiedevano spesso uno studio speciale e paziente… cosa naturalmente che nessun medico può offrire in cambio di una ghinea, e che nessuno si sognerebbe del resto di chiedergli.
C’era inoltre un altro lato della sua personalità che meritava di essere osservata da vicino. I casi che richiamavano la sua particolare attenzione, non erano casi comuni, bensì casi di quella natura inafferrabile, sfuggente ed estremamente difficile a curarsi, che vengono definiti col nome più appropriato di «affezioni psichiche». Benchè egli fosse ben lontano dall’approvare questo titolo, era tuttavia comunemente conosciuto come il «medico psichico».
Per riuscire in casi di tale natura, si era sottoposto a un lungo e severo allenamento, sia fisico che mentale e spirituale. In che cosa l’allenamento precisamente consistesse, o dove si svolgesse, nessuno lo sapeva, perchè non ne parlava mai. Il suo atteggiamento non aveva alcuna delle caratteristiche del ciarlatano. Il fatto ch’egli era totalmente scomparso dal mondo per ben cinque anni, e che, avendo iniziata al ritorno la sua singolare pratica, nessuno si era mai sognato di affibbiargli l’epiteto, così facile ad acquistarsi, di ciarlatano, garantiva in certo modo la serietà delle sue strane ricerche e per l’attendibilità delle sue realizzazioni.
Per i moderni cultori di studi psichici, sentiva la calma tolleranza dell’«uomo che sa». Malgrado ci fosse un accento di commiserazione nella sua voce, non manifestava tuttavia alcun disprezzo quando parlava dei loro metodi.
«Questa classificazione di risultati è un lavoro privo d’ispirazione», diceva a me, che ero stato suo assistente di fiducia per parecchi anni. «Non porta nè porterà mai ad alcuna conclusione. Farà la brutta fine di un giocattolo pericoloso. Molto meglio sarebbe esaminare le cause, e allora i risultati ne deriverebbero spontaneamente, spiegandosi da soli. Le fonti sono accessibili e aperte per tutti coloro che abbiano il coraggio di vivere la vita che sola rende sicura e possibile ogni ricerca pratica».
Rispetto all’argomento della chiaroveggenza, la sua linea di condotta era altrettanto sana, e tanto più sorprendente, in quanto sapeva come fosse estremamente raro il potere genuino, mentre, ciò che comunemente passa per chiaroveggenza altro non è che una acuita facoltà visualizzante.
«Una sensibilità lievemente accresciuta, e nulla più», diceva. «Il vero chiaroveggente deplora il suo potere, ammette di aumentare di nuovi orrori la vita, ed è perciò di carattere triste».
Era così che il <Dr. Silence, questo medico così singolare ed evoluto, poteva scegliere i casi che facevano per lui con una chiara percezione della differenza esistente fra un’illusione meramente isterica e il tipo di malattia psichica che esigeva il suo specifico intervento. Non aveva mai bisogno di ricorrere ai gratuiti misteri della divinazione; poichè, come l’ho udito osservare, dopo la soluzione di qualche problema particolarmente intricato:
«I sistemi della divinazione, dalla geomanzia sino alla lettura con le foglie di tè, non sono che altrettanti metodi per offuscare la visione esteriore, affinchè possa aprirsi quella interiore. Una volta afferrato il metodo, ogni sistema è superfluo».
Le sue parole erano significative. La chiave del suo potere consisteva, in primo luogo, nella conoscenza che il pensiero può agire a distanza e, in secondo luogo, nella convinzione che il pensiero è dinamico e pertanto capace di portare a risultati concreti.
«Imparate come si deve pensare», diceva a questo proposito, «e saprete attingere il potere alla sua sorgente prima».
Aveva allora superato la quarantina; era di costituzione piuttosto delicata, dagli occhi bruni parlanti che riflettevano la luce della conoscenza e della fiducia in sè, ed esprimevano l’affascinante dolcezza che tanto spesso si scorge negli occhi degli animali. Una folta barba nascondeva la bocca senza cancellare la maschia linea delle labbra e delle mascelle. Il suo volto, in un certo senso, dava un’impressione di trasparenza, quasi di luce, tanto finemente elaborati apparivano i lineamenti. Sulla bella fronte errava quell’indefinibile impressione di pace, che proviene dall’identificare la mente con quanto vi è di permanente nell’anima, e dal lasciare adito a quanto passa, senza ferire o affliggere; mentre dai suoi modi gentili, tranquilli e simpatici, pochi avrebbero sospettato l’energia dinamica, che gli ardeva nell’intimo come una fiamma.
«Credo che dovrei definirlo un caso psichico», continuò la signora svedese, evidentemente sforzandosi di spiegarsi il più chiaramente possibile, «e proprio del genere che fa per voi. Un caso, intendo, in cui la causa si trova nascosta in fondo a qualche disgrazia d’indole spirituale, e…».
«Prima i sintomi, prego, cara signora!», egli interruppe con serietà stranamente imperiosa, «le vostre deduzioni, in seguito».
Essa si volse e lo guardò nel viso, abbassando la voce per impedire che la sua emozione la tradisse:
«Secondo me, vi è un sintomo solo», bisbigliò, come se stesse per esprimere qualche cosa di sgradevole, «Paura… semplicemente paura!».
«Paura fisica?».
«Credo di no; benchè, come dovrei dire?… Credo si tratti di un orrore contratto nella regione psichica. Non è allucinazione nel senso comune. L’uomo è perfettamente sano; ma vive in un mortale terrore di qualche cosa…».
«Non so che intendiate per «regione psichica», disse il dottore con un sorriso; «Suppongo desideriate farmi comprendere che vengano colpiti i processi spirituali e non quelli mentali. Comunque, cercate di dirmi brevemente cosa ne sapete, dei suoi sintomi, del suo bisogno di aiuto, del mio peculiare aiuto, cioè. Tutto ciò, infine, che appare più importante, in questo caso. Ascolterò attentamente».
«Mi ci proverò», rispose la signora in tono secco, «ma dovrò farlo con le sole mie parole, e mi affido alla vostra intelligenza per cavarmi d’impaccio. Si tratta di un giovane scrittore, che vive in una casetta nella landa di Putney. Scrive dei racconti umoristici, d’un genere tutto suo. Pender, avrete forse inteso questo nome… Felice Pender. Aveva delle grandi doti. Il suo avvenire sembrava assicurato. Dico «aveva», poichè ad un tratto il suo talento è venuto completamente a mancare. Peggio ancora, si è trasformato nell’opposto. Non riesce più a scrivere un solo rigo in quel modo che gli procurava il successo…».
Il <Dr. Silence aprì gli occhi per un secondo e la guardò.
«Dunque scrive ancora. La forza non se n’è andata». Interloquì brevemente.
«Lavora come una furia», essa continuò, «senza però produrre nulla» essa esitò un istante «nulla che possa essergli utile. I suoi guadagni sono praticamente cessati. Conduce una vita precaria con la recensione di libri e con strane occupazioni… assai strane… Eppure, sono certa che il talento non lo ha abbandonato, ma sia soltanto…».
Di nuovo la signora Sivendson s’interruppe cercando il termine appropriato.
«In potenza», egli suggerì, senza aprire gli occhi.
«Compresso», essa proseguì, dopo un istante per pesare la parola, «soltanto compresso da qualche altra cosa…»
«Da qualcun altro»?
«Vorrei saperlo! So che è ossessionato, e il suo senso di umorismo viene per ora oscurato… posto da parte… soppiantato da qualche cosa di terrificante che gli fa scrivere altre cose. Se non si farà qualche cosa che convenga al suo caso, morirà senz’altro di deperimento. Eppure ha paura di andare da un medico, perchè teme che lo credano pazzo. Comunque sia, difficilmente si può pretendere da un medico che gli restituisca la sua vena di umorismo, non è vero?».
«Si è mai rivolto ad alcuno…?».
«A nessun medico, finora. A qualche sacerdote sì, e a persone religiose; ma sanno così poco e manifestano tanto poca comprensione…».
Il <Dr. Silence la troncò con un gesto.
«E come mai ne sapete tanto di lui?» domandò gentilmente.
«Conosco bene la Signora Pender… l’ho conosciuta prima che lo sposasse…».
«E forse sarebbe lei una delle cause?».
«Niente affatto! Gli è affezionata; una donna molto bene educata, pur non essendo molto intelligente, e dotata di tanto poco senso umoristico da mettersi a ridere nei momenti più inadatti. Ma non ha nulla a che fare con la disgrazia del marito. È stata lei, infatti, che ne ha afferrato qualche cosa nell’osservarlo. Egli ne parla poco. Si tratta, sapete, di un ragazzo veramente amabile, lavoratore, paziente… degno di esser salvato!».
Il <Dr. Silence aprì gli occhi e suonò per il tè. Non ne sapeva molto di più, di quell’umorista, di quanto ne sapesse prima; ma si rendeva conto che i discorsi della signora avrebbero potuto illuminarlo ben poco. Soltanto un incontro personale con lo scrittore avrebbe potuto essergli utile.
«Tutti gli umoristi meritano di essere salvati», disse sorridendo, mentre versava il tè, «non possiamo permettere di perderne uno solo in questi giorni tristi.. Verrò a visitare quanto prima il vostro amico».
Essa lo ringraziò con effusione mentr’egli cercava, con qualche difficoltà, di deviare la conversazione.
In seguito a questa conversazione, e a qualche cosa di più, ch’egli aveva raccolto per vie a lui note, il dottore si trovò un pomeriggio in automobile, verso la collina di Putney, per avere il suo primo incontro con Felice Pender, l’umorista caduto vittima di una misteriosa malattia nella «regione psichica», malattia che gli aveva rovinato il senso del comico e minacciava di distruggerne l’ingegno e forse la vita. Il suo desiderio di aiutare era probabilmente altrettanto intenso quanto quello di sapere e di studiare.
Il motore si fermò con un rombo sordo e il dottore, sceso dall’automobile, attraversò nella nebbia fitta il piccolo giardino. La casa era piccolissima, e passò parecchio tempo prima che qualcuno rispondesse al suono del campanello. Poi una luce apparve nel vestibolo, ed una donna piccola e avvenente, ritta sul gradino più alto, lo invitò ad entrare. Era vestita in grigio, aveva gli occhi rotondi come quelli di una bambina e la luce a gas faceva risaltare una folta capigliatura bionda, energicamente ravviata all’indietro. Uccelli imbalsamati, coperti di polvere, e una malconcia guarnizione di lance africane erano disposti dietro di lei. Un ampio attaccapanni di bronzo sovrastava una scala buia. La signora Pender lo salutò con un trasporto che a mala pena celava la sua emozione, sforzandosi di manifestare una cordialità naturale. Aveva evidentemente spiato il suo arrivo e gli aveva inviato incontro la domestica.
«Spero di non avervi fatto aspettare… Siete stato tanto buono a venire!…» disse, ma s’interruppe subito. C’era qualche cosa nello sguardo di lui, che non incoraggiava a parlare.
«Buona sera, Signora Pender», disse con un sorriso sereno che ispirava fiducia, ma escludeva le parole inutili, «la nebbia mi ha fatto tardare un po’. Sono lieto di vedervi».
Entrarono in una stanza elegantemente arredata ma in uno stato di disordine opprimente. Dei libri stavano allineati sulla cappa del camino, dove il fuoco era stato acceso da poco.
«La Signora Sivendson mi ha assicurato che sareste venuto», disse ancora la piccola donna levando verso di lui uno sguardo insinuante. «Ma non osavo crederlo. È davvero una grande bontà da parte vostra. Il caso di mio marito è talmente speciale!… Sono certissima che qualsiasi altro medico consiglierebbe il manicomio…».
«Non c’è qui vostro marito?», chiese cortesemente il <Dr. Silence.
«Sarà di ritorno fra poco», rispose. «Non vi attendevamo così presto… Mio marito credeva che non sareste affatto venuto».
«Sono sempre lieto di recarmi dove si ha veramente bisogno di me, e dove posso essere di aiuto». E aggiunse: «Forse, è meglio che vostro marito sia fuori. Poichè siamo soli, potrete dirmi qualche cosa sulle sue condizioni. Finora so molto poco di lui».
Mentre ella lo ringraziava con voce tremante, il dottore le sedette accanto e la incoraggiò a parlare.
«Sarà molto lusingato che siate venuto», cominciò la Signora Pender, parlando in fretta, nervosamente. «Siete la sola persona… l’unico medico… ch’egli abbia consentito a vedere. Sono molto preoccupata per lui. Pretende sia un semplice collasso nervoso… Ma non mi posso spiegare le cose strane che fa. La cosa principale, suppongo…».
«Ecco, la cosa principale, Signora Pender», incoraggiò il dottore notando la sua reticenza.
«…Crede che non siamo soli in casa. Ecco la cosa principale».
«Siate più precisa, signora. Raccontatemi i fatti».
«Cominciò l’estate scorsa, quando ritornai dall’Irlanda. Era rimasto qui solo per sei settimane, e mi sembrò subito stanco e strano, al mio ritorno… Era accigliato e dimagrito, e aveva dei modi insofferenti. Aveva scritto molto, ma l’ispirazione gli era venuta un po’ a mancare, ed era scontento del suo lavoro. Diceva che il suo senso di umorismo lo abbandonava, o si cambiava in qualcos’altro… C’era qualcosa in casa, secondo lui, che» ed essa accentuò le parole «gli impediva di sentire il comico».
«Qualcosa in casa gli impediva di sentire il comico», ripetè il dottore. «Bene! Continuate, signora. Questo mi interessa!».
«Sì», concluse ella vagamente, «Continuava a dire così…».
«E cosa faceva per essere tanto strano?» domandò ancora il dottore. «Siate breve, altrimenti potrà tornare prima che terminiate».
«Cose da poco, ma che mi sembravano significative. Trasferì il suo studio dalla biblioteca, come la chiamiamo, nel tinello. Diceva che i suoi personaggi diventavano falsi e terribili, nella biblioteca. Si alteravano, ecco, come se dovesse scrivere delle tragedie… Ora che la stessa cosa accade nel tinello, è ritornato in biblioteca».
«Ah!».
«Vi posso raccontare così poco, vedete…», essa proseguì, sempre più affrettata, gesticolando nervosamente. «Le cose strane che fa o dice sono cose da poco… Quello che mi spaventa è la sua idea fissa che vi sia qualcun altro in casa, qualcuno che c’è sempre e che io assolutamente non vedo. Non dice proprio così, naturalmente, ma sulle scale l’ho visto tirarsi indietro come per lasciar passare qualcuno. L’ho visto aprire una porta per farlo entrare o uscire, e spesso, nella nostra camera da letto, dispone una sedia per farlo sedere… E poi… oh sì! Una volta o due… una volta o due…».
Qui si arrestò e si guardò intorno con aria atterrita.
«Che cosa?».
«Una volta o due», essa riprese in fretta, come se udisse un suono che l’allarmasse, «l’ho sentito correre… attraversava le stanze correndo come se qualcuno lo inseguisse…».
