Una tragedia in un cervello.

di
Cordelia

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I.

Valentina seduta accanto alla finestra era immersa nella lettura della Nevrosi e neurastenia del professor De Giovanni.
Era laureata da un anno in medicina e amava la scienza coll’ardore della giovinezza, colla fede d’un credente. S’era dedicata alla specialità delle malattie del sistema nervoso, e studiava indefessamente coll’entusiasmo di un neofita.
Fu scossa dalla voce della madre, la signora Paola Verganti, che le disse:
— Valentina, ti prego, lascia per dieci minuti i tuoi libracci, e ascoltami.
— Parla, mamma, — rispose Valentina chiudendo il libro.
— Dà retta a me, — riprese la signora Verganti, — rinuncia al tuo matrimonio. Quando ti ho concesso di frequentare l’Università, lottando coi pregiudizi degli amici, fu per farti forte e capace di vivere anche senza maritarti, ed ecco che la tua scienza non serve che a renderti indipendente da me, e a farti scegliere uno sposo che non mi persuade.
— Mamma, tu non sei ragionevole, io non ti riconosco più, non mi sembri più la donna superiore che mi permise di dedicarmi a studii severi e virili. Perchè vorresti togliermi ora quell’indipendenza di volontà che tu stessa m’hai insegnato ad apprezzare? È vero; la mia scienza avrebbe potuto consolarmi della mancanza della famiglia, e non avrei pensato a scegliermi un marito, nè accettato il primo venuto, se il caso non mi avesse fatto conoscere l’ingegnere Lodovico Arcelli. È un uomo superiore, ricco, simpatico, intelligente, e lo amo con tutta l’anima mia.
— Tu che hai studiato medicina, sai meglio di me a qual pericolo ti esponi, — disse la signora Verganti, — tu sai bene che Lodovico è pazzo.
— Mamma, non è vero, e mi meraviglio che tu raccolga questa vile calunnia dei suoi nemici. Una mente così equilibrata, che scioglie i problemi di matematica più difficili, che ora sta studiando un metodo nuovo e semplice per trasportare la energia a grandi distanze, via: non è possibile! Io, vedi, ho frequentato le case dove regna la pazzia e credo di saperne qualche cosa; se Lodovico è pazzo, lo siamo tutti!
— Allora è ammalato, — soggiunse la signora Verganti; — hai udito quello che hanno detto di lui i tuoi colleghi; m’hanno fatta la descrizione di quel suo male misterioso, terribile, che fa tremare i più forti, pensa a quello che fai.
— Io non ho paura.
— Almeno, Valentina, fallo per la mia tranquillità, rinuncia a questo matrimonio.
— No, mamma, sono decisa, e tu non inquietarti inutilmente, mostrati forte, come quando il babbo partiva per andare alla guerra, che lo salutavi colla faccia sorridente, per non togliergli il coraggio, e pure avevi il pianto nel cuore; io mi sento figlia del colonnello Verganti e non tremo. Mamma, su allegra; ti assicuro che non ci saranno nè morti, nè feriti, ed ora non parliamone più.
Riprese il libro, ma il suo pensiero era molto lontano. Pensava alla decisione presa, all’uomo al quale era alla vigilia di legarsi indissolubilmente, contro il consiglio delle amiche, della madre, di tutti! Infatti una malattia incomprensibile, fatale, tramutava il più compito degli uomini in una belva furibonda; quel male lo coglieva sempre alla medesima ora, poi si dileguava improvvisamente senza lasciare alcuna traccia. I medici non erano riusciti a spiegarlo e nemmeno a dargli un nome. Chi diceva trattarsi di sonnambulismo, chi di epilessia, ma non sapevano nulla di preciso; avevano tentato molte cure, fra le altre, l’idroterapia, l’ipnotismo, l’elettricità; tutto inutilmente.
Valentina conobbe l’ingegnere Arcelli quando faceva la cura elettrica nel gabinetto del suo professore. Sentì subito una viva simpatia pel giovine, e un forte desiderio di studiare quel male misterioso e tentarne la guarigione.
Egli non ignorava il suo male, e ciò lo rendeva malinconico, avvilito, quasi umiliato; parlava poco, viveva solitario, tutto immerso negli studii, che avevano già fatto conoscere il suo nome nel mondo; era alto, pallido, aveva la voce melodiosa, i modi signorili, e un’espressione di dolcezza diffusa intorno agli occhi stanchi che lo rendeva simpatico.
Valentina lo vide la prima volta seduto, isolato sulla poltrona elettrica, mentre il professore, toccandolo coll’elettroforo, faceva scattare scintille da tutto il suo corpo, ed essa era incaricata di regolare l’intensità della corrente.
Pei primi giorni si scambiarono poche parole, poi la giovane medichessa gli chiese del suo male, tentò d’infondergli qualche speranza di guarigione.
— È terribile, — egli diceva, — è come una morsa di ferro che mi soffoca e mi strazia, un incubo da cui non posso liberarmi. Sono molto ammalato. — E crollava il capo come chi non ha più speranza.
Valentina incominciò a provare per lui una gran compassione, volle visitarlo minutamente e lo assicurò che nessuna lesione aveva nell’organismo, e si convinse che il male era legato a quei fili misteriosi che si chiamano nervi e che sarebbe guarito.