La porta si aprì in quel momento e un uomo entrò nella stanza. Aveva un viso pallido e triste, con gli occhi un po’ fissi, i capelli scuri e un poco radi intorno alle tempie. Vestiva un abito trasandato e portava una sciarpa di flanella avvolta negligentemente intorno al collo. Lo spavento era l’espressione predominante nel suo volto. L’espressione di un perseguitato, dallo sguardo alterato dal terrore e che abbia completamente perduto la padronanza di se stesso.
Non appena scorse il visitatore, un sorriso gli rischiarò il viso pallido.
«Speravo che sareste venuto» disse con voce debole movendogli incontro per stringergli la mano, «la Signora Sivendson ha detto che avreste trovato il tempo. Sono tanto lieto di vedervi, <Dr. Silence. Siete medico, vero?».
«Sì, sono autorizzato a tale qualifica», confermò il dottore ridendo, «ma raramente me l’attribuiscono. Non esercito normalmente la medicina, intendo dire che curo soltanto quei casi che m’interessano particolarmente…».
Non finì la frase, poichè lo sguardo di intelligenza che si scambiarono lo rese superfluo.
«So della vostra grande gentilezza».
«È il mio soggetto favorito», continuò il dottore, «ed anche il mio privilegio».
«Spero che penserete ancora così quando mi avrete ascoltato», continuò lo scrittore, e lo precedette, così dicendo, attraverso l’atrio, facendolo passare in una cameretta appartata, dove avrebbero potuto discorrere liberamente.
Quando la porta fu chiusa e rimasero soli, l’atteggiamento di Pender cambiò, e la sua espressione si fece grave. Il dottore gli si era seduto di fronte, in modo da poterlo vedere in viso, mentre parlava. Si accorse subito che il suo interlocutore si era accigliato. Evidentemente gli costava fatica entrare in argomento.
«Quella di cui soffro è, secondo me, una grave malattia spirituale», cominciò guardando dritto negli occhi del dottore.
«Me ne sono accorto subito», confermò questi.
«Naturalmente! l’atmosfera che mi circonda deve dare quest’impressione a chiunque abbia percezioni psichiche. Dovete realmente essere un medico delle anime, più che un medico del corpo».
«Troppo lusinghiero! Benchè sia esatta la mia preferenza per quei casi nei quali lo spirito sia perturbato per primo, e il corpo in seguito».
«Comprendo benissimo. Ebbene! Io appunto ho provato in un primo tempo uno strano disturbo… non precisamente nella mia regione psichica. Intendo dire che i miei nervi sono a posto, e il mio corpo pure. Non ho allucinazioni, ma il mio spirito è tormentato da una paura opprimente».
John Silence gli afferrò una mano e, chiudendo gli occhi, la tenne nella sua per alcuni secondi, non già per sentirgli il polso, come fanno generalmente i medici, ma unicamente per assorbire in se stesso la nota fondamentale delle condizioni mentali del paziente, in modo da poterne dedurre un proprio punto di vista e mettersi in grado di trattare il caso con vera comprensione. Un osservatore molto attento si sarebbe forse accorto che un lieve tremito aveva attraversato il suo corpo mentre gli teneva la mano.
«Ditemi ora con franchezza, Signor Pender, tutte le circostanze che vi hanno condotto a questa ossessione. Desidero anzitutto mi diciate cos’era quella droga, perchè la prendevate, e come agiva su di voi…».
«Sapete che ho cominciato con una droga!…» esclamò lo scrittore, con manifesto stupore.
«So soltanto quello che osservo in voi, e l’effetto che fate su di me. Vi trovate in una condizione psichica sorprendente. Certe parti della vostra atmosfera vibrano in misura molto maggiore di altre. È l’effetto di una droga, ma di una droga non comune. Lasciatemi finire, prego. Se questo più intenso ritmo della vibrazione si diffonderà in ogni parte, acquisterete la conoscenza permanente di un mondo molto più vasto di quello che conoscete normalmente. Se invece queste vibrazioni ritorneranno nel ritmo normale, perderete queste percezioni, solo occasionalmente accresciute».
«Mi confondete!» esclamò lo scrittore; «Le vostre parole descrivono esattamente quello che sento…».
«Vi parlo di tutto questo per rassicurarvi e infondervi coraggio» proseguì il dottore. «Ogni percezione è il risultato di vibrazioni. La chiaroveggenza, ad esempio, consiste semplicemente in una maggiore sensibilità, derivante da più ampia misura di vibrazioni. Il risveglio dei sensi interiori non significa altro che questo. La vostra chiaroveggenza parziale si spiega facilmente. Quello che non mi riesce chiaro è il modo con cui vi siete procurato la droga, dato che non è facile averla in forma pura, e nessuna soluzione avrebbe potuto conferirvi il pauroso impulso che avete acquistato».
«La Cannabis indica», proseguì lo scrittore, «venne in mio possesso l’autunno scorso, mentre mia moglie era assente. Non c’è bisogno che vi spieghi come l’ho avuto… Era l’estratto fluidico genuino, e non ho potuto resistere alla tentazione di fare un esperimento. Uno dei suoi effetti, come sapete, sta nel provocare una ilarità pronunciata…».
«Già, infatti».
«…Sono uno scrittore di racconti umoristici, e desideravo aumentare il mio senso del comico… per poter afferrare ogni espressione della comicità da un punto di vista assolutamente fuori del comune. Desideravo studiare il fenomeno, se possibile, e…».
«Ebbene?».
«Preparai una dose sperimentale, digiunai sei ore per affrettare l’effetto e mi rinchiusi in questa stanza, dopo aver ordinato di non disturbarmi. Poi ingoiai la dose e attesi».
«E l’effetto?».
Aspettai un’ora, due, tre, quattro, cinque ore. Non accadde nulla. Nessuna risata. Solo una grande stanchezza. Ero ben lontano dal pensare a cose comiche!».
«È una droga di effetto incerto», interruppe il dottore. «Ecco perchè ne limitiamo l’uso».
«Alle due di mattina mi sentivo tanto affamato e stanco che decisi di abbandonare l’esperimento e non attendere oltre. Bevvi un po’ di latte e me ne andai a letto. Mi addormentai subito, sfiduciato e deluso. Dormivo probabilmente da circa un’ora, quando mi svegliai di soprassalto con un forte strepito nelle orecchie. Era lo strepito della mia risata! Mi torcevo addirittura dal ridere. Al primo momento rimasi sbalordito e credetti di aver riso nel sogno, ma subito dopo ricordai la droga, e il pensiero che avesse fatto effetto mi rallegrò. L’effetto della droga si era manifestato a tempo debito. Ero io che non ne avevo calcolato la giusta durata. L’unica cosa spiacevole, in tutto questo, era una strana sensazione, come se non mi fossi destato da me, ma fossi stato svegliato da qualcun altro… intenzionalmente. Ben presto, fui sicuro che era proprio così, e ne fui preoccupato».
«E non vi fu possibile individuare chi fosse?» chiese il dottore, ascoltando con vigile attenzione. «Dovete dirmi ogni vostra impressione, Pender. Anche la più banale supposizione ha la sua importanza».
Pender esitò, abbozzò un sorriso, si ravviò i capelli con gesto nervoso, e rispose: «Credo sia stato qualcuno connesso col mio sogno che però avevo già dimenticato. Qualcuno che deve avermi tenuto compagnia durante il sonno. Qualcuno di grande forza, grande abilità… di grande potenza… una personalità eccezionale… Una donna… di questo ero certo».
«Una donna buona?» chiese il <Dr. Silence tranquillamente.
Pender trasalì un poco e arrossì. La domanda sembrava sorprenderlo. Ma subito egli scosse il capo con sguardo indefinibile di orrore.
«Malvagia!» rispose duramente. «Una malvagità orrenda! C’era in lei anche della perversità… la perversità della mente sconvolta».
Esitò un istante e alzò lo sguardo sull’interlocutore con un’ombra di sospetto negli occhi.
«No!», lo assicurò il dottore ridendo. «Non dovete temere ch’io mi voglia divertire a spese vostre, o ritenervi pazzo. La vostra storia m’interessa estremamente e nel raccontarmela, senza che ve ne rendiate conto, mi fornite una quantità di preziosi elementi. Ho fatto delle esperienze su me stesso, a proposito di queste manifestazioni anormali della psiche».
«Mi scuotevo tutto con risate talmente violente», proseguì Pender rassicurato, «benchè senza motivo apparente, che mi era difficile alzarmi per prendere i fiammiferi e accendere la luce. Temevo d’altronde di spaventare coi miei scoppi di risa i domestici, che dormivano al piano di sopra. Quando la luce a gas fu finalmente accesa, vidi che la stanza era vuota, e la porta chiusa, come al solito. Allora mi vestii succintamente, uscii sul pianerottolo e cercando di dominare la mia ilarità, mi accinsi a scendere le scale. Cercavo di registrare le sensazioni che provavo. Mi ficcai intanto un fazzoletto in bocca per attutire gli scrosci di risa e per non comunicare il mio isterismo ad altri».
«E quella donna?».
«Mi era sempre vicino», disse Pender. «Poi mi sembrò che fosse scomparsa. Le mie risate annullavano evidentemente ogni altra emozione».
«E quanto tempo avete impiegato per scendere le scale?».
«Stavo proprio per dirvelo! Conoscete tutti i sintomi che ho provato. Avevo l’impressione che non sarei mai arrivato al pianterreno. Ogni passo che facevo sembrava durare cinque minuti. Quando giunsi nel vestibolo in fondo alla scala… avrei giurato che fosse passata mezz’ora, se il mio orologio non mi avesse assicurato che si trattava di solo pochi secondi. Mi sforzai di accelerare il passo, ma non potevo. Mi pareva di camminare senza però avanzare e che in tal modo avrei impiegato una settimana per compiere la breve discesa della collina di Putney.
«Una dose sperimentale altera talvolta radicalmente le proporzioni del tempo e dello spazio…».
«Però, quando finalmente arrivai nel mio studio e accesi la luce, il cambiamento sopraggiunse, terribile, improvviso come un lampo abbagliante. Era come una doccia d’acqua gelida nel mezzo di quella violenta ilarità…».
«E cioè?» chiese il dottore, scrutandolo negli occhi.
«…Ero sopraffatto dal terrore», disse Pender, con voce fioca e sibilante.
Fece una breve pausa e si passò la mano sulla fronte. L’espressione del terrore e della persecuzione dominava il suo volto. Gli angoli della bocca si atteggiavano ancora al riso alla rievocazione di quella ilarità. La combinazione fra terrore e riso era stranissima e rendeva molto convincente il racconto imprimendo ai suoi gesti una bizzarra espressione di orrore.
«Era terrore?» domandò il dottore, cercando di calmarlo.
«Sì, terrore! Sebbene quella cosa che mi aveva svegliato sembrasse essersene andata, il suo ricordo mi atterriva ancora. Mi lasciai cadere su una sedia, poi chiusi la porta a chiave e cercai di ragionare con me stesso, ma la droga rallentava i miei movimenti che impiegai cinque minuti per raggiungere la porta e altri cinque per ritornare alla sedia. La risata ricominciò ad affiorare gorgogliando nella gola e scoppiai infine in una grossa autentica risata che mi scosse tutto. Perfino il mio terrore mi faceva ridere. Ma posso assicurarvi, dottore, che questo misto di paura e di riso era qualche cosa d’infame, di assolutamente insopportabile!
«Le cose nella stanza mi presentarono d’un tratto il loro lato comico e mi fecero ridere più furiosamente che mai. Lo scaffale dei libri, era ridicolo; la poltrona, una perfetta maschera da carnevale; il modo come il campanello mi guardava dalla cappa del camino, troppo comico da esprimere; la disposizione delle carte e del calamaio sulla scrivania mi eccitavano poi in modo tale, da rendere il mio riso convulso fino alle lacrime. E quello sgabello! Oh, quell’assurdo sgabello!».
Si piegò sulla sua sedia, ridendo con se stesso al pensarci. Vedendolo così, il <Dr. Silence rise egli pure.
«Proseguite!», disse. «Comprendo perfettamente. Ne so anch’io qualcosa di quell’effetto esilarante».
Lo scrittore si riebbe e ricompose, facendosi di nuovo grave.
«Concomitante con questa ilarità stravagante e apparentemente senza motivo, c’era pure un terrore inesprimibile, che non potevo spiegare. La droga causava il riso, questo lo sapevo; ma cosa potesse causare il terrore, non me lo sapevo immaginare. Dietro il comico c’era sempre la paura. Era come se il terrore fosse truccato col berretto a sonagli. Ero divenuto il campo di battaglia di due emozioni opposte, che lottavano fra loro. Gradatamente si fece strada in me la convinzione che la paura fosse causata dalla «invasione»… della mia persona da parte di quella «cosa» che mi aveva svegliato. Una cosa estremamente malvagia, era; nemica della mia anima, e di tutto quanto in me aspirasse al bene. Stavo lì, sudato e tremante, ridendo di ogni cosa che si trovasse nella stanza: eppure, per tutto il tempo, un freddo terrore dominava il mio cuore. Quella creatura immetteva… immetteva le sue…».
Esitò di nuovo.
«Immetteva che cosa?».
«…Immetteva idee nella mia mente», proseguì Pender guardandosi nervosamente intorno. «Letteralmente ostruiva la corrente dei miei pensieri in modo da farla deviare dal suo corso abituale e da immettervi la sua corrente di pensiero. Questo sembra pazzia! Lo so, eppure è vero! Non mi posso esprimere in altro modo. Per di più, mentre il fatto in se mi terrorizzava, l’abilità con cui tutto questo era compiuto mi faceva nuovamente scoppiare dal ridere al pensiero della nostra ottusità di uomini. I nostri metodi ignoranti e tardigradi, per ammaestrare le menti e per inculcare le idee, mi inducevano al riso, nel comprendere il metodo superiore e diabolico di cui ero la prova vivente. Il mio riso sembrava tuttavia vuoto e grottesco. Idee di perfidia e di tragedia calpestavano da vicino tutto quel che v’era di comico. Oh, dottore! Era una cosa snervante!».
Il <Dr. Silence ascoltava attento ogni parola dell’altro, che parlava con frasi nervose e sconnesse.
«Non avete visto nulla… nessuno… in tutto questo tempo?» domandò.
«Coi miei occhi, no. Non c’era nessuna allucinazione visiva. Ma nella mia mente cominciava a farsi sempre più concreta l’immagine di una donna… grande, di carnagione bruna, dai denti bianchissimi e dai lineamenti mascolini, con un occhio, quello sinistro, talmente rilassato da apparire quasi chiuso. Oh, quel volto!…».
«Un volto che potreste riconoscere?».
Pender rise paurosamente.
«Desidererei piuttosto di poterlo dimenticare», bisbigliò, «Non desidererei di meglio!» Poi, afferrò la mano del dottore con gesto impulsivo.
«Vi sono tanto grato per la vostra pazienza e per la vostra gentilezza!» esclamò con un tremito nella voce, «e… vi son pure grato che non mi crediate pazzo. A nessun altro ho mai detto tanto. La sola libertà di parlarne… il sollievo di partecipare il mio dolore ad altri… mi ha già aiutato più di quanto credessi».
Il <Dr. Silence strinse la sua mano e lo guardò fisso negli occhi terrorizzati. La sua voce era amichevole, quando rispose:
«Il vostro caso è molto singolare ed è per me di estremo interesse». Disse, «Non la vostra esistenza fisica, bensì la vostra esistenza psichica… la vita interiore. La vostra mente non verrebbe in questo mondo, nella vita terrena; ma nell’esistenza successiva, alla quale potreste destarvi con lo spirito talmente sconvolto e contaminato, da essere pazzo nello spirito… una condizione questa assai più grave che non l’essere pazzo nella vita terrena».
Uno strano silenzio si propagò per la stanza, fra i due uomini.
«Credete realmente?… Buon Dio!» balbettò lo scrittore non appena ritrovata la parola.
«Ciò, che io intendo in particolare, ve lo dirò più tardi. Non avrei parlato così se non fossi certo di potervi aiutare. Oh, su questo non c’è dubbio, credetemi! Anzitutto, sono perfettamente al corrente degli effetti della droga straordinaria la cui potenza vi ha elevato alla percezione delle forze d’un’altra regione. In secondo luogo, ho una ferma convinzione nella realtà dei fatti ultra-sensibili, ed una buona conoscenza dei processi psichici, acquisita durante una lunga e dolorosa esperienza. La cura consiste in un trattamento puramente simpatetico e in un’applicazione pratica. Lo stupefacente vi ha parzialmente dischiuso un altro mondo, aumentando il vostro ritmo di vibrazione psichica e provocando una sensibilità anormale. Antiche forze connesse a questa casa vi hanno attaccato. Per il momento, sono perplesso sulla loro precisa natura. Se fossero di carattere ordinario, sarei io stesso abbastanza psichico da percepirle. Mi rendo conto, tuttavia, che finora non ho alcuna percezione. Ma, proseguite, signor Pender, e ditemi il resto. Vi parlerò poi dei mezzi di guarigione».
Pender accostò la sua sedia a quella del dottore e continuò con la medesima voce nervosa.
«Dopo aver fatto alcune annotazioni sulle mie impressioni, rifeci le scale per rimettermi a letto. Erano le quattro del mattino. Ridevo continuamente… per le balaustrate grottesche, per la buffa fisionomia della finestra sulle scale, per la comica disposizione dei mobili, e al ricordo di quell’orribil sgabello nella stanza di sotto. Null’altro però avvenne che mi turbasse o allarmasse. Mi ridestai tardi, dopo un sonno senza sogni. Provavo un lieve mal di capo e un senso di freddo alle estremità dovuto probabilmente ad una diminuita circolazione».
«Era sparita anche la paura?» domandò il dottore.
«Mi pareva di averla dimenticata, o almeno l’attribuivo alla nervosità. La sua realtà se n’era andata, comunque, e non feci altro che scrivere tutto il giorno. Il mio senso umoristico sembrava meravigliosamente ravvivato e i miei personaggi agivano senza sforzo in un’atmosfera di genuina comicità. Mi sentivo in complesso assai soddisfatto per il risultato del mio esperimento. Ma quando la stenografa se ne fu andata e mi accinsi a rileggere le pagine dattilografate, ricordai le sue improvvise occhiate di sorpresa e il modo strano con cui mi guardava mentre dettavo. Ero infatti sconcertato da quanto leggevo e dubitai quasi di essere stato io a dettare».
«Perchè?»
«Era tutta una roba eterogenea. Le parole erano senz’altro mie, per quanto me ne potessi ricordare, ma assai strani ne apparivano i significati. Ciò mi contrariò. Il senso era del tutto alterato. Proprio nei punti in cui, secondo la mia intenzione, i personaggi avrebbero dovuto provocare una irresistibile ilarità, l’effetto che producevano era quello di un sinistro umorismo. Paurose insinuazioni si erano infiltrate nelle frasi. Un certo senso umoristico c’era, senza dubbio, ma bizzarro, orribile, opprimente. Più analizzavo il mio scritto, e maggiormente aumentava il mio rammarico e il mio spavento. La sua lettura mi faceva rabbrividire poichè, a causa di lievi mutamenti, il senso ne risultava così svisato da imprimere all’anima un vero senso di orrore: un orrore camuffato di ilarità. L’intreccio umoristico c’era, ma il carattere dei personaggi aveva assunto un aspetto sinistro. Il loro riso era perfido».
«Potete mostrarmi lo scritto?».
Lo scrittore scosse il capo.
«L’ho distrutto», sussurrò. «Alla fine, benchè molto turbato, mi persuasi che la causa di tutto questo fosse da attribuirsi a qualche effetto ritardato della droga, una specie di reazione interiore che non potevo padroneggiare e mi faceva insinuare interpretazioni macabre nelle parole e nelle situazioni che meno si addicevano ad una simile deformazione».
«E, nel frattempo, vi sentivate libero da quella persona?».
«No! La sua presenza permaneva. Quando la mia mente era attivamente impegnata, la dimenticavo. Ma nell’ozio, nel sogno, o quando non facevo nulla di particolare, la sua presenza era palese ed influenzava la mia mente in modo orribile…».
«In che modo, precisamente?» interruppe il dottore.
«Pensieri malvagi, incoerenti mi assillavano, visioni di delitti, odiose immagini di azioni scellerate… Tutto un genere di cose, insomma, assolutamente estranee alla mia natura normale…».
«L’influenza delle potenze oscure sulla personalità», mormorò il dottore, facendo una rapida annotazione.
«Come? Non ho capito bene…».
«Proseguite, ve ne prego. Prendo delle annotazioni: il loro significato comprenderete più tardi».
«Anche dopo il ritorno di mia moglie mi accorsi che quella presenza persisteva. Si associava in modo insistente alla mia personalità interiore. Esteriormente, sentivo inoltre lo strano impulso di comportarmi cortesemente nei suoi riguardi… di aprirle le porte, provvedere delle sedie ed usarle insomma una scrupolosa deferenza. Da ultimo, divenne molto esigente. Se mancavo in qualche sia pur minimo particolare, sembrava che mi perseguitasse per la casa, da una stanza all’altra, tormentandomi l’anima in modo insostenibile. Aveva persino la precedenza su mia moglie, per ciò che riguardava le attenzioni che ero tenuto ad usarle.
«Ricorsi tuttavia nuovamente alla droga la terza notte, e ne ebbi lo stesso effetto ritardato come la prima volta, effetto che si annunciò col medesimo scroscio di riso falso e demoniaco. Rilevai però, questa volta, un capovolgimento nella proporzione fra il tempo e lo spazio, rispetto alla prima volta, e precisamente una contrazione, anzichè una espansione. Mi vestii e discesi le scale in circa venti secondi, e il paio d’ore che mi trattenni a lavorare nel mio studio trascorse letteralmente in dieci minuti».
«Questo avviene a causa della dose eccessiva», interloquì il dottore. «Si può superare un chilometro in pochi minuti, o alcuni chilometri in un quarto d’ora. È una curiosa dimostrazione che il tempo e lo spazio non sono che forme di pensiero».
«Questa volta», proseguì Pender, che parlava sempre più rapido per l’eccitazione, «un altro effetto straordinario mi colpì. Provai cioè un curioso mutamento nei sensi, in quanto percepivo le cose esterne attraverso un mio ampio canale sensorio riassuntivo anzichè attraverso le cinque divisioni normalmente note: la vista, l’odorato, il tatto, e via dicendo. Certamente mi capirete, se affermo che udivo visioni e vedevo suoni. Nessun linguaggio può esprimere una cosa simile, naturalmente. Il rintocco della pendola, ad esempio, lo percepivo come un’immagine visibile sospesa nell’aria, davanti a me. Vedevo il tintinnìo del campanello. Esattamente allo stesso modo udivo i colori nella stanza, quelli dei libri nello scaffale dietro di voi. Le rilegature rosse le sentivo in suoni profondi, le copertine gialle dei volumi francesi davano una nota stridente e penetrante, come il cinguettìo degli stornelli. Lo scaffale bruno dei libri borbottava, e le cortine verdi di fronte emettevano costantemente una specie di suono fluttuante, come le note basse di un corno da caccia. Mi rendevo conto di questi suoni soltanto quando fissavo a lungo gli oggetti, oppure pensavo ad essi. La stanza era naturalmente silenziosa, ma quando concentravo la mia attenzione su di un colore, lo udivo e lo vedevo contemporaneamente».
«È un effetto noto, benchè raramente riscontrato, della Cannabis indica», osservò il dottore. «E questo provocava nuovamente il riso non è vero?».
«Il semplice mormorìo dello scaffale dei libri mi faceva ridere. Somigliava ad un grosso animale in vena di farsi notare. Mi faceva pensare ad un orso ammaestrato… Era una cosa piena di umorismo patetico. Ma questo rimescolìo dei sensi non produceva nessuna confusione nel mio cervello. Al contrario, avevo la testa insolitamente chiara, provavo un affinamento della coscienza, sentivo una meravigliosa vitalità e la mente era acuta e penetrante.
«Per di più, quando afferravo una matita, obbedendo a un impulso che mi spingeva a disegnare, talento questo che non ho mai posseduto, non sapevo abbozzare altro che teste… anzi, una testa sola… la testa di una donna dalla carnagione scura, dai lineamenti rudi e terribili, con l’occhio sinistro dalla palpebra pendente… e disegnata così bene, che rimanevo sorpreso, come potete ben immaginare…».
«E l’espressione di quel volto?».
Pender esitò un istante per cercare la parola più adatta. Un brivido lo percorse tutto.
«Nerezza! potrei chiamarla unicamente così», rispose a voce bassa; «il volto di un’anima tetra e malvagia».
«Avete distrutto anche questo?» incalzò il dottore.
«No; ho conservato i disegni», disse Pender ridendo, e si alzò per toglierli da un cassetto della scrivania.
«Eccovi quanto rimane dei disegni. Guardate! soggiunse, spingendo un certo numero di fogli sotto gli occhi del dottore; «nulla tranne pochi tratti, scarabocchiati come per caso. È tutto quanto trovai la mattina dopo. Effettivamente, non avevo disegnato teste di sorta… Null’altro che linee e sgorbi e ghirigori. I disegni erano affatto soggettivi, esistevano soltanto nella mia mente, che li costruiva, con l’immaginazione, da pochi tratti di penna buttati giù in fretta e furia. Anche questa una delusione completa, come le alterate proporzioni dello spazio e del tempo. Tutto questo è scomparso, naturalmente, col passare dell’effetto della droga. Ma l’altra cosa non è passata. Intendo dire che la presenza di quell’anima nera ha persistito a rimanere con me. È anche qua adesso. È una cosa reale. Non so come potrò sfuggirla».
«È connessa alla casa, non a voi personalmente. Dovrete lasciare la casa».
«Già. Ma non ho mezzi sufficienti per lasciare la casa, poichè il mio lavoro rappresenta la mia sola risorsa, e… Ebbene… come vedete, dopo quel cambiamento, non sono neanche più capace di scrivere. Le storie che scrivo ora, con quelle caricature del riso, con la loro diabolica suggestione, sono orribili! Orribili! Finirò per impazzire!».
Si alzò e si guardò in giro preoccupato.
«L’influsso malefico che grava su questa casa, dopo il mio esperimento, ha distrutto, inaridito, le fonti vive del mio umorismo. Continuo, ciò malgrado, a scrivere racconti faceti, poichè posseggo una certa notorietà, sapete… ma la mia ispirazione si è disseccata, e molto di ciò che scrivo devo bruciarlo… già, dottore, bruciarlo, prima che qualcuno lo veda».
«Come qualche cosa di assolutamente contrario alla vostra personalità?».
«Completamente! Come se lo avesse scritto un altro…».
«Ah!»
«È rivoltante!» Si passò una mano sugli occhi, sospirando in modo penoso: «Questi abbietti suggerimenti vengono insinuati con dannata abilità e consumata perfidia sotto la maschera della più perfetta comicità. La mia stenografa mi ha lasciato, naturalmente… ed ho persino paura ad assumerne un’altra…».
Il <Dr. Silence si alzò e prese a camminare per la stanza, senza parlare. Sembrava esaminasse i quadri appesi alla parete o leggesse i titoli dei libri sparsi qua e là. Poi si fermò davanti al caminetto, con la schiena rivolta al fuoco, e ricominciò a guardare il paziente, tranquillamente, negli occhi. La faccia di Pender era terrea, contratta, dominata da una grave espressione di stanchezza. La lunga spiegazione lo aveva evidentemente esaurito.
«Grazie, Signor Pender», gli disse il dottore, con voce calma, mentre un curioso calore sembrava emanare dalla tranquilla espressione del volto. «Vi ringrazio per la vostra sincerità e la vostra franchezza. Non ho altro da chiedervi, per ora». Si attardò ad osservare i magri lineamenti dello scrittore, guardandolo francamente negli occhi per ispirargli fiducia e infondergli coraggio. «Non dovete, anzitutto, allarmarvi», soggiunse con un sorriso. «Vi posso assicurare che non siete nè pazzo nè allucinato».
Pender trasse un profondo sospiro e si sforzò di sorridere.
«Per quanto possa giudicare, si tratta più che altro di una «invasione, psichica» di carattere particolarmente singolare».
«È una strana espressione…» disse lo scrittore che, per quanto stanco, coglieva attentamente ogni parola della diagnosi, profondamente confortato e rinfrancato da quella intelligente comprensione.
«Uno strano nome per una strana malattia», replicò l’altro. «Una malattia conosciuta del resto anche ai popoli dell’antichità. E forse anche i moderni, ne sono convinti quando riconoscono la libertà d’azione sotto certe particolari condizioni patogene e certe relazioni fra questo mondo e l’altro».
«E credete», domandò Pender ansiosamente, «che sia dovuto alla Cannabis oppure a qualche male radicato più a fondo… inguaribile?».
«Unicamente alla dose eccessiva!», confermò categoricamente il <Dr. Silence. «All’azione diretta della droga sulle facoltà psichiche. Questa azione vi ha reso ultrasensibile. Vi ha reso ricettivo ad un ritmo accresciuto di vibrazione. Permettete che ve lo dica, Signor Pender! Il vostro esperimento avrebbe potuto provocare risultati anche più funesti. Siete venuto a contatto con una classe del mondo invisibile, che credo conservi ancora qualcosa di umano nel carattere. Avreste potuto incorrere in un pericolo assai più grave: quello di essere completamente avulso dalla sfera umana. Gli effetti, in tal caso, sarebbero stati terribili. Non sareste qui a raccontarmene i particolari. Non voglio allarmarvi, ma solo mettervi in guardia, certo che ne terrete conto, dopo quanto avete sofferto.