Le parole della fanciulla erano per lui una musica soave che più della corrente elettrica faceva vibrare tutto il suo essere, e il pensiero che finita la cura non l’avrebbe più riveduta, era per lui altrettanto spaventoso, quanto l’idea della sua malattia.
Valentina, senza essere una bellezza perfetta, era molto piacente, aveva il viso aperto, gli occhi vivi, intelligenti e un’aria di bontà e di energia in tutta la persona che la rendeva affascinante. Essa leggeva nel cuore di Lodovico come in un libro aperto, sentiva la di lui ammirazione crescente e aspettava che le rivelasse il suo amore. Egli sospirava, si faceva sempre più triste, ma non aveva coraggio di parlare.
Solo un giorno egli disse che ogni gioia gli era negata, anche la speranza di formarsi una famiglia, perchè nessuna donna avrebbe voluto dividere la sua triste sorte.
— Dite delle sciocchezze, — gli aveva risposto Valentina, — ne volete una prova? Io sarei pronta ad essere la vostra compagna.
Il pallido volto del giovane s’illuminò a quelle parole, ebbe un lampo di gioia, poi crollò il capo, e porgendole la mano disse:
— Grazie, le vostre parole m’hanno fatto un gran bene, ma è un sogno che non può realizzarsi.
— Perchè? Vi amo, ammiro il vostro ingegno; se avete per me un po’ di simpatia, perchè non si dovrebbe unire la nostra sorte e tentare di essere felici?
— Ma la mia malattia non vi spaventa? Non mi maledirete di rattristare la vostra fiorente giovinezza, collo spettacolo del mio male? Voi non conoscete l’orrore delle mie notti, gli spasimi del mio corpo straziato, i sussulti del mio cervello infermo, non datemi un’illusione fallace, una speranza che non potrà realizzarsi; pensateci. Valentina, voi siete bella, sorridente, siete nata per la gioia e non per unire la vostra sorte a quella di un uomo che ignora per qual colpa è stato maledetto dal cielo.
— Non dite così che mi fate pena, — rispose Valentina, — mi sono dedicata all’umanità, sofferente, ho frugato nelle viscere dei cadaveri per scoprire il segreto della vita; anch’io, perchè ho fatto quello che poche donne hanno il coraggio di fare, in molti ispiro la ripugnanza, il ribrezzo. Veramente volevo dedicarmi soltanto alla scienza, ma vi ho conosciuto, vi amo, e mi offro a voi.
— Voi siete un angelo, e mi è impossibile rifiutare il vostro dono generoso, — rispose Lodovico, — l’accetto come se mi venisse dal cielo e giuro che tutto tenterò per rendervi felice.
— Come amerei la mia scienza se potessi darvi qualche sollievo! — esclamò Valentina.
Lodovico crollò il capo come un incredulo, e disse:
— Non è più il tempo dei miracoli; è vero, voi sapete molte cose, ma non potrete riuscire dove non sono riusciti i migliori medici. Temo d’esser condannato per tutta la vita ed ora ne sono più addolorato per voi, che mi sarete compagna.
— Forse la scienza sarà più potente unita all’amore, ed ho la fede e la speranza.
Lodovico era commosso, gli mancava la voce, ma da quel momento sentì che non avrebbe più potuto vivere senza Valentina.

II.

Un bellissimo sole d’aprile illuminava la città di Torino, e l’aria, piena di profumi nuovi, avvolgeva uomini e cose.
Gli sposi, ritornati appena dal municipio, erano circondati dai parenti e dagli amici.
Il convegno era tutt’altro che lieto. Pareva un funerale, la preoccupazione della malattia dello sposo stava nel pensiero di tutti.
La signora Verganti tratteneva a stento le lagrime e si sentiva tanto triste, come non era stata mai, nemmeno il giorno in cui suo marito era partito per la guerra d’Africa, dove aveva trovato la morte. Lodovico sorrideva, ma si mostrava preoccupato. Valentina soltanto era allegra, raggiante, e si sforzava d’infondere in tutti il suo coraggio e la sua gioia.
Essa sorrideva allo sposo e abbracciava la madre rassicurandola.
Tutto sarebbe andato bene, diceva. Anche la natura in festa e il sole che entrava dalle finestre aperte rallegrava la casa piena di fiori e d’amici.
Fu un momento solenne, quando vennero a dire che la carrozza attendeva gli sposi per condurli alla villa che Lodovico possedeva nei dintorni di Torino e doveva ospitarli in quei primi giorni del matrimonio.
Valentina si staccò con uno sforzo dalle braccia di sua madre, che non avrebbe voluto lasciarla partire, salutò gli amici, e discese in fretta le scale seguita da Lodovico.
Finalmente erano soli.
La carrozza correva per le strade lunghe, dritte, popolate da una folla allegra, uscita per respirare la brezza della primavera nascente. Correva pei lunghi viali fiancheggiati dagli alberi che si vestivano di foglie novelle, avanti avanti per l’aperta campagna, salendo sui poggi che ridevano davanti al nuovo sole. Gli sposi si tenevano per mano in silenzio: si sentivano vivere e pensare, come sentivano il battito dei loro cuori che la gioia rendeva più rapido.