«Dovete certo essere disorientato. Non vi rendete conto del pericolo corso, nè si può pretenderlo da voi, che suppongo apparteniate alla religione cristiana e ne professiate fedelmente il regime etico con una totale ignoranza delle possibilità spirituali. Eccetto una concezione un po’ infantile della perversità spirituale qual’è concepita nell’ambito religioso, non avete probabilmente alcuna idea delle possibilità che si offrono una volta squarciato l’esile diaframma pietosamente levato fra noi e il Gran Mondo delle ombre. I miei studi e il mio allenamento mi hanno portato molto al di là da questi ostacoli. Difficilmente potrei spiegarvi gli esperimenti che io stesso ho compiuto in questo campo».
S’interruppe un momento per osservare l’interesse che Pender manifestava. Ogni sua parola era calcolata. Conosceva esattamente il valore e l’effetto delle emozioni che suscitava nell’animo del paziente.
«In base a una certa conoscenza acquistata attraverso esperienze personali», egli continuò serenamente, posso appunto diagnosticare il vostro caso come una invasione psichica».
«E la natura di questa… invasione?» domandò sbalordito l’autore di racconti umoristici.
«Non la conosco ancora a sufficienza», rispose il <Dr. Silence. «Dovrei fare ancora qualche esperimento…».
«Su di me?…» sussurrò Pender esitante, trattenendo il respiro.
«Non esattamente», disse il dottore, con un grave sorriso, «ma con la vostra assistenza, forse. Dovrei soprattutto indagare le condizioni della casa… per accertare, se possibile, il carattere di quella strana personalità che vi ha ossessionato…».
«Non ne avete ora un’idea esatta?…» domandò l’altro impetuosamente, impressionato e perplesso.
«Sono sulla buona strada, ma mi mancano le prove», disse il dottore. «Gli effetti della droga nell’alterare le proporzioni di tempo e spazio non hanno nulla a che fare con l’invasione. Si manifestano in chiunque si induca a prendere una dose sperimentale. Sono gli altri sintomi che sono assolutamente insoliti. Vi trovate a contatto di sensazioni, desideri e propositi, tuttora attivi in questa casa, prodotti in passato da qualche potente personalità malefica che viveva qui. Non posso dire quanto tempo fa, nè perchè permangano così attivi. Dovrei pensare che si tratti di forze agenti automaticamente al momento del loro impeto terrificante».
«Non dirette da un essere vivente, una volontà cosciente…?».
«Credo di no… Ma non sono per questo meno pericolosi e difficili a trattare. Non posso spiegarvene la natura perchè non avete le cognizioni che vi mettono in grado di seguirmi. Ritengo, ad ogni modo, che all’atto del dissolvimento con la morte, le forze di un essere umano possano ancora persistere e continuare ad agire in modo cieco, incosciente. Come regola, queste forze si disperdono rapidamente, ma nel caso di una personalità molto potente possono persistere a lungo. In alcuni casi, e credo si tratti appunto di uno di questi, le forze possono unirsi ad alcune entità extra-umane, continuando la loro vita all’infinito e aumentando la loro forza in misura inconcepibile. Se la personalità era malvagia, gli esseri attratti nell’orbita delle forze abbandonate divengono anch’essi malvagi. In questo caso, credo abbia luogo un inconsueto terribile ampliamento del pensiero e dei propositi lasciati indietro da una donna di consumata perfidia e di grande forza di carattere e d’intelletto. Cominciate a comprendere?…».
Pender guardò fisso il dottore con gli occhi pieni di orrore, ma rimase in silenzio.
Il <Dr. Silence proseguì:
«Nel vostro caso, a ciò predisposto dall’azione della droga, avete soggiaciuto all’attacco, all’impeto sfrenato di queste forze. Sono esse che annullano in voi il senso umoristico, la fantasia, l’immaginazione… tutto quanto infonde allegria e speranza. Sono esse che cercano, sia pure soltanto automaticamente, di espellere i vostri pensieri e stabilirsi in vece loro. Siete vittima di un’invasione psichica. Contemporaneamente siete diventato un autentico chiaroveggente. Siete dunque una vittima chiaroveggente».
Pender si passò una mano sulla fronte e sospirò. Lasciò la sua sedia e si avvicinò al camino per riscaldarsi.
«Penserete che io sia ciarlatano od un pazzo», disse ridendo il dottore. «Ma non importa! Sono venuto per aiutarvi, e posso farlo, se farete quanto vi dico. È molto semplice: dovete lasciar subito questa casa. Le difficoltà non contano; ce le divideremo! Posso mettere un’altra casa a vostra disposizione, o potrei accettarne l’affitto. Questa casa la farò abbattere più tardi. Il vostro caso m’interessa vivamente e intendo guarirvi, in modo che non abbiate più preoccupazioni e possiate rientrare domani stesso nella vostra vita normale di lavoro. La droga ha fornito a voi, ed anche a me, lo spunto per un esperimento molto interessante. Ve ne sono grato!».
Lo scrittore attizzò nervosamente la fiamma, mentre una commozione violenta lo dominava tutto. Poi guardò preoccupato verso la porta.
«È inutile allarmare vostra moglie col riferirle i particolari della nostra conversazione», proseguì l’altro tranquillamente. «Ditele che ritornerete quanto prima in possesso del vostro senso umoristico e della vostra salute e spiegatele che vi presto un’altra casa per sei mesi. Userò intanto questa casa per una o due notti per i miei esperimenti. È inteso?».
«Posso soltanto ringraziarvi dal profondo del cuore», balbettò Pender, incapace di trovar parole per esprimere la sua gratitudine.
Poi esitò per un momento, scrutando ansiosamente il volto del dottore.
«E i vostri esperimenti?» domandò infine.
«Sono molto semplici, caro Signor Pender. Sono io stesso uno psichico artificialmente allenato, e sento, di regola, la presenza delle entità disincarnate, ma non mi sono accorto, finora, che esista qui qualcosa del genere. Sono perciò sicuro che le forze qui attive sono di una specie inconsueta. L’esperimento che mi propongo di fare ha per scopo di espellere il mostro, costringendolo a uscire dalla «tana», per così dire, in modo che debba esaurirsi a mezzo mio e disperdersi per sempre. Sono già vaccinato», soggiunse; «mi ritengo quindi immune».
«Santo Iddio!» si lasciò sfuggire lo scrittore, abbandonandosi su una sedia.
«Inferno infame! sarebbe un’esclamazione più appropriata», disse ridendo il dottore. «Parlo sul serio, Signor Pender! È proprio questo che col vostro permesso pongo di fare!».
«Naturalmente», esclamò l’altro, «avete il mio permesso, coi migliori auguri! Non posso trovare alcuna obiezione, ma…».
«Che cosa?».
«Non vorrete, per l’amor del cielo, intraprendere questi esperimenti da solo, non è vero?».
«Oh, no! Non da solo!».
«Prenderete un compagno coi nervi saldi… e fidato in caso di disastro… non è vero?».
«Porterò due compagni», disse il dottore.
«Ah, meglio ancora! Mi sento più tranquillo. Sono certo che dovete avere a vostra disposizione degli uomini che…».
«Degli uomini? Nemmeno per sogno, Signor Pender».
L’altro lo guardò sbalordito.
«E nemmeno delle donne o dei bambini? Non comprendo! Chi diamine portereste, dottore, con voi?».
«Degli animali!», spiegò il <Dr. Silence, sorridendo all’espressione di incredulo stupore del compagno. «Due animali: un gatto e un cane».
Pender lo guardò fisso, immobile per lo sbalordimento, rinunciando ad ulteriori spiegazioni, senza profferire altro, lo fece accomodare nella stanza attigua dove sua moglie li attendeva per il tè.

II

Pochi giorni dopo, l’umorista e sua moglie, con animo assai più sollevato, occupavano una piccola casa arredata messa a loro disposizione in un’altra parte di Londra; e Giovanni Silence, intento al suo imminente esperimento, si preparava a passare una notte nella casa vuota, in cima alla collina di Putney. Due sole stanze erano state apprestate per essere occupate: lo studio al pianterreno e la camera da letto al primo piano. Tutte le altre porte dovevano essere chiuse, e nessuna persona di servizio doveva essere lasciata nella casa. L’autista aveva l’ordine di andarlo a prendere la mattina alle nove.
Nel frattempo, il suo segretario aveva avuto istruzioni di fare diligenti ricerche, di visitare i vicini, e di informarsi, per quanto possibile, su ogni particolare riguardante il carattere degli inquilini precedenti, recenti e remoti, della casa in cui il Signor Pender aveva sino allora abitato.
Il <Dr. Silence scelse con cura e criterio gli animali, attraverso la cui sensitività intendeva indagare le insolite condizioni dell’atmosfera dell’edificio. Egli riteneva (ed aveva già fatto dei curiosi esperimenti al riguardo) che gli animali fossero più spesso e più autenticamente chiaroveggenti degli esseri umani. Secondo la sua convinzione, molti fra di essi possedevano poteri di percezione assai superiori alla semplice penetrazione dei sensi, comune a tutti gli abitatori delle foreste e delle solitudini, dove i sensi si acuiscono in modo particolare. Essi potevano vantare ciò che egli chiamava la «chiaroveggenza animale», e dai suoi esperimenti fatti sui cavalli, sui cani, sui gatti, e perfino sugli uccelli, aveva tratto conclusioni specifiche che è superfluo esporre qui nei loro più minuti particolari.
I gatti, specialmente, egli pensava, erano quasi continuamente coscienti di un campo visivo più ampio, troppo ristrettonota 1 perfino per una macchina fotografica, e assolutamente al di là della possibilità e della portata degli organi umani. Aveva inoltre osservato che, mentre i cani erano generalmente atterriti alla presenza di tali fenomeni, i gatti invece ne erano confortati e soddisfatti. Essi salutavano anzi queste manifestazioni, come qualche cosa di essenziale, appartenente più precisamente alla loro sfera.
Scelse quindi questi animali con particolare avvedutezza, in modo che potessero offrire una reazione diversa, ciascuno a modo suo, e che l’uno non dovesse semplicemente comunicare la sua eccitazione all’altro.
Il gatto, era un esemplare già adulto, vissuto con lui sin da piccolo, d’una dolcezza sconcertante e d’una malizia audace. Era bisbetico e capriccioso. Si trastullava per lunghe ore in misteriosi giuochi negli angoli della stanza. Saltellava di fronte a dei nonnulla invisibili, si lasciava ricadere sulle zampette ovattate. E tutto questo, con un’aria di dignitosa serietà come se l’esibizione fosse necessaria al suo benessere, e non intesa a far colpo su uno stupido pubblico umano. Interrompeva a volte una elaborata pulizia per drizzare la testina spaventato, come all’approssimarsi di qualche cosa d’invisibile. Poi fingeva una distrazione apparente e guardava con intensità in altra direzione quasi per confondere gli spettatori. Quindi si rimetteva con impegno al suo lavoro di pulizia. All’infuori di una macchia bianca sul petto, era nero come il carbone. Si chiamava Smoke, che significa «fumo».
Il nome ne indicava il temperamento e l’aspetto. I movimenti, la personalità, l’aspetto di piccolo batuffolo peloso di misteri nascosti, l’elusività immateriale, tutto concorreva a giustificarne il nome. Un pittore raffinato avrebbe potuto dipingerlo come un gomitolo di fumo, il cui fuoco interno si palesasse in due soli punti: gli occhi ardenti.
Le sue forze convergevano nell’intelligenza; l’intelligenza segreta, l’intuito muto, incalcolabile, del gatto. Era proprio il gatto che ci voleva!
La scelta del cane non fu tanto semplice, dato che il dottore ne possedeva parecchi. Dopo molta riflessione, scelse un cane pastore di nome Flame (fiamma), a motivo del pelo giallognolo. Era un po’ vecchio e rattrappito, e quasi sordo, ma era amicissimo di Smoke, cui aveva fatto da padre cosicchè esisteva fra di essi una schietta intimità. Benchè di temperamento buono, era inoltre un temibile lottatore, e il suo furore, se provocato da una giusta causa, era di irresistibile violenza.
Il dottore lo aveva avuto giovanissimo, direttamente dal mandriano, ed era allora tutto pelle ed ossa. Aveva poi assunto una costituzione vigorosa, ma il pelo era rimasto rigido e gli occhi rotondi, apparivano diversi da quelli oblunghi della sua razza. Soltanto il padrone poteva toccarlo. Disdegnava le carezze degli estranei ed erano pochi quelli che osavano fargliene. Doveva possedere una tremenda energia, e questo era ampiamente confermato quando lo si vedeva lottare contro gli intrusi.
Nei suoi rapporti con Smoke era di una gentilezza che rasentava l’assurdo. Il suo tono paterno tradiva una specie di diffidenza, di timidezza, quasi. Riconosceva che Smoke esigeva un trattamento forte, ma riguardoso. I metodi sfuggenti del gatto lo confondevano, e le sue sottigliezze urtavano le preferenze che il cane doveva avere per i modi franchi e schietti. Pur rinunciando tuttavia a comprendere i tortuosi misteri del suo grande amico, Flame non si dimostrava mai sprezzante o aggressivo, ma si occupava della sua protezione, come un padre, amorevole e intuitivo, che vegli sulle stravaganze di un figliuolo capriccioso e intelligente. A sua volta, Smoke lo ricompensava con esibizioni di una malizia affascinante e audace.
Questa breve descrizione dei loro caratteri è necessaria alla giusta comprensione di quanto avvenne in seguito.
Con Smoke addormentato nelle pieghe del soprabito foderato di pelliccia, e col cane disteso vigile sul sedile opposto, il <Dr. Silence si fece condurre sul posto nella sua macchina, dopo cena, la sera del 15 novembre.
La nebbia era tanto fitta che l’automobile fu costretta a viaggiare a un quarto di velocità per tutto il percorso.
Erano le dieci passate quando il <Dr. Silence scese dalla macchina ed entrò nella casetta aprendo il cancello con la chiave consegnatagli da Pender. Il lume a gas spandeva nel vestibolo una luce fioca e il fuoco era acceso nello studio. Libri e cibi erano stati apprestati dalla domestica, secondo le istruzioni avute. La nebbia entrò dietro di lui, dalla porta aperta, riempiendo l’atrio di un freddo squallore.
Il <Dr. Silence chiuse Smoke nello studio dopo avergli posto dinanzi al fuoco un piattino di latte, e se ne andò quindi a fare un giro d’ispezione nella casa con Flame. Il cane lo seguiva allegramente mentre egli forzava le porte delle altre camere per assicurarsi che erano ben chiuse. Il cane fiutava in giro, annusava gli angoli e faceva piccole escursioni per proprio conto. Il suo comportamento era quello dell’attesa. Capiva che c’era nell’aria qualche cosa di insolito, se doveva quella sera derogare alle sue abitudini e trovarsi in quel posto anzichè addormentarsi pacificamente, come tutte le sere, sulla stuoia accanto al fuoco. Quando l’ispezione alle porte fu terminata, guardò in su verso il padrone con una espressione di intelligente partecipazione, ma anche con una cert’aria di disapprovazione. Ogni cosa che il padrone facesse era senz’altro approvata ai suoi occhi, ma frenava a stento l’impazienza per quello che gli pareva un inutile andirivieni. Se il dottore si compiaceva tuttavia in quella specie di passatempo a così tarda ora della notte, non era certamente affar suo sollevare obiezioni. La cosa cominciò ad interessarlo e ci si mise di tutto impegno.