Egli temeva che la sua felicità si dileguasse come in un sogno, e che l’amore di Valentina non avrebbe potuto resistere quando avesse assistito ad una delle crisi del suo male; tremava pensando a quello che gli preparava l’indomani e la stringeva a sè fortemente come per impedire che gli sfuggisse.
Essa indovinava il pensiero di Lodovico, ma non temeva nulla, era sicura di sè stessa e del suo amore. Quasi desiderava affrontare la realtà di quel male sconosciuto, per conoscerlo e tentarne la guarigione; voleva studiarlo con tutta la forza della sua mente, colla divinazione del suo cuore innamorato, e forse sperava di comprendere quello che agli altri era rimasto incomprensibile.
Sapeva quel male misterioso appartenere al genere di malattie alle quali essa specialmente si era dedicata; e il poter studiare il soggetto, sempre, tutti i giorni, con intelletto ed amore, le dava la speranza di riuscire.
Già la sua fantasia andava andava, come la carrozza che correva per l’aperta campagna, e si vedeva felice e vittoriosa. Furono distolti dai loro pensieri dalla scossa della carrozza che si fermò davanti alla villa.
Scesero in fretta sorridendo e, stanchi pel lungo silenzio, ripresero la conversazione interrotta.
Il sole volgeva al tramonto e tingeva d’una tinta rosea le montagne ancora coperte di neve.
La casa bianca risaltava sopra uno sfondo verde-cupo, formato da un bosco di abeti; i rododendri in fiore mettevano una nota gaia sul verde.
— Quanto è bello! — esclamò Valentina. — Come saremo felici in questo nido!
— Ti piace? — chiese Lodovico col volto illuminato dalla gioia.
— Ma è un incanto!… E come hai pensato a tutto; sei un vero mago. Fino la tavola preparata, e un bel fuoco nel caminetto. E quante belle rose! Eppure non siamo ancora di maggio; e queste violette! Che profumo!
E sì dicendo si chinò ad odorare un bel mazzo di viole poste in un canestro sopra un tavolino.
Lodovico ordinò ai domestici di servire il pranzo; la lunga corsa e le emozioni della giornata gli avevano eccitato l’appetito; poi, rivolto alla moglie, soggiunse:
— Cara la mia dottoressa, mi pare che si potrebbe mettersi a tavola; dopo pranzo avrai tutto il tempo per ammirare la tua villa.
— Nostra, vuoi dire.
— No, sei tu la padrona, te ne faccio un dono; spero che non mi negherai l’ospitalità.
Valentina si mise a ridere.
— Hai voglia di scherzare, — disse.
— Parlo seriamente; sono lieto di cederti lo scettro; da domani la padrona sarai tu, ed io sarò tuo schiavo.
E chiacchierando allegramente si sedettero a tavola dove venne loro servito un buon pranzo, e gustarono per la prima volta il piacere di trovarsi soli, lontani dal mondo, seduti alla stessa mensa, avendo nel loro cervello pensieri spumeggianti come il vino di cui erano piene le coppe di cristallo.
Dopo il pranzo, Valentina volle continuare il suo viaggio di scoperta e girare per la villa, divertendosi a toccare i ninnoli sparsi sulle mensole, ad osservare i mobili, i quadri, i tappeti.
Nel piano superiore v’erano le camere da letto, una coi parati rosei per lei e l’altra più cupa e severa per Lodovico; accanto una sala spaziosa contornata da biblioteche piene di volumi.
— Hai proprio pensato a tutto, — disse Valentina, avvicinandosi alle biblioteche per osservare i volumi ben rilegati. — Da una parte i libri di matematica per te, dall’altra quelli di medicina e di scienze naturali per me; mi par di ritrovare i miei amici, eccoli tutti schierati: Biswanger, La neurastenia; Beard, Una malattia nuova; La neurastenia di Arndt; come sono difficili questi nomi russi! E che belle ore passeremo a studiare qui tutti e due, tu da una parte ed io dall’altra! Perchè da sposi moderni, da personaggi del secolo ventesimo, non ci si potrebbe contentare di star tutto il giorno a guardarci negli occhi ed a filare l’amore perfetto. Noi abbiamo bisogno anche del cibo dello spirito, e così il nostro amore non passerà come una meteora fuggente, ma durerà sempre, non è vero?
— Ne ho speranza, dipende da te, — disse Lodovico, sedendosi sopra un divano accanto a Valentina.
— Non temere, — rispose questa, — sono sicura di me stessa, i miei sentimenti non muteranno; ma, perchè ora una nube è passata nella tua mente? — chiese guardandolo negli occhi.
— Tu mi leggi dunque nel pensiero?
— È un po’ la mia professione. Ma, dimmi, che cosa ti turba?
— Penso che presto s’avvicina l’ora fatale e vorrei pregarti di non tentare di vedermi, nè di assistermi in quel momento.
— Ma perchè?
— Perchè la crisi passa come viene e tu ne soffriresti inutilmente; mi prometti dunque di allontanarti?
— Non posso farti una promessa che non potrei mantenere. Desidero vedere di che cosa si tratta, e la mia non è una curiosità da femminuccia, ma una curiosità scientifica, e poi mi spinge la speranza di esserti di qualche sollievo.