Tornato nello studio, il <Dr. Silence trovò Smoke che si puliva tranquillamente il musino in faccia al fuoco. Il piattino di latte era bell’e vuoto. L’esame preliminare che i gatti sempre eseguiscono in ambienti nuovi si era evidentemente concluso con sua piena soddisfazione. Il dottore accostò una poltrona al fuoco, attizzò le braci, dispose il tavolo e la lampada in modo da poter leggere comodamente e si accinse a sorvegliare scrupolosamente gli animali senza che se ne accorgessero.
Era abitudine dei due animali di giuocare fra loro ogni sera prima di addormentarsi. Era Smoke, come sempre, che faceva i primi approcci, cominciando, con la sua solita impudenza, a dare una toccatina alla coda del cane. Flame giuocava pesantemente, con sopportazione. Era per lui un dovere, piuttosto che un piacere. Era ben contento quando tutto era finito, e talvolta era molto seccato o si rifiutava del tutto al giuoco. E quella sera era davvero molto sostenuto.
Il dottore, osservando cautamente al di sopra del libro, vide il gattino cominciare il suo gioco. Il piccolo animale guardava con espressione innocente il grosso cane che se ne stava sdraiato, col muso sulle zampe e gli occhi sbarrati, nel mezzo della stanza. Poi si levò e si avviò decisamente verso la porta mentre gli occhi di Flame lo seguivano fino al di là della visuale. Allora il gattino volse d’un tratto e cominciò a dare dei colpetti d’assaggio con uno zampino alla coda del cane. La coda si mosse solo leggermente in risposta. Smoke cambiò lo zampino e picchiettò di nuovo la coda. Il cane non si alzò a giuocare com’era sua abitudine, e il gattino prese a picchiettarla vivacemente con entrambe le zampe. Ma Flame non se ne dava per inteso.
Ciò sorprese e irritò il gattino, che fece un giro e guardò fiso nel muso l’amico per vedere che fosse accaduto. Forse qualche messaggio non articolato balenò dagli occhi del cane nel suo piccolo cervello, facendogli capire che il programma di quella sera doveva essere sospeso. Forse si rese conto che l’amico era irremovibile. Qualunque ne fosse la ragione, la sua petulante pertinacia lo abbandonò, e non fece altri tentativi di persuasione. Cedette al comportamento del cane, si mise a sedere dove si trovava e cominciò a pulirsi.
Ma la pulizia, notò il dottore, non era il suo vero scopo. Serviva solo a mascherare qualche cosa d’altro. S’interrompeva nei momenti più laboriosi per guardarsi intorno nella stanza. Fissava lo sguardo curioso e attento sulle cortine, negli angoli oscuri, nello spazio vuoto al di sopra, abbandonando talvolta il corpo in posizioni curiose per interi minuti consecutivi. Poi, d’un tratto si volse di scatto e guardò con improvviso segnale d’intelligenza verso il cane. Flame si alzò subito, un po’ stecchito sulle zampe, e cominciò a vagare senza meta e senza posa qua e là per il pavimento. Smoke lo seguiva silenziosamente sulle zampe ovattate. Fecero insieme ciò che sembrava un deliberato giro d’ispezione per la stanza.
E qui, al dottore che osservava attentamente ogni loro atteggiamento al di sopra del libro, pur non facendo alcuna mossa per intervenire, sembrò che i primi indizi di un lieve malessere si manifestassero nel cane mentre sintomi di una vaga eccitazione parevano impadronirsi del gattino.
Il dottore seguiva attentamente la scena. La nebbia era spessa nell’aria e il fumo della pipa ne alimentava la densità. Il mobilio nell’angolo più lontano era immerso nel buio ed era assai difficile distinguere chiaramente là dove le ombre si riunivano in nuvole pendenti sotto il soffitto. La luce della lampada arrivava solo a poco più di un metro dal pavimento, sul quale si stendevano zone di relativa oscurità, cosicchè lo spazio appariva due volte più elevato di quanto realmente fosse. Il tappeto tuttavia, rischiarato com’era dalla lampada e dal fuoco, era chiaramente visibile dappertutto.
Gli animali continuavano il loro silenzioso giro sul pavimento, guidando or l’uno or l’altro. Talvolta si guardavano come per scambiarsi dei segnali. Talvolta, malgrado lo spazio ristretto, il dottore li perdeva di vista nell’ombre e nella nebbia. La loro curiosità era certamente qualche cosa di più che non la semplice eccitazione provocata dall’ambiente sconosciuto. Era tuttavia impossibile averne una prova, e il dottore mantenne di proposito la sua mente tranquillamente ricettiva, per evitare che il minimo eccitamento mentale da parte sua si comunicasse agli animali e distruggesse il valore del loro comportamento indipendente.
Facevano un giro quasi completo, non passando accanto a nessun mobile senza prima averlo esaminato o fiutato. Flame guidava, camminando lentamente a testa bassa. Smoke seguiva da presso affettando un’apparente noncuranza che celava tuttavia un’attenzione sempre vigile. Alla fine tornarono a distendersi sulla stuoia davanti al fuoco. Flame appoggiò la testa sulle ginocchia del padrone, che sorrideva beato mentre gli accarezzava la grossa testa e lo chiamava per nome. Smoke, arrivando un po’ più tardi, si arrestò ad osservare il piattino vuoto, si volse verso il padrone, gli saltò sulle ginocchia e vi si raggomitolò, deciso a godersi un sonno ben meritato.
Il silenzio regnò nella stanza, solo interrotto dal respiro del cane sulla stuoia. Nella profonda quiete, giungeva soffocato lo sgocciolìo dell’acqua sui davanzali, unico segno della inclemenza della notte. E gli scrosci attutiti delle braci, si facevano sentire sempre meno man mano che il fuoco si attutiva e le fiamme scemavano,
Erano passate le undici, e il <Dr. Silence si dedicò nuovamente alla lettura del libro. Leggeva le parole sulla pagina stampata ma penetrava solo superficialmente il loro significato, senza dar vita alle correlazioni fra pensiero e suggestione. Le sue energie mentali venivano assorbite dalla vigilanza, in attesa di quanto doveva accadere. Non era eccessivamente sanguigno, ma non desiderava essere colto di sorpresa. Gli animali, i suoi barometri sensitivi, si erano voluttuosamente abbandonati al sonno.
Dopo una dozzina di pagine il dottore si accorse che la sua mente era realmente occupata nel rivedere i punti salienti della straordinaria storia di Pender. Poichè era inutile continuare nella lettura, depose il libro e lasciò che i suoi pensieri si concentrassero sui particolari del caso in esame. Sapeva per esperienza che pensieri e considerazioni avrebbero agito sulla sua immaginazione come il vento sui tizzoni incandescenti del fuoco.
Man mano che la notte avanzava, il silenzio si faceva sempre più profondo. Solo a rari intervalli percepiva il rumore di ruote sulla strada maestra, un centinaio di metri di distanza, laddove i cavalli procedevano al passo, a causa della densità della nebbia. L’eco dei passi dei pedoni non gli giungeva più, e neppure il rumore delle voci lontane. La notte fasciata di nebbia, avvolta da veli di un cupo mistero, pendeva intorno alla villa infestata, come una condanna. Nulla nella casa si muoveva. La quiete più assoluta, avvolta come da una spessa coltre, regnava nei piani superiori. Soltanto la nebbia sembrava farsi più densa nella stanza. Il freddo e l’umidità erano ora più penetranti. Ogni tanto, il dottore rabbrividiva.
Il cane, ora profondamente immerso nel sonno, si moveva di tanto in tanto. Russava, sospirava, contraeva le zampe come in sogno. Smoke giaceva sulle sue ginocchia, un manicotto di calda pelliccia nera. Soltanto la più attenta osservazione poteva scoprirne il movimento del respiro nei fianchi morbidi. Era difficile distinguerne la testa e il corpo in quel cerchio di pelo lucente. Soltanto un nero nasino di raso e una piccola punta di lingua rosata tradivano il segreto.
Il <Dr. Silence sorvegliava e si sentiva a suo agio. Il respiro del cane era calmo. Il fuoco era bene alimentato e avrebbe arso ancora per due ore senza bisogno di essere attizzato. Non sentiva il minimo nervosismo. Desiderava mantenersi nel suo stato mentale ordinario e non forzare nulla. Se il sonno fosse venuto in via naturale, se ne sarebbe lasciato cogliere, e lo avrebbe anche gradito. Il freddo nella stanza, quando il fuoco, più tardi, si sarebbe spento, lo avrebbe certamente risvegliato; e si sarebbe allora deciso a portare con sè, nella camera da letto, i suoi due barometri dormenti. Da diversi indizi psichici riteneva però che la notte non sarebbe trascorsa senza un’avventura. Ma non desiderava forzarne l’arrivo. Voleva conservarsi nello stato normale, e lasciarvi anche gli animali, cosicchè, quando sarebbe arrivato il momento, l’imprevisto non sarebbe stato turbato da alcun eccitamento, nè da alcuno sforzo di attenzione. Molti esperimenti lo avevano reso saggio. Quanto al resto, non aveva paura.
Infatti, dopo un po’ di tempo, si addormentò, e l’ultima cosa che ricordò, prima che l’oblio calasse sui suoi occhi come morbida lana, fu l’immagine di Flame che stiracchiava le zampe sospirando rumorosamente come se cercasse una posizione più comoda, con le zampe e il muso sulla stuoia.
Era passato parecchio tempo, quando si accorse che un peso gli premeva sul petto e qualche cosa gli stava lambendo la faccia e la bocca. Un morbido tocco sulla guancia lo svegliò. Qualche cosa lo stava toccando.
Si pose a sedere ritto, con un sobbalzo, e si trovò di fronte un paio di occhi lucenti tra il verde e il nero. Il musino di Smoke gli stava a livello del viso. Il gattino gli si era arrampicato con le zampe anteriori sul petto.
La lampada illuminava la stanza con una luce attenuata e il fuoco s’era quasi del tutto spento. Il <Dr. Silence si accorse subito che il gatto si trovava in uno stato particolare di eccitazione. Gli appoggiava le zampe anteriori sul petto, alternando l’una e l’altra zampa. Ne sentiva le unghie agganciarsi nella stoffa. Alzava di tanto in tanto una zampina e gli toccava insistentemente la guancia. Il pelo spiccava irto sul dorso; le orecchie erano tese all’indietro. La coda si agitava fortemente. Il gatto lo aveva certamente svegliato di proposito. Non appena se ne rese conto, il dottore lo depose sul bracciale della poltrona e balzò in piedi con un rapido giro su se stesso per affrontare lo spazio vuoto dietro di sè. Per un curioso istinto, le sue braccia, di proprio impulso, assunsero una posizione di difesa frontale, come per schermirsi da una minaccia. Ma nulla era visibile. Solo delle falde di nebbia pendevano pesanti nell’aria, agitandosi lievemente di qua e di là.
La sua mente era ora pienamente all’erta. Le ultime vestigia del sonno se n’erano andate. Rinforzò la fiamma della lampada e osservò attento intorno a sè. Di due cose si rese subito conto: primo, che Smoke era eccitato dal piacere; secondo, che il cane non era più visibile sulla stuoia ai suoi piedi. Era strisciato via nell’angolo della parete più lontano dalla finestra, e di là fissava la stanza con occhi sbarrati, nei quali era palese una espressione di allarme.
Qualche cosa di insolito nel comportamento del cane colpì immediatamente il <Dr. Silence. Chiamandolo per nome, gli mosse incontro per accarezzarlo. Flame si alzò, dimenò la coda, e si avviò lentamente verso il tappetino, emettendo un suono cupo, a metà brontolìo, a metà guaito. Era evidentemente turbato da qualche cosa, e il suo padrone stava per incoraggiarlo, quando la sua attenzione fu improvvisamente richiamata dalle buffonate dell’altro suo compagno a quattro zampe, il gatto. E quello che vide, lo riempì di viva sorpresa.
Smoke era saltato giù dallo schienale della poltrona e occupava ora il centro del tappeto. Là, con la coda ritta e le zampe stecchite, faceva continuamente alcuni passi indietro e in avanti, entro uno spazio ristretto, emettendo quei curiosi e sommessi suoni gutturali di piacere, che soltanto un animale della specie felina sa rendere espressivi come segno di suprema felicità. Le sue zampe stecchite e ricurve all’indietro lo facevano apparire più grande del consueto. Il muso nero aveva un’espressione di beatitudine. I suoi occhi raggiavano di gioia: era in estasi.
Dopo pochi passi si voltava ogni volta d’improvviso e retrocedeva con sussiego, molleggiando sulla punta delle zampe, come al rullo di piccoli tamburi incappucciati. Si comportava esattamente come se si strofinasse contro le caviglie di qualcuno che rimanesse invisibile. Un brivido corse lungo la schiena del dottore, mentre guardava. Il suo esperimento diventava sempre più interessante.
Richiamò l’attenzione del cane sulla esibizione del suo amico, per vedere se anch’esso si accorgeva di quella cosa che stava là sul tappeto, e il comportamento del cane fu subito per lui significativo e probatorio. Flame avanzò fino alle ginocchia del padrone e là si accasciò, rifiutandosi di continuare a procedere. Invano il <Dr. SiSilence lo sollecitò. Il cane dimenò la coda, guaì un poco, poi rimase fermo in attitudine strisciante, guardando alternativamente il gatto e il viso del padrone. Era apparentemente perplesso e allarmato. Il guaito andava sempre più a sprofondarsi nella gola fino a mutarsi in un brutto ringhiare di rabbia repressa, che stava per scatenarsi.
Il dottore lo apostrofò allora con tono imperioso, che, normalmente, avrebbe dovuto avere grande effetto su di lui. Ma ancora, il cane, pur sobbalzando in risposta, rifiutò di avanzare. Fece dei movimenti d’assaggio, s’impennò come in procinto di tuffarsi nell’acqua, fu sul punto di abbaiare, scorrazzò qua e là sul tappeto. Fino a quel momento, non vi era una vera e propria paura nei suoi modi, ma si sentiva sicuramente a disagio e in ansia. Nulla lo avrebbe indotto ad avvicinarsi sino a quel punto della stanza dove il gatto svolgeva la sua pantomima. Una volta compì un giro completo, ma sempre tenendosi fuori di portata. Alla fine, ritornò alle ginocchia del suo padrone e vi si strofinò contro con forza. Flame non amava le esibizioni: questo era chiaro.