— Almeno, ti prego, non avvicinarti a me. Devo narrarti una cosa che ho sempre tenuta chiusa nel mio cuore, ed al pensarvi soltanto mi rinnova un dolore crudele. Mi rincresce evocare in questo giorno un ricordo così triste, ma vi sono costretto per difenderti da te stessa e impedire che avvenga un fatto al quale non potrei sopravvivere.
Valentina lo guardò esterrefatta. Che cosa doveva dirle di tanto grave? Stette ad ascoltare tutta trepidante.
— Una volta, — riprese Lodovico col pianto nella voce, — avevo un cagnolino, Fedele, il mio unico amico, il solo compagno della mia vita solitaria; ebbene, dopo una delle mie crisi lo trovai morto, soffocato, accanto a me. Che cosa era accaduto? Forse vedendomi soffrire si era avvicinato per recarmi soccorso, forse per farmi una carezza, mistero! Sono certo che l’uccisi colle mie mani, e non me ne so ancora dar pace; pensa se tu ti avvicinassi e ch’io ti facessi male, ti ucc…. Dio mio! sento che ne morrei. È terribile non poter dominare i proprii movimenti!
— Non temere, Lodovico, veglierò su te, ad una certa distanza, e saprò difendermi. Ed ora non pensiamo a cose tristi.
— Hai ragione, — disse Lodovico, abbracciandola, — godiamo di questi momenti di pace che ancora ci rimangono.
E stettero vicini in quella stanza appena illuminata. I loro volti erano sereni, ma un velo di mestizia pareva fosse sceso su quelle cose che pochi momenti prima parevano tanto gaie ai due innamorati.

III.

Lodovico aveva accompagnato Valentina nella stanza dai parati color di rosa, e s’era indugiato a discorrere con lei di mille cose, e fatto progetti per l’avvenire.
Dalla finestra spalancata entrava una brezza refrigerante e le stelle tremolavano come punti luminosi nella vôlta scura del cielo.
Ad un tratto Lodovico abbracciò Valentina, e disse:
— Devo andare, procura di riposare, e pensa a cose liete.
— Dimmi almeno che cosa ti senti, — chiese Valentina. — Sai che devo essere la tua medichessa.
— Ora non è nulla, soltanto un sonno invincibile, un peso che mi opprime il cervello. Devo coricarmi, non inquietarti, domani mi troverai bene come al solito. Va a dormire, non pensare a me; te ne prego, — e uscì in fretta, lasciando la sposa sola, in faccia alla notte profonda, in quella camera color di rosa dove i fiori impallidivano nei vasi, e il letto bianco adorno di merletti sembrava stendere le braccia e invitarla al riposo.
Ebbe un momento di sgomento; il primo in tutta la giornata; l’opprimeva il silenzio che la circondava, il non udire più la voce di Lodovico, il trovarsi in quella stanza sconosciuta, che non aveva per lei alcun ricordo, e la sua situazione nuova, straordinaria, di esser sola, abbandonata nella prima notte del matrimonio. Si sedette sopra una poltrona e prese in mano un libro per togliersi dai pensieri che l’opprimevano; non potè leggere nemmeno una riga; lo chiuse; la stanchezza l’assalse, e parve assopirsi; ma tutto ad un tratto un urlo, che veniva dalla stanza vicina, la riscosse; s’alzò di scatto, aperse l’uscio e sollevò la portiera che la divideva dalla camera di Lodovico.
Una lampada velata mandava dalla vôlta una luce tenue, quasi crepuscolare. Lodovico si dibatteva sul letto come un indemoniato, aveva la faccia sconvolta, e gli occhi che sembrava gli uscissero dall’orbita, pareva lottasse con un nemico formidabile, invisibile, i suoi muscoli erano tesi come per uno sforzo sovrumano, poi cessarono i movimenti convulsi e incominciò a gemere e ad urlare come una belva.
Valentina stava ritta sulla soglia, incerta; avrebbe voluto avvicinarsi al letto, per tentare di calmarlo, ma rammentò la proibizione avuta. Fremeva nel veder il suo Lodovico così trasfigurato, e di trovarsi impotente a recargli sollievo. Lo chiamò ad alta voce, non rispose, fece solo un movimento impercettibile.
Ad un tratto la voce di Lodovico echeggiò nel silenzio della notte, disse parole interrotte, sconnesse, pareva che vaneggiasse, anche la sua voce pareva mutata.
Valentina immobile stava attenta ad ascoltare. Dopo le prime frasi potè raccapezzarsi meglio in mezzo a quel torrente di parole paurose.
— Aiuto! — egli gridava, — aiuto! ecco, viene col pugnale; uno, due, tre…. gli squarcia il seno: oh che rantolo, è morto; ancora, ancora! perchè? È terribile…. non voglio più sentire quel gemito…. anche lei… salvala…. peccato, è così bella…. no? no? ah! offre il seno…. ah, l’uccide…. quanto sangue…. via, via…. assassino…. ed ora ecco le vittime; le avvolge nel lenzuolo…. è tutto rosso di sangue. Dove va? dove le trascina? giù in fondo…. sento il rumore delle loro teste che cozzano; tun, tun, tun…. pietà, pei morti…. giù, giù ancora; perchè li trascini? Perchè li scuoti? aiuto!… aiuto!… La fossa è nera giù…. perchè le ossa scricchiolano? ahi, le sento qui…. aiuto…. aiuto!…
E si voltava per il letto gettando via tutto quello che gli capitava in mano, contorcendosi in modo spaventoso; pareva che le sue ossa si spezzassero, agitava le braccia come se volesse scacciare una terribile visione. Lodovico continuava:
— Ed ora dove mi conduci? Dove fuggiamo? Quanti soldati! C’inseguono…. via, via ! Andiamo lontano…. lontano…. lontano….