Per alcuni minuti il <Dr. Silence seguì il comportamento del gatto con profonda attenzione, senza interferire. Poi, chiamò l’animale per nome.
«Smoke, misteriosa bestiolina, che stai facendo?» domandò, con inflessione carezzevole.
Il gatto gli gettò uno sguardo, soddisfatto nella sua estasi, ammiccando con gli occhi, troppo felice per essere distolto. Il dottore gli parlò di nuovo. Lo chiamò parecchie volte, e ogni volta il gatto gli si rivolse con gli occhi lucenti, inebriato da una delizia interiore, aprendo e chiudendo la bocca, col corpo ampio e rigido per l’eccitazione. Ma non interruppe mai, neanche per un attimo, il suo ristretto andirivieni.
Il dottore annotò esattamente quello che il gatto faceva. Come poteva osservare, Smoke compiva lo stesso numero di passi ogni volta, circa sei o sette; poi si girava di botto e ripeteva il percorso. Sul disegno delle grandi rose del tappeto misurò il percorso dell’animale. Ne osservò la direzione e la linea. Si comportava esattamente come se si strofinasse contro qualche cosa di solido. Senza dubbio, là, su quella striscia del tappeto, stava qualche cosa, qualche cosa di invisibile per il dottore, qualche cosa che allarmava il cane, ma che procurava al gatto un piacere immenso.
«Piccolo Smoke!» lo chiamò di nuovo. «Piccolo Smoke, mistero nero, che cosa ti eccita?».
Di nuovo il gatto lo guardò per un breve secondo, poi continuò il suo viavai obbligato, felice oltre ogni dire, intensamente assorto. Ad un tratto, mentre seguiva la scena, il dottore si accorse che un sottile malessere turbava le profondità del suo essere, che in quel momento era tutto proteso a interpretare il curioso comportamento della misteriosa creatura davanti a lui.
Si faceva strada in lui una comprensione del tutto nuova sul mistero connesso a tutta la specie dei felini, ma specialmente a quel suo membro comune, il gatto domestico. Il loro vivere segreto, la loro strana evanescenza e lontananza di sensazioni, la loro incalcolabile sensibilità, assumevano un aspetto nuovo. Quanto remote da ogni sorta di comprensione umana sono le fonti delle loro attività sfuggenti! Mentre sorvegliava l’indescrivibile comportamento della piccola creatura incedente con sussiego lungo la striscia del tappeto sotto i suoi occhi, che in aperto connubio con le potenze nere dava il benvenuto a chissà quale spaventevole visitatore, un sentimento stranamente somigliante alla paura gli si agitava nel cuore. L’indifferenza dell’animale per il genere umano, la sua serena superiorità, lo colpì violentemente con la potenza di un nuovo significato. Remoti e inaccessibili apparivano i segreti propositi della sua vita reale, alieni dalla onestà semplice e balorda degli altri animali. L’assoluta importanza del suo significato gli fece venire in mente le parole del fumatore d’oppio: «Nessuna dignità è perfetta che a un dato punto non si unisca al misterioso». Si rese immediatamente conto che la presenza del cane in quella stanza nebbiosa e infestata sulla collina di Putney gli era oltremodo utile. Era contento di sentire che la fidata personalità di Flame si trovava al suo fianco. Il feroce brontolìo alle sue calcagna gli riusciva un suono gradito. Era lieto di udirlo. La strana marcia del gatto gli incuteva disagio.
Visto che Smoke non prestava più attenzione alle sue parole, si decise di agire. Si sarebbe strofinato anche contro la sua gamba? Volle coglierlo di sorpresa e osservare. Avanzò rapidamente, d’un tratto, e si collocò sulla stessa striscia di tappeto su cui l’animale procedeva.
Ma nessun gatto viene mai colto di sorpresa! Nello stesso istante in cui egli occupò lo spazio dell’intruso, ponendo i piedi sulle rose del tappeto, nel bel mezzo di quell’andirivieni, Smoke si arrestò in tronco, fece le fusa, e si accovacciò, alzando il musino con lo sguardo più innocente negli occhi verdi. Si sarebbe potuto giurare che rideva. Era ritornato un bambino. In un solo secondo aveva ritrovato il suo semplice atteggiamento domestico. Guardò il dottore in modo da fargli capire che lui, Smoke, era l’essere normale, e che il comportamento eccentrico, degno di essere osservato, era proprio quello del dottore. Da furbo matricolato, riusciva a compiere la trasformazione con stupefacente spontaneità.
«Piccolo, meraviglioso attore!» rise il dottore suo malgrado, e si chinò per accarezzare quel lucente dorso nero. Ma, ad un tratto, appena ne toccò il pelo, il gatto si voltò e gli soffiò contro in modo irritato, graffiandogli la mano. Poi, con rapido voltafaccia, guizzò come un’ombra attraverso il pavimento, e un attimo dopo stava tranquillamente accovacciato accanto alle cortine della finestra, pulendosi il muso come se nulla lo interessasse nel mondo all’infuori della pulizia della sua coda e dei suoi baffi.
Il <Dr. Silence si raddrizzò e trasse un lungo sospiro. Si rendeva conto che lo spettacolo era temporaneamente giunto a termine. Il cane, frattanto, che aveva sorvegliato la scena con evidente disapprovazione, si era nuovamente accovacciato sulla stuoia presso il fuoco, senza più brontolare. Il dottore ebbe la sensazione che quella cosa, che era entrata nella stanza mentre dormiva, allarmando il cane, e recando felicità al gatto, se ne era uscita di nuovo, lasciando tutto com’era prima. Qualunque cosa fosse stata ad eccitare le gioiose manifestazioni dell’animale, quella cosa, si era per il momento ritirata.
Se ne rese conto per intuito. Smoke evidentemente se ne accorse pure, poichè si degnò di ritornare al camino e di saltare sulle ginocchia del padrone. Il <Dr. Silence, paziente e deciso, ricorse di nuovo al suo libro. Gli animali ben presto tornarono a dormire. Il fuoco ardeva allegramente. La nebbia fredda s’infiltrava dall’esterno nella stanza attraverso ad ogni possibile fessura.
Per lungo tempo regnarono il silenzio e la pace. Il dott. Silence se ne valse per prendere scrupolosi appunti. Vi inserì, per l’uso futuro che ne avrebbe potuto fare in altri casi, una esauriente analisi di quanto aveva osservato, specialmente in relazione all’effetto prodotto sui due animali. Impossibile qui, nè riuscirebbe intelligibile al lettore non versato nella conoscenza della materia familiare a uno psichico scientificamente allenato quale il <Dr. Silence, soffermarsi sui particolari di quelle osservazioni. Ma al dottore, tutto era chiaro, fino ad un certo punto… e quanto al resto, non aveva che ad attendere ed osservare. Fino a quel momento, almeno, si rese conto che, mentre dormiva nella poltrona, vale a dire mentre la sua volontà era assopita, la stanza aveva subìto l’intrusione di ciò che riconosceva come una forza intensamente attiva, che avrebbe potuto in seguito palesarsi come qualcosa di più che non una forza cieca, bensì come una personalità ben distinta.
Fino a quel momento, quella forza aveva fatto poco effetto su di lui, ma aveva agito direttamente sugli organismi più semplici degli animali. Stimolava nettamente i centri dell’essere psichico del gatto, provocando uno stato di immediata felicità (intensificando cioè la sua sensibilità probabilmente allo stesso modo nel quale una droga o uno stimolante intensificano quello di un essere umano); mentre allarmava il cane, meno sensitivo, incutendogli una vaga apprensione e una certa angoscia.
Il suo intervento e la sua esibizione di energia erano valsi a disperdere temporaneamente quella forza, ma era convinto, nè mancavano gli indizi, perfino mentre stava lì seduto a prendere appunti, che essa gli rimaneva tuttora vicina, in via condizionale, se non spaziale, e stava, per così dire, raccogliendo l’energia per un secondo attacco.
Intuiva inoltre che i rapporti fra i due animali avevano subìto un sottile mutamento. Il gatto era diventato smisuratamente superiore, fiducioso, sicuro di sè e della propria particolare regione, mentre Flame risultava indebolito da un attacco che non comprendeva, e contro il quale non sapeva reagire. Benchè non ancora impaurito, appariva diffidente, pronto ad agire contro una minaccia paurosa che presentiva vicina.
Non era più paterno e protettivo verso il gatto. Smoke teneva la chiave della situazione; e tanto lui che il gatto lo sapevano.
Così, mentre i minuti passavano, il <Dr. Silence sedeva e aspettava, vigile e proteso verso ogni percezione, curioso di conoscere quando l’attacco si sarebbe rinnovato, e fino a qual punto sarebbe stato deviato dagli animali, per essere diretto contro di lui.
Il quaderno gli giaceva accanto, sul pavimento. Le sue annotazioni erano terminate. Con una mano tuffata nel pelo del gatto e le zampe anteriori di Flame appoggiate ai suoi piedi, il dottore sonnecchiava anche lui a suo agio davanti al fuoco ben caldo, mentre le ore passavano e il silenzio si approfondiva verso la metà della notte.
Era forse l’una dopo mezzanotte, quando il <Dr. Silence spense la lampada e accese la candela, in procinto di salire per mettersi a letto. Allora Smoke si svegliò di colpo con un forte e acuto ronfare e si rizzò a sedere. Non si stiracchiò, non si pulì, non si voltò. Rimase in ascolto. Il dottore, sorvegliandolo, si accorse che un indefinibile mutamento si era propagato in quello stesso momento nella stanza. Era subentrata una rapida ricostituzione delle forze entro le quattro pareti; un nuovo rapporto delle loro forze personali reciproche. L’equilibrio era distrutto, l’armonia di prima era scomparsa. Smoke, vero barometro sensitivo, era stato il primo ad avvertirlo, ma il cane non aveva tardato a seguirlo, poichè abbassando gli occhi, notò che Flame non dormiva più. Giaceva con gli occhi sbarrati, e in quello stesso istante si pose a sedere sulle sue ampie anche e cominciò a brontolare sordamente.
Il <Dr. Silenee era sul punto di prendere i fiammiferi per riaccendere la lampada, quando un movimento nella stanza, appena percettibile, lo arrestò. Smoke saltò giù dalle sue ginocchia e avanzò di pochi passi attraverso il tappeto. Poi si arrestò e guardò fisso. Il dottore si pose sul tappeto per osservare.
Mentre si alzava, il suono si ripetè, e il dottore si accorse che non era nella stanza come prima aveva supposto, ma fuori, e sembrava provenire da più direzioni diverse. Era come un violento strofinìo contro i vetri della finestra, e al tempo stesso il rumore di qualche cosa che sfregasse contro la porta, fuori, nel vestibolo. Smoke avanzò impettito attraverso il tappeto, rizzando la coda, ed andò a sedersi a pochi palmi dalla porta.
L’influenza che aveva distrutto le armoniose condizioni della stanza aveva apparentemente agito già in precedenza proiettando la causa nell’atmosfera. Evidentemente qualche cosa stava per accadere.
Per la prima volta, quella notte, il <Dr. Silence esitò. Il pensiero di quel buio e stretto corridoio, soffocato dalla nebbia, e privo di ogni sensazione umana, era oltremodo sgradevole. Egli si accorse che un lieve brivido gli accaponava la pelle. Sapeva, tuttavia, che il fatto di aprire la porta non era per se stesso indispensabile all’invasione vera e propria della stanza, dato che nè porte nè finestre nè alcun’altra barriera solida avrebbero potuto opporre un ostacolo qualsiasi alla cosa che cercava di entrare. Eppure, l’apertura della porta sarebbe stata significativa e simbolica, ed egli decisamente se ne astenne.
Ma fu per un attimo solo. Smoke, ritornando sui suoi passi con espressione di impazienza, gli fece inconsciamente ricordare i suoi propositi. Si mosse, allora, sorpassando l’animale, seduto e vigile, e di colpo, spalancò deliberatamente la porta, per tutta la sua larghezza.
Ciò che avvenne in seguito, si svolse nella luce pallida e incerta della candela posata sulla cappa del camino.
Al di là della porta, il dottore poteva scorgere l’atrio, scarsamente illuminato, e fitta nebbia.
Null’altro era visibile… nulla, all’infuori dell’attaccapanni, le lance africane in linee oscure contro la parete e la sedia di legno con l’alto schienale, collocata grottescamente sotto di esse, sul pavimento di linoleum. Per un istante, la nebbia parve muoversi e infittirsi bizzarramente; ma questo poteva anche attribuirsi alle insidie dell’immaginazione. La porta si era aperta, in realtà, davanti al nulla.
Smoke, tuttavia, pareva pensarla diversamente, e il cupo brontolare del cane dalla stuoia, nel fondo della stanza, sembrava confermare questo giudizio.
Contegnoso e compenetrato della propria importanza, il gatto si era infatti rizzato sulle zampe, e dopo essersi avanzato verso la porta, stava introducendo lentamente qualcuno nella stanza. Nulla poteva essere più evidente. Avanzò da un lato, chinando la testa con grande zelo, tenendo la coda ritta in alto, come l’asta d’una bandiera. Prese una direzione precisa, si esibì di qua e di là, dando segni di suprema soddisfazione. Era nel suo elemento. Faceva gli onori di casa, favorendo l’intrusione, apparentemente convinto che i suoi compagni, il dottore e il cane avrebbero parimenti dato il benvenuto a chi entrava.
L’intruso era ritornato, per un secondo attacco.
Il <Dr. Silence indietreggiò lentamente e prese posizione sulla stuoia davanti al camino, immobilizzandosi in un atteggiamento di concentrata attenzione.
Notò che Flame gli stava al fianco, con la stanza di fronte a sè, col corpo immobile, agitando la testa rapidamente da un lato all’altro, con un curioso movimento dondolante. Aveva gli occhi sbarrati, il dorso rigido, il collo e il muso tesi in avanti, le zampe allungate e pronte al balzo. Feroce, pronto all’attacco o alla difesa, eppure terribilmente perplesso e forse già un po’ intimidito, stava a guardare, col pelo irto sulla schiena e sui fianchi, come se un vento lo agitasse. Nella cupa luce del fuoco, appariva come un grande lupo dal pelo giallo, silenzioso, con gli occhi lancianti un fuoco inestinguibile, formidabile. Era Flame, il terribile.
Smoke, nel frattempo, avanzò dalla porta verso il centro della stanza, adottando lo stesso passo, lentissimo, di un compagno invisibile. Dopo pochi passi, si fermò e cominciò a prendere un aspetto soddisfatto, ammiccando con gli occhi.
Vi era qualche cosa di intenzionalmente carezzevole nel suo comportamento mentre stava indeciso sul tappeto, con lo scopo evidente di effettuare una specie di presentazione fra l’intruso e il suo amico e alleato canino. Assumeva i modi più affabili, facendo le fusa, dimenandosi persuasivamente dall’uno all’altro, e facendo dei rapidi passi d’assaggio prima in una direzione, poi nell’altra.
Fra di loro era sempre esistita una perfetta intesa, in ogni cosa! Flame avrebbe ora sicuramente apprezzato le intenzioni di Smoke, e si sarebbe acquetato.
Ma il vecchio cane non palesava alcuna soddisfazione. Mostrava i denti, sollevando le labbra sino a mettere allo scoperto le gengive, e rimaneva fermo, impalato, con gli occhi fissi e i fianchi sussultanti. Il dottore indietreggiò ancora un po’, sorvegliandone attentamente ogni minima mossa di Smoke, e fu proprio allora che, dal comportamento e dagli atteggiamenti del gatto, indovinò che non uno solo, ma parecchi, erano gli intrusi che questi stava introducendo nella stanza con quel suo strano cerimoniale di presentazione.
Cominciò infatti ad incrociare dall’uno all’altro di quei visitatori invisibili, guardando in su ad ogni giro e cercando in pari tempo di persuadere il cane ad essere cortese con tutti loro. L’intruso originario era ritornato alla carica con dei compagni. Il dottore si rese conto altresì che l’intruso era qualche cosa di più che una forza che agisse ciecamente, impersonale se pure distruttiva. Era una «personalità», anzi, una «grande personalità». Si era fatta accompagnare, per essere assistita, da un esercito di altre personalità, di grado minore, sia pure, ma simili ad essa.
Con tutto il suo essere proteso verso la difesa, il dottore si strinse nel suo angolo, contro la cappa del camino, ed attese, poichè si rendeva pienamente conto che l’attacco si andava ora estendendo anche a lui, come agli animali, e doveva perciò stare in guardia. Fissò gli occhi nell’atmosfera caliginosa, sforzandosi invano di vedere quello che il gatto e il cane vedevano; ma il lume della candela gettava una luce incerta e tremula attraverso la stanza e i suoi occhi non riuscivano a vedere alcunchè. Sul pavimento, Smoke, si moveva molleggiando in faccia a lui, come un’ombra nera. Con gli occhi roventi, girava la testa, cercando tuttora, con gesti insinuanti e moine infinite, di effettuare a modo suo le presentazioni.
Ma tutto fu inutile. Flame rimaneva sempre inchiodato al suo posto, immobile come una figura scolpita nel marmo.
Passarono alcuni minuti, durante i quali soltanto il gatto si muoveva. Poi, subentrò un radicale mutamento. Flame cominciò a indietreggiare verso la parete. Muoveva la testa da un lato all’altro, mentre camminava, voltandosi talvolta come per avventare qualche cosa che stava quasi dietro di lui. Essi stavano avanzando verso di lui, cercando di circondarlo. Lo smarrimento del cane si fece da quel momento più intenso. Parve al dottore che la rabbia dell’animale si mutasse in terrore vero e proprio, e ne fosse addirittura sopraffatto. Il feroce ringhiare risuonava paurosamente come un guaito, e più d’una volta il cane cercò di ritirarsi dietro le gambe del padrone, come per trovare una via di scampo. Cercava evidentemente di evitare qualche cosa che dappertutto sembrava bloccargli la strada.
Il palese terrore di quell’indomito lottatore impressionò penosamente il dottore, eccitando la sua impazienza. Non aveva mai visto, prima d’allora, il cane dare segni di paura, e si sentiva tutto disorientato nel dover assistere a simile prova. Sapeva, comunque, che il cane non avrebbe ceduto facilmente, e comprese che gli era realmente impossibile verificarne in alcun modo le sensazioni. Ciò che Flame sentiva e vedeva, doveva essere terribile, per trasformarlo tutt’ad un tratto in un vile. Affrontava certamente qualche cosa che lo impauriva assai di più del dover solo perdere la vita. Il dottore gli rivolse poche rapide parole d’incoraggiamento, e ne accarezzò il pelo ispido, senza molto successo, però. Il cane sembrava trovarsi ormai al di là di un conforto del genere. Il collasso del vecchio animale seguì infatti molto presto.
Smoke, intanto, rimaneva indietro, osservando l’avanzata, ma senza prendervi parte. Adagiato, soddisfatto e in attesa, considerava evidentemente che tutto filava per benino, secondo i suoi desideri. Stava palpando il tappeto con le zampe anteriori… lentamente, laboriosamente, come se le sue zampe fossero spalmate di miele. Il rumore che facevano gli artigli mentre incidevano il tessuto era chiaramente percettibile. Si mostrava soddisfatto, ammiccava, faceva le fusa.
Improvvisamente il cane emise un breve e penetrante latrato e saltò pesantemente da una parte. I denti, scoperti, tracciarono una linea bianca nella penombra. Subito dopo diede un balzo sorpassando le gambe del padrone, quasi dalla parte opposta, e come una freccia scattò nel mezzo della stanza, dove si accanì contro le pareti e i mobili. Il latrato era significativo. Il dottore lo aveva udito altre volte e sapeva cosa volesse dire: era l’urlo del lottatore contro gli intrusi e significava che il vecchio animale aveva ritrovato se stesso e il suo coraggio. Era forse soltanto il coraggio della disperazione, ma la lotta doveva in ogni modo essere terribile. Il <Dr. Silence comprese pure che non doveva, per il momento, intervenire. Flame doveva combattere a modo suo.
Anche Smoke aveva inteso quel minaccioso latrato. Il gatto capiva, finalmente, che le cose si mettevano male. Attraverso le ombre tenebrose di quella stanza infestata, i due animali parvero scambiarsi un segreto segnale di angoscia. Con un pietoso miagolìo, il gatto trotterellò vivacemente nel buio più fitto, presso le finestre. Cosa volesse significare con questo, solo i dotati dell’intelligenza dei felini avrebbero potuto spiegarlo. Comunque fosse, si era finalmente schierato dalla parte del suo amico. E il piccolo animale rappresentava un acquisto.
In quello stesso momento, il cane cercò di raggiungere la porta. Il dottore lo vide attraversarla rapido e passare nell’atrio come un lampo di luce gialla. Attraversò di slancio il linoleum del pavimento e volò su per le scale. Ma un secondo dopo riapparve, precipitandosi giù per i gradini e abbattendosi sul pavimento, gemente, strisciante, atterrito. Il dottore lo vide rifugiarsi nuovamente nella stanza e trascinarsi lungo la parete, verso il gatto. Era, dunque, invasa anche la scala? Stavano essi anche nell’atrio? Era tutta la casa affollata dal pavimento al soffitto?
Quel pensiero veniva ad aggiungersi all’acuta apprensione che il dottore già provava alla vista della sconfitta del cane. La sua angoscia personale era infatti aumentata a un grado notevole, durante quegli ultimi minuti, e continuava ad aumentare costantemente. Si rendeva conto che l’attentato alla propria vitalità aumentava sempre più, e che l’attacco ora si dirigeva contro di lui, anche più violento che non contro il cane sconfitto, o il gatto sin troppo ingannato.
Tutto questo parve susseguirsi tanto rapido e inatteso, che il <Dr. Silence non fu quasi più in grado di ricordare e concatenare i fatti. Tutto si svolse con tale sconcertante rapidità e terrore; la luce era tanto incerta; i movimenti del gatto nero tanto difficili a seguirsi sull’oscuro tappeto, e il dottore stesso tanto stanco e colto di sorpresa, che trovò quasi impossibile osservare accuratamente, o ricordare in seguito in modo preciso, cosa avesse visto o in quale ordine gli incidenti avessero avuto luogo. Non riusciva a comprendere quale inganno della vista gli facesse sembrare come il gatto dapprima raddoppiato di volume, e poi ingrandito a dismisura, sicchè sembrava ce ne fossero una dozzina, che si lanciavano silenziosamente qua e là sul pavimento, saltando morbidamente sulle sedie e sui tavoli, passando come ombre dalla porta aperta in fondo alla stanza, tutti neri come il peccato, dai verdi occhi lucenti, che lanciavano fuoco in tutte le direzioni. Sembravano riflessi da una ventina di specchi, collocati intorno alle pareti, ad angoli diversi. Nè potè il dottore rendersi conto, in seguito, perchè le dimensioni della stanza apparissero alterate e accresciute di proporzioni, e perchè vi fosse uno spazio dietro di lui, dove ordinariamente avrebbe dovuto trovarsi la parete. Il ringhiare del cane adirato e atterrito risuonava talvolta molto lontano. Il soffitto sembrava essersi sollevato più in alto di prima, e molti mobili avevano cambiato aspetto e si erano trasformati in modo sorprendente.
Tutto era confuso e lo confondeva, come se la piccola stanza che aveva veduto poco prima fosse sprofondata e si fosse trasformata nelle dimensioni di un altro locale più vasto che lo avesse accolto e travolto, col suo esercito di gatti e le sue strane distanze, in una specie di visione.
Ma questi cambiamenti si verificarono un po’ più tardi, in un momento in cui la sua attenzione era talmente concentrata sui modi di comportarsi di Smoke e del cane, che poteva soltanto osservarli, per così dire, col subcosciente. L’eccitamento, la tremula luce della candela, l’apprensione che sentiva per il cane, l’atmosfera impregnata di nebbia che gli impediva di vedere, erano certamente gli alleati meno adatti per una osservazione scrupolosa.
Dapprima si accorse soltanto che il cane ripeteva ad intervalli il suo breve, pauroso latrato, scattando inutilmente nel vuoto, due spanne circa dal suolo. Una volta, balzò in alto e in avanti, dilaniando furiosamente coi denti e le zampe, con un rumore di lupi in lotta, ma fu soltanto per lanciarsi nuovamente al riparo contro la parete dietro di lui. Poi, dopo essere rimasto disteso e immobile per un istante, si sollevò come per scattare di nuovo, ringhiando orribilmente e descrivendo brevi semicerchi con la testa abbassata. Smoke, per tutto questo tempo, miagolava pietosamente vicino alla finestra, come se cercasse di attirare l’attacco su di sè.
Infine, il tumulto indescrivibile di quella spaventevole tregenda sembrò deviare dal cane e dirigersi sulla sua stessa persona. Il cane aveva spiccato un altro salto ed era caduto all’indietro con fracasso nell’angolo, dove si mise ad abbaiare tanto forte, nella sua ira selvaggia, che sembrò destare i morti, prima di ridursi a guaiti lamentosi ed ammutolire del tutto per giacere completamente immobile. Subito dopo, l’angoscia del dottore si fece intollerabilmente acuta. Aveva già abbozzato una mezza mossa in avanti per gettarsi alla riscossa, allorchè un velo più fitto della sola nebbia sembrò calare sulla scena, nella lugubre stanza, avvolgendo pareti, animali e camino in una nuvola tenebrosa che avviluppava e intorbidiva la sua stessa mente. Altre forme muovevano silenziosamente attraverso il campo visivo, forme che aveva conosciuto in altri esperimenti e che lo atterrivano. Pensieri odiosi cominciavano a fargli ressa nel cervello, sinistri suggerimenti d’infamia gli si presentavano sotto veste seducente. Gli sembrava che il cuore si fosse fatto pesante, coperto di ghiaccio. La mente vacillava. Cominciava a perdere la memoria. Aveva perduto nozione della sua identità. Non sapeva più dove si trovasse, cosa dovesse fare. Le fondamenta della sua stessa forza apparivano scosse. La sua volontà sembrava paralizzata. Fu proprio in quel momento che la stanza parve riempirsi di quell’orda di gatti, tutti neri come la notte, tutti silenziosi, tutti con gli occhi lampeggianti di verdi fosforescenze.
Le dimensioni del luogo si alteravano, cambiavano di nuovo. Si trovava ora in uno spazio molto più vasto. I guaiti del cane risuonavano lontanissimi. I gatti, innumerevoli, intorno a lui si affannavano qua e là, silenziosamente, seguendo il loro giuoco distruttivo e travolgente di sovrumana perfidia, tessendo sul pavimento il disegno dei loro oscuri propositi tenebrosi. Il dottore lottava fortemente, con fredda tenacia, per raccogliersi, e ricordare le parole di potenza che aveva pronunciate in altre occasioni, in simili macabre circostanze, nelle quali la sua pericolosa pratica professionale lo aveva posto più volte. Ma non riuscì a ricordare nulla, ordinatamente. Una nebbia gli aveva invaso la mente e la memoria. Si sentiva smarrito e le forze erano svanite. Le profondità interiori del suo essere erano troppo impegnate e turbate per poter raccogliere validamente le forze psichiche e conseguire gli effetti propiziatori che urgevano.
Era un incantesimo, senz’altro, come si rese conto, più tardi, un potente incantesimo proiettato sulla sua immaginazione da qualche formidabile personalità che operava nell’ombra, nel nulla. Ma non se ne accorgeva abbastanza e, come accade nell’inganno dell’incantesimo autentico, si sentiva incapace di distinguere dove il vero finisse e cominciasse l’illusione. Si trovava in quel momento precipitato nello stesso vortice che aveva cercato di allettare il gatto alla distruzione attraverso un istintivo piacere, e minacciato di sopraffare completamente il cane attraverso il terrore.
Poteva sentire, dietro di lui, nel camino un suono altissimo, come un rimbombo o un mugolìo del vento. Le finestre si scuotevano. La candela si agitava e si spegneva. L’atmosfera glaciale gli si stringeva tutt’intorno, col freddo della morte, e un alto e violento suono passavagli sopra la testa come se il soffitto si fosse sollevato a grande altezza o la casa si fosse scoperchiata. Sentì chiudersi la porta. Ebbe l’impressione di un rumore lontano… Si sentì perduto, senza rifugio nelle profondità lacerate della sua anima. Eppure resisteva ancora, anche quando il crescendo sovrannaturale della lotta parve avvicinarsi sempre più, fino a travolgerlo… Era entrato, definitivamente, nella corrente delle forze destate da Pender! Sapeva che doveva sostenere la lotta sino alla fine o giungere ad una conclusione che fosse degna di un uomo, degna di lui. Qualcosa della regione del freddo estremo parve sovrastarlo e sommergerlo.
E allora, ad un tratto, attraverso la nebbia confusa che turbinava intorno a lui, si levò, lentamente, la personalità che, fino a quel momento, aveva diretto la battaglia. Una forza, che lo scuoteva come la tempesta scuote una foglia, entrò nel suo essere, e vicinissimo ai suoi occhi, a livello del viso, si trovò a guardare nel relitto di un volto, grande ed oscuro, un volto terribile, nella sua stessa disperante rovina.
Poichè rovinato era, e terribile! L’impronta dell’infamia spirituale si trovava impressa dovunque in quelle fattezze disfatte. Gli occhi, la faccia, i capelli, si designavano a livello dei suoi, e per un lasso di tempo che non seppe poi mai misurare, nè determinare con esattezza, i due, l’uomo e la donna, si guardarono fissi nel volto e giù, nel cuore.
Quella del <Dr. Silence, l’anima buona e altruista, incapace del male, si irrigidì contro la tenebrosa donna disincarnata, il cui unico scopo era il male, e la cui anima si trovava dalla parte delle potenze oscure.