Valentina tremava alla vista di quello spettacolo atroce, eppure non si sentiva la forza di fuggire, se ne stava là immobile, impetrita, come una statua. Ad un certo punto Lodovico parve calmarsi, respirò forte come uno che fosse fuggito da un pericolo, e fu colto da un sonno profondo, quasi letargico; soltanto il suo corpo di tanto in tanto sussultava.
Valentina sentì risvegliar in sè, sotto l’involucro femmineo e sensibile, la missione del medico; si avvicinò al letto, e pose una mano sul cuore di Lodovico. Il cuore sussultava, batteva come se avesse fatto una corsa vertiginosa, poi gli posò la mano sulla fronte e la sentì madida di sudore.
— Bisogna farlo guarire, — disse fra sè. — Impossibile che il suo cuore possa sopportare ogni notte una scossa così tremenda, e poi io lo amo e non potrei sopravvivere alla sua morte.
La crisi era passata, e adagio Valentina si ritirò nella biblioteca per meditare su quello che aveva veduto. A che categoria apparteneva la malattia di Lodovico? A quelle che hanno sede principale nei centri nervosi, questo lo sapeva. Non era pazzo, e nemmeno sonnambulo; non ammetteva che si trattasse di epilessia come molti dei suoi colleghi avevano dubitato. Secondo lei, era un fenomeno di suggestione, e prodotto da un’influenza esteriore che aveva impressionato eccessivamente un cervello giovane e sensibile.
Quale poteva essere quest’influenza, non si spiegava, ed era impaziente che suo marito si svegliasse per poterlo interrogare. Si rammentava che nella tesi di laurea aveva svolto il concetto delle influenze ataviche sui centri cerebrali, e s’era convinta da’ suoi studii e da alcune esperienze fatte, che le impressioni ricevute dai nostri avi si possono ripercuotere nel nostro cervello e che, come l’imagine fotografata sopra una lastra sensibile, si rivela al primo raggio di sole, così alla prima occasione quelle possono uscire disordinate dalla mente. Doveva esser certo avvenuto così nel cervello di suo marito. O aveva avuto una forte impressione da bambino, oppure doveva cercare il fatto tragico nella vita dei suoi avi.
Tutta la notte essa stette sfogliando libri e riviste; l’ansietà di sapere le aveva fatto dimenticare la stanchezza d’una giornata piena di emozioni. Il sole era già spuntato sull’orizzonte quando Lodovico entrò adagio nella libreria. Valentina stava leggendo attentamente l’Eredità di Lucas e non si accorse del passo di lui.
Le si avvicinò timido e trepidante e le posò dolcemente la mano sulla spalla. Ella lo guardò rassicurandolo.
— Non ti faccio orrore? — le disse, — hai assistito a tutto, ti ho sentito vicino a me.
— Mi hai sentito davvero? Allora il male non è tanto grave, — disse Valentina, — io voglio salvarti. Qui, vicino a me, devi raccontarmi tutto come ad un medico.
— Interrogami.
— Quando il male ti assale, perdi la coscienza? non senti nulla di quello che accade intorno a te?
— Io sento tutto come in un sogno, ma una volontà più forte della mia mi spinge a fare dei movimenti involontari, a dire quello che non penso; è un incubo che m’assale col quale io lotto invano; è più forte di me; questa notte tu mi hai chiamato, ho udito la tua voce, ma mi era impossibile rispondere, mi parea che venisse da molto lontano; la scena di sangue che racconto, la vedo come in uno specchio, vorrei salvare le vittime, ma non posso; una mano di ferro mi trattiene, so che sono nella mia camera, e vedo un altro ambiente, mi par d’essere in un altro mondo, eppure mi sento vivo perchè soffro, e assai crudelmente soffro; guai se penso a quelle ore terribili.
— Non temere, — disse Valentina, — ti guarirò; dimmi, hai mai assistito da bambino ad un fatto tragico come quello che vedi nella tua fantasia?
— Mai! Ho vissuto sempre lontano dalle lotte del mondo, e la mia giovinezza fu calma.
— E quando hai cominciato ad avere le terribili visioni?
— Ero nervoso fin da bambino; la notte mi svegliavo di soprassalto e facevo sogni spaventosi. Dicevano che cogli anni sarei stato più forte, invece con me crebbe il mio male ed ora hai veduto tu stessa quanto io soffro.
— Tutto s’accorda con quello che penso — disse Valentina. — La tragedia che ti travaglia deve averla vissuta qualche tuo genitore; cerchiamo nella loro vita, parlami di loro, dove sono nati? dove hanno vissuto? Pensa, pensa.
E sì dicendo stava ansiosa coll’orecchio attento perchè nulla le sfuggisse.
Lodovico pensò un poco per riordinare le idee, poi disse:
— Il babbo era di Torino come me; nell’alta banca ha guadagnato molto danaro e mi lasciò ricco. Le lotte della vita l’avevano accasciato e morì di esaurimento; non credo ci siano state tragedie nella sua vita.
— E tua madre? — chiese Valentina.
— Essa venne a Torino bambina; nacque a Verona, dove il padre si trovò involto nella rivoluzione del 1848, dovette fuggire di notte quando era ancora bambina. Il nonno era brutale e iracondo, essa deve aver sofferto molto con lui, e divenne nervosa, e piuttosto malinconica; è morta giovane, forse tormentata di sapermi ammalato.
— E la tua nonna? — chiese ansiosamente Valentina.
— Nessuno l’ha conosciuta; il nonno non ne parlava mai.
— Tua madre dunque è partita bambina, di notte, durante la rivoluzione. La sua infanzia non fu calma, — disse Valentina.
— No, certo, e credo che dall’agitazione di quel tempo, la sua salute ne fosse scossa.
— E tu non sei mai stato a Verona, nella patria della tua mamma?
— Mai. Il mio male m’impedisce di viaggiare e non posso alloggiare in un albergo; poi il nonno non voleva sentire parlare della sua patria, e la mamma ci pensava con terrore.
— E non avete alcun parente in quella città?
— Una vecchia zia, sorella del nonno, che vive con una figlia. Non la conosco; ci scambiamo soltanto un augurio a capo d’anno.
— Dunque hai l’indirizzo, tanto meglio; devi scriverle di trovarci un appartamento. Dobbiamo rivedere la patria della tua mamma, dove, ti confesso, spero di trovare l’origine della tua malattia.
— Tu sei una sognatrice, — disse Lodovico; — che cosa vuoi scoprire? È passato mezzo secolo dacchè il nonno ha lasciato quella città, chi si ricorda più di lui?
— Sarà un sogno, — disse Valentina, — ma voglio conoscere la città dei tuoi avi, ti rincresce?
— È una bella città che desidero vedere anch’io; andremo, sarà il nostro viaggio di nozze, — disse Lodovico.
— Nulla di più divertente di un viaggio di ricerche, e cercherò e troverò l’origine del tuo male, vedrai! — rispose contenta Valentina.
— Se trovare l’origine d’un male volesse dire guarirlo, avrei qualche illusione, ma ho poca fede.
— Sapere l’origine d’un male è già un bel passo verso la guarigione, — disse Valentina, — e poi io voglio guarirti, non permetto che tu sciupi la tua energia e la tua bella intelligenza lottando con dei fantasmi. Lasciami questa speranza che mi rende felice.
— E sia; mi metto nelle tue mani: sei tanto bella, animata dall’entusiasmo e dalla fede nella tua scienza, che se, come temo, non riuscirai a fare il miracolo, ti benedirò sempre per il bene che mi fanno le tue parole, e per la gioia con cui hai voluto illuminare la mia povera vita.

IV.

Teresa Montalti, zia dell’ingegnere Arcelli, non era mai uscita da Verona, sua città nativa. Abitava, colla figlia Giulia, in piazza Erbe, un appartamento di quattro stanze, due con un grande balcone sopra la piazza e due dietro, sopra un cortile. Quella piccola casa di quattro piani, stretta ed alta come un campanile, l’aveva ereditata da suo fratello, nonno di Lodovico. Occupava colla figlia il primo piano, e affittava ammobiliati gli appartamenti superiori, ad impiegati, militari o artisti di passaggio; e coll’aggiunta di una pensione lasciatale dal marito le due donne vivevano bene conducendo una vita alquanto modesta. La signora Teresa aveva passati i settant’anni, e negli ultimi tempi era stata colpita da congestione cerebrale, che le aveva lasciato paralizzato il lato destro del corpo. Di carattere vivace, soffriva nel dover starsene inchiodata tutto il giorno su una poltrona, e la sua sola distrazione era osservare quello che accadeva nella piazza sottostante.
Conosceva per nome i venditori e le venditrici, e quando la mattina collocavano sotto gli ampii e candidi ombrelli le ceste piene di erbaggi e di frutta, si rallegrava di poter assistere al risveglio della vita cittadina.
Era come uno spettacolo che le si offriva spontaneo e la distraeva dai tristi pensieri. Conosceva le abitudini dei compratori, osservava certi incontri voluti perchè avvenivano sempre alla medesima ora, sorprendeva qualche idillio all’ombra dei bianchi ombrelloni, e gioiva quando qualche piccola cesta di fragole profumate compariva timidamente a rompere la monotonia delle frutta invernali; in seguito altre più grandi, unitamente alle ceste di ciliegie e di lamponi, venivano a rallegrare il mercato colla loro nota rossa fiammeggiante e attiravano gli sguardi, lasciando nell’ombra gli erbaggi e le altre frutta più modeste; godeva quando facevano la loro comparsa le belle pesche mature che le piacevano tanto, e i grappoli d’uva grossi come quelli della terra promessa; ogni nuovo frutto era una nuova gioia per lei, solo si sentiva triste quando le mele, le pere e le castagne occupavano il posto delle frutte estive, e pensava:
— Vedrò ancora le piccole ceste di fragole? Tornerò qui al mio posto d’osservazione, quando il sole sarà più tiepido, e avrò l’illusione che nelle mie vene faccia scorrere un sangue più caldo e più giovane?