Fu questo il punto decisivo in cui l’essere toccò le profondità della sua potenza e cominciò a riportarlo lentamente, ma risolutamente, alla superficie. Era cosciente, ne era certo, dello sforzo, ma non gli sembrava più sovrumano. Poichè si rendeva conto del carattere della forza dell’avversaria, ricorse al fondo di bontà che viveva in lui, per affrontarla e per vincerla. Le forze interiori si agitarono, e vibrarono in risposta al suo appello. Non accorsero dapprima prontamente com’era loro abitudine, poichè sotto la forza dell’incantesimo erano state diabolicamente abbandonate all’inazione. Ma sorsero, infine, con sforzo supremo, dall’intima natura spirituale che, con tanto tempo e tanta pena, aveva imparato, in circostanze simili, a richiamare in vita. Potenza e fiducia arrivarono con l’afflusso di quelle forze. Cominciò a respirare profondamente e regolarmente, e ad assorbire in se stesso le forze a lui opposte, volgendole a suo vantaggio. Cessando di resistere e permettendo che la corrente mortale si riversasse tutta dentro di lui, senza incontrare ostacolo, si valse della stessa forza fornita dalla sua avversaria per accrescere così, smisuratamente, la propria.
Questa alchimia spirituale egli l’aveva ben imparata! Sapeva che di forza, alla fin fine, ce n’è dovunque, ed è una sola, e sempre la stessa. È il movente che sta dietro di essa, che la rende buona o malvagia. E il movente suo era completamente privo di egoismo. Sapeva che, semprechè non fosse stato privato della padronanza del suo essere, era possibile assorbire in se stesso in via sostitutiva quelle radiazioni malvagie e cambiarle magicamente in propositi buoni. E, poichè il suo movente era puro, e la sua anima senza paura, quelle radiazioni non potevano più arrecargli alcun danno.
Si trovò così in pieno nella corrente delle forze del male, inconsciamente attratte da Pender, deviandone il percorso su di sè. Dopo essere passate attraverso il filtro purificante della sua abnegazione, quelle energie non fecero che aumentare la sua provvista di esperienza, di conoscenza, e quindi di potenza. Man mano che l’autocontrollo gli ritornava, realizzava il suo proposito, sia pure tremando, e lo metteva in esecuzione.
La lotta era tuttavia atroce. Malgrado il gelido brivido nell’aria, il sudore gli grondava dal volto. Infine, lentamente, la tenebrosa e spaventevole immagine svanì. L’incantesimo abbandonò la sua anima. Le pareti e il soffitto riassunsero le loro proporzioni normali. Le forme si sciolsero nuovamente nella nebbia. Il turbinìo dei gatti che si agitavano nell’ombra disparve.
Col ritorno della coscienza della propria identità, il <Dr. Silence si vide restituito alla piena padronanza della sua forza volitiva. Con voce profonda e modulata, cominciò ad emettere certi suoni ritmici che lentamente si svolsero per l’aria come una marea che salisse, riempiendo la stanza di potenti attività vibratorie che sommersero nel proprio crescendo tutte le irregolarità delle vibrazioni minori. Nello stesso tempo, tracciò certi segni nell’aria, certi gesti che gli erano noti. Per alcuni minuti continuò a pronunciare quelle parole, finchè infine, il loro volume crescente dominò tutta la stanza ed ogni manifestazione delle potenze avverse. Poichè, esattamente come aveva indagato l’alchimia spirituale che può convertire le forze malvagie col sollevarle a sfere più alte, così conosceva, per lungo studio, l’uso occulto dei suoni, e il loro effetto diretto sulla regione plastica, in cui le forze del male spirituale elaborano i loro propositi feroci. L’armonia, ricostituita innanzitutto nell’anima sua, si estese quindi alla stanza e a quelli che l’occupavano.
Dopo di sè, il primo di cui doveva occuparsi, era il vecchio cane, disteso nel suo angolo. Flame cominciò subito ad emettere dei suoni di piacere, quel «qualche cosa» fra il brontolìo e il grugnito che i cani fanno sentire quando vengono reintegrati nella fiducia del loro padrone. Il <Dr. Silence sentì battere la coda del cane contro il pavimento. Il grugnito, il battito di quella coda, toccarono la profondità dell’affetto, nel cuore dell’uomo. Ebbe un’idea esatta delle angoscie che quella muta creatura prostrata doveva aver sofferto.
In seguito, di fra ombre intorno alla finestra, un ronfare rumoroso annunciò il ritorno del gatto al suo stato normale. Smoke avanzava sul tappeto. Sembrava molto compiaciuto di sè. Aveva un aspetto gaio, e una espressione di suprema innocenza. Non era più un gatto di ombre, ora, ma un gatto reale, in pieno possesso delle sue normali e perfette facoltà coscienti. In diritto, calcando mollemente sulle zampe con quel contegno e quel sussiego in cui riviveva, infusa nei suoi lontani antenati, la maestà dell’Egitto. I suoi occhi non lampeggiavano più, ma brillavano costantemente, pacificati. Non irradiavano eccitazione, ma sapienza. Era chiaro che fosse ansioso di fare ammenda per il danno cui inconsapevolmente si era prestato, in virtù della sua sottile costituzione elettrica.
Facendo le fusa, si avviò verso il padrone e si strofinò vigorosamente contro le sue gambe. Poi ristette sulle zampe posteriori, si appoggiò con quelle anteriori alle sue ginocchia e lo guardò supplichevole nel viso. Volse poi la testa verso l’angolo in cui il cane ancora giaceva, e gli palpò debolmente e pateticamente la coda.
Il <Dr. Silence comprese. Si chinò e accarezzò la pelliccia vivente dell’animale, osservando la linea lucente di scintille azzurre che seguivano il movimento della sua mano giù per il dorso. Poi, avanzarono insieme verso l’angolo in cui il cane giaceva.
Smoke arrivò per primo e poggiò gentilmente il suo musino contro il muso dell’amico, emettendo dalla gola piccoli suoni dolci pieni di affetto. Il dottore accese la candela e la portò vicino ad essi. Vide il cane disteso sul fianco contro il muro. Era stremato di forze. La schiuma gli pendeva ancora dalle ganasce. Rispose con gli occhi e la coda al richiamo del padrone, ma era evidentemente molto debole e sfatto. Smoke continuò a strofinarsi contro la testa, il muso e gli occhi del cane, salendogli talvolta perfino sul corpo e frugando nel folto pelo giallo. Flame rispondeva ogni tanto con qualche lieve leccatina, per lo più stranamente deviata.
Il <Dr. Silence intuì che doveva essere accaduto qualche cosa di grave, e gli si strinse il cuore. Accarezzò il corpo dell’animale, passandovi sopra la mano per cercare se vi erano contusioni o fratture, ma non trovò nulla. Gli mise davanti il resto dei panini imbottiti e del latte, ma il cane rovesciò goffamente il tegame e fece cadere i panini fra le zampe, cosicchè il dottore dovette dargli da mangiare con le proprie mani. Nel frattempo, Smoke miagolava pietosamente.
Allora il <Dr. Silence cominciò a capire. Attraversò la stanza, si collocò nel punto più lontano e lo chiamò ad alta voce:
«Flame, vecchio mio! Vieni!».
In ogni altra occasione il cane gli sarebbe stato addosso in un attimo, abbaiando e saltandogli fino al viso. Ora, invece, si alzò in piedi, goffamente. Partì in corsa, dimenando la coda con maggiore vivacità. Cozzò un po’ dapprima contro una sedia e poi dritto in un tavolo. Smoke gli trotterellava al fianco, facendo del suo meglio per guidarlo. Ma era inutile. Il <Dr. Silence dovette sollevarlo nelle braccia e portarlo come un bambino. Era cieco!

III

Una settimana dopo, quando il <Dr. Silence fece visita all’umorista per vederlo nella nuova casa, lo trovò bene, in via di ricupero delle sue forze e già di nuovo preso dai suoi scritti. Lo sguardo infestato era svanito dai suoi occhi. Sembrava allegro e fiducioso.
«L’umorismo è ritornato?» chiese ridendo il dottore, appena si trovarono comodamente seduti nella stanza che dava sul parco.
«Non ho più avuto nessun disturbo, dacchè ho lasciato quel luogo spaventevole», rispose Pender con riconoscenza; «e grazie a voi…».
Il dottore lo interruppe con un gesto.
«Questo non ha importanza», disse. «Discuteremo i vostri nuovi piani in seguito, e così pure il mio progetto di liberarvi da quella casa e di aiutarvi a sistemarvi altrove. Naturalmente dovrà essere demolita, poichè non si presta ad esser abitata da alcuna persona sensitiva, e qualsiasi altro inquilino potrebbe esser colpito nello stesso modo come lo siete stato voi. Per quanto personalmente ritenga che il male si sia esaurito da solo».
Raccontò all’autore stupito qualche cosa dei suoi esperimenti in quella casa con l’aiuto degli animali.
«Non pretendo di capire», disse Pender, quando il racconto fu terminato. «Ma io e mia moglie ci sentiamo assai sollevati di esser stati liberati da quell’incubo. Mi interesserebbe tuttavia sapere qualche cosa intorno alla storia dei precedenti abitanti della casa. Quando l’ho presa, sei mesi or sono, non ho inteso nulla contro di essa».
Il <Dr. Silence estrasse dalla tasca un foglio scritto a macchina:
«Posso senz’altro soddisfare la vostra curiosità», disse percorrendo con l’occhio il foglio e rimettendoselo poi in tasca; «poichè attraverso le indagini svolte dal mio segretario, sono stato in grado di procurarmi certe informazioni ottenute nella trance ipnotica da parte di un «sensitivo» che mi aiuta in questi casi. Un inquilino precedente, che è proprio quello che vi ha ossessionato, risulta essere stato una donna di vita e carattere particolarmente crudeli, che infine fu condannata a morte per impiccagione, dopo una serie di delitti che misero in subbuglio tutta l’Inghilterra e che vennero alla luce per puro caso. Finì i suoi giorni nel 1798. Non era precisamente quella la casa che abitava, ma una, assai più grande, che allora si trovava sul fondo ora occupato dall’altra, e che, a quell’epoca, non si trovava precisamente a Londra, ma in campagna. Era una persona di grande intelligenza, disponeva di una volontà potente e allenata, ed era di un’audacia consumata. Sono altresì convinto che ricorresse alle risorse della bassa magìa per raggiungere i suoi fini. Questo spiega la virulenza dell’attacco perpetrato contro di voi e la ragione per la quale sia ancora capace di continuare dopo la morte le male pratiche che formavano in vita il suo scopo principale».
«Ritenete che dopo la morte l’anima possa ancora coscientemente aver poteri direttivi?» domandò lo scrittore.
«Ritengo, come vi ho. già detto, che le forze d’una personalità potente possano ancora persistere dopo la morte sulla direttiva del loro momento originario», rispose il dottore; «e che pensieri e propositi fortemente coltivati possano ancora reagire su cervelli adeguatamente predisposti, lungo tempo dopo la scomparsa dei loro coltivatori».
«Se v’intendeste un po’ di magìa», continuò, «sapreste che il pensiero è dinamico, e può come tale chiamare in vita forme e immagini che possono effettivamente esistere per centinaia di anni. Poichè, non lontane dalla regione della nostra vita umana, esiste un’altra regione in cui si agita lo scarto e lo spurgo di tutti i secoli, il limbo delle spoglie dei morti; una regione densamente popolata, invasa da orrori e abbiezioni di ogni specie, e talvolta galvanizzata alla vita attiva per opera della volontà di un manipolatore esperto, una mente versata nelle pratiche della bassa magìa. Che questa donna praticasse la sua scaltra attività, ne sono ormai persuaso, e le forze che ha raccolte durante la sua vita si sono semplicemente accumulate ancora dippiù, e avrebbero continuato in questo senso, se non fossero state riversate su di voi, e in seguito scaricate e soddisfatte per mezzo mio.
«Ogni cosa avrebbe potuto, badate bene, attirarsi l’attacco, poichè, oltre alle droghe, esistono certe emozioni violente, certi moti dell’anima, certe febbri spirituali, che aprono l’essere interiore alla diretta percezione della regione astrale che ho menzionata. Nel caso vostro, ciò si è verificato per mezzo di una droga particolarmente potente.
«Ditemi ora», soggiunse il dottore, dopo una pausa, consegnando all’autore perplesso un disegno a matita da lui eseguito, riproducente la fisionomia del volto tenebroso che gli era apparso durante la notte sulla collina di Putnez, «ditemi se riconoscete questo viso!».
Pender guardò il disegno da vicino, vivamente, sorpreso, e rabbrividì.
«Senza dubbio», disse «è questo il volto che ho cercato di disegnare… «Cupo, con la bocca grande, le mandibole sporgenti, l’occhio tendente al basso. È proprio lei!».
Il <Dr. Silence estrasse poi dal suo taccuino una xilografia antica della stessa persona, che il suo segretario aveva scovata nelle cronache del carcere di Nemgate. La xilografia e il ritratto a matita non erano che due diversi aspetti dello stesso terribile volto. I due uomini li confrontarono per alcuni momenti in silenzio.
«Dobbiamo veramente essere grati a Dio per le limitazioni dei nostri sensi», disse Pender tranquillamente, con un sospiro; «la chiaroveggenza continua dev’essere una ben grave sventura».
«Lo è infatti», replicò il <Dr. Silence con gravità. «Se tutta la gente che pretende oggi di essere chiaroveggente lo fosse davvero, le statistiche del suicidio e della pazzia sarebbero notevolmente più elevate. C’è poco da meravigliarsi», soggiunse, «che il vostro senso umoristico fosse offuscato dalle forze mentali di questo mostro che aveva cercato di servirsi del vostro cervello. Avete avuto una interessante avventura, Signor Pender, e, per di più, un fortunato scioglimento».
Lo scrittore stava per rinnovare i suoi ringraziamenti, quando si fece sentire un rumore di graffi alla porta, e il dottore si alzò.
«È tempo che me ne vada. Ho lasciato il mio cane sulla scala, ma credo…».
Prima che riuscisse ad aprire la porta, questa cedette alla pressione e si spalancò per lasciar entrare un grosso cane pastore dal pelo giallo. Il cane, scodinzolando e contorcendo gioiosamente tutto il corpo, guizzò attraverso il pavimento e cercò di saltare al petto del suo padrone. V’erano gioia e felicità in quei vecchi occhi buoni. Il dottore lo guardò con commozione, poichè erano ritornati chiari come il giorno.

Fine.


nota 1 – In originale: “detailed”. [Nota per l’edizione elettronica Manuzio]
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TITOLO: Un’invasione psichica
AUTORE: Algernon Blackwood

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Il medico miracoloso : John Silence / Algernon Blackwood. - Milano : Bocca, 1946. - 390 p. ;
19 cm.

SOGGETTO: FIC009050 FICTION / Fantasy / Paranormale