E sospirava e si sentiva triste specialmente nelle ore nelle quali era sola. E restava spesso sola perchè, quando la figlia l’aveva collocata sulla poltrona accanto alla finestra, usciva per far le provviste e s’indugiava a chiacchierare coi conoscenti o colle vicine. La Giulia era una donna di quarant’anni, un po’ fiacca e lenta nei movimenti, ingrassava a vista d’occhio, ma si lagnava sempre di tutto e con tutti, e aveva la voluttà di farsi compiangere. Si era maritata giovane e finchè ebbe il marito se ne lamentava perchè lo trovava troppo esigente; quando rimase vedova, si faceva compiangere per la sventura d’essere rimasta sola ancor giovane, e per giunta colla madre inferma; insomma non era mai contenta, quantunque facesse una vita abbastanza calma e serena. Quando l’appartamento sopra di loro rimase libero, non cessava di lamentarsi e raccomandarsi per trovar nuovi inquilini; era stato accettato dagli Arcelli, ed essa si mostrava annoiata per il disturbo che quei cugini sconosciuti le avrebbero recato e al pensiero di doversene occupare.
La signora Teresa invece all’idea di conoscere i nipoti era contenta; tutto quello che veniva ad interrompere la monotonia della sua vita sempre uguale, le recava qualche consolazione, e quando entrò Giulia col telegramma in mano che ne annunciava l’arrivo per quello stesso giorno, dopo le quattro, ebbe un’esclamazione di gioia.
— Tu dici bene, ma ora come faccio, — esclamò la Giulia, — volevo comperare un tappeto nuovo, qualche oggetto per rallegrare l’appartamento, e invece mi capitano qui, tutto ad un tratto, come una bomba.
— Non borbottar sempre, — disse la signora Teresa, — se è quasi un mese che siamo in corrispondenza e che li aspettiamo; avevi il tempo di pensarci se volevi fare nuovi acquisti.
— E poi, a che cosa servirebbe! — soggiunse Giulia. — Sono ricchi, abituati a vivere a Torino in un palazzo, potrei cambiare di pianta i mobili delle nostre povere stanze e le troverebbero sempre miserabili. Abbiamo fatto male ad offrirgliele.
— Ma via, Giulia, un po’ di calma, se non si troveranno bene andranno all’albergo, non siamo poi in un villaggio, infine sono nostri parenti e non è male mostrar un po’ di buona volontà d’averli vicini.
— Sì, ma intanto io devo pensare a tutto.
— Vorrei poter muovermi io, — disse la vecchia, — e come sarei contenta di occuparmi di questi sposi! Ecco, per esempio, metterei un bel mazzo di rose in mezzo alla tavola.
— È un’idea, — disse Giulia, — così aiuteranno a nascondere una macchia d’inchiostro che ho veduto sul tappeto; me ne occupo subito.
E sì dicendo mandò a comperare i fiori e salì nell’appartamento per dar l’ultima mano e metterlo in assetto.
Aveva disposto i mobili secondo la sua idea ed i suoi gusti; in una delle stanze che aveva un grande balcone verso la piazza, aveva fatto collocare due letti uguali di ferro molto semplici, un armadio e due cassettoni; nell’altra aveva formato una specie di salotto, con una tavola nel mezzo, un divano e qualche poltrona. I mobili erano semplici, anzi modesti, e avevano l’aspetto molto usato; essa fece il possibile di rallegrare gli ambienti con cuscini, tappeti e tovagliette guernite di trina, ma soltanto il mazzo di rose avea posto una nota allegra su quelle vecchie cose.
Quando discese, trovò la madre in piedi che girava, eccitata dall’impazienza, trascinando dietro a sè la gamba inferma, attaccandosi ai mobili per non cadere, e tendendo l’orecchio ad ogni carrozza che si fermava. All’annuncio del prossimo arrivo dei nipoti le pareva di ringiovanire, si sentiva la mente più lucida come se l’arrivo degli sposi giovani fosse l’ultimo raggio di sole che venisse a rallegrare la sua vita che ormai volgeva al tramonto.
— Ma che cosa hai, mamma, che sei tanto irrequieta? — chiese la Giulia. — Non possono essere ancora arrivati; è troppo presto.
— E se non trovano la casa? — disse la vecchia.
— Ho dato l’indirizzo giusto; sarebbe inutile andar ad incontrarli: non ci siamo mai veduti, non so nemmeno che faccia abbiano. Vedrai che ci troveranno.
— Non avrei mai pensato di poterli conoscere, — disse la signora Teresa, ritornando al suo posto. — Mia nipote, la mamma di Lodovico, era una bimba quando è partita, aveva due begli occhioni azzurri intelligenti e una corona di riccioli biondi; deve aver sofferto col carattere di suo padre: meno male che poi è stata fortunata, ha fatto un buon matrimonio, e se fosse vissuta avrebbe ora la gioia di vedere suo figlio stimato e sposo felice; perchè, sai, Lodovico è un personaggio conosciuto, un grande ingegno, tutti i giornali ne parlano.
— È quello che mi dà pensiero, — disse Giulia. — L’ingegnere Arcelli troverà miserabile l’alloggio che possiamo offrirgli. E la moglie, la dottoressa, sono certa che sarà antipatica, e poi chissà che superbia e come ci guarderà dall’alto in basso, noi misere mortali che non abbiamo studiato all’università.
— Forse sarà meglio di tutte le pettegole che conosciamo, — disse la signora Teresa; — se poi trovasse un rimedio al mio male, benedirei la sua venuta e la sua scienza! Tanto i medici non hanno capito nulla, può darsi che una donna sia più intelligente.
— Eccoli! — esclamò Giulia sentendo fermarsi una carrozza, — vado ad incontrarli.
Ma non era ancora sulle scale che Lodovico e Valentina erano già presso all’uscio.
— Sono vostra cugina, — disse la Giulia, stendendo loro le mani. — Ben arrivati, sono lieta di conoscervi.
— E la zia Teresa come sta? — chiese Lodovico.
— Vi aspetta! Non può camminare, ma è molto contenta che siate venuti; se volete entrare.
— Sì, entriamo un momento, — disse Valentina, — dopo andremo a mettere in ordine le nostre camere.
— È un appartamento molto modesto, — disse Giulia scusandosi, — non so se vi piacerà.
— Abbiamo gusti semplici, e andrà tutto bene…. Ah, ecco la zia Teresa!
E Lodovico s’avvicinò alla vecchia, dicendole:
— Se mi permette le presento la mia sposa.
— Siate benedetti, — disse la vecchia, tirandoli a sè colla mano sana. — Qui, disse, — qui alla luce, Lodovico, voglio vederti bene, hai gli stessi occhi della tua mamma, sono contenta, e poi mi rallegro del tuo ingegno, e anche della tua sposa. — E sì dicendo la fece sedere vicino a lei e la baciò sulla fronte.
— Mi dispiace, — disse poi con un sospiro, — che mi trovate in questo stato; qualche anno fa ero vispa come se avessi vent’anni.
— Ma guarirà, — disse Valentina.
— Dite davvero! — esclamò la vecchia con un lampo negli occhi. — Siete medichessa e dovete sapere se si può guarire da queste malattie.
Valentina ebbe timore d’aver fatto sorgere una speranza fallace, e soggiunse:
— Forse, migliorare certo, vedremo, non bisogna mai disperare; se permette, ora andiamo a prender possesso delle nostre stanze; ritorneremo questa sera.
— Se voleste dividere il nostro pranzo modesto…. — disse la vecchia.
— Grazie, — rispose Lodovico, — ma abbiamo le nostre abitudini come voi avrete le vostre, e preferiamo esser liberi, anche per conoscere la città. Verremo dopo pranzo, staremo spesso insieme, e diventeremo amici, non è vero? Intanto se volete guidarci nel nostro appartamento!
— È qui sopra, — disse Giulia, — vi accompagno.
E salita una scala entrarono nelle stanze a loro destinate.
Giulia mostrò come avea creduto bene di disporle.
— Però, — disse, — voi potrete accomodarle secondo i vostri gusti e le vostre abitudini.
— Sarà meglio fare due camere da letto, — disse Valentina, — qualche volta Lodovico è inquieto la notte e non mi lascia dormire…. Che belle rose! — soggiunse, vedendo il vaso di fiori nel mezzo della tavola, — come siete buona di aver pensato anche a questo! grazie.
Poi affacciandosi al balcone esclamò:
— Ma qui è un incanto! Che vista! guarda Lodovico questa piazza! Quanto è pittoresca!
Giulia si scusava della povertà degli arredi. Lodovico ammirava la piazza in silenzio.
— Questo spettacolo vale una reggia, — disse Valentina; — ci troveremo benissimo. Se mi potrete mandar un facchino che possa trasportare qualche mobile…. non abbiamo bisogno d’altro.
— Vado a raggiungere la mamma, — disse Giulia, — se vi abbisogna qualche cosa, sono a vostra disposizione. Arrivederci.
E sì dicendo scese nel suo appartamento, dove la madre l’attendeva con impazienza.
Le chiese se gli sposi fossero rimasti contenti, e continuava a ripetere:
— È una bella coppia, sembrano felici, ci porteranno un po’ d’allegria.
— Come sono questi sposi moderni! — disse Giulia, — io non li capisco; avevo fatto mettere due letti in una camera, e invece no…. vogliono stanze separate…. e sono ancora nella luna di miele; ai miei tempi non si usavano queste cose.
— Sai, nell’alta società è sempre stato così, — disse la signora Teresa, — facciano loro; però mi sembrano semplici e alla mano.
— Infine siamo parenti, della stessa razza, e non ci sarebbe una ragione che fossero superbi con noi.
Intanto Valentina aveva incominciato a disfare i bauli e a mettere a posto un po’ di roba negli armadi.
— Non è un palazzo, — avea detto al marito, — ma ci si potrà accomodare, e poi basta guardare dalla finestra per vedere uno spettacolo che compensa di tutto quello che manca.
Coll’aiuto d’un uomo aveva fatto trasportare gli armadi nella cucina dell’appartamento che doveva servirle da gabinetto di toeletta. Le due camere da letto accomodate bene, libere dai mobili inutili, riuscivano più godibili e spaziose; diede una disposizione piacevole e comoda alle sedie e ai tavolini, sui quali collocò qualche ninnolo portato seco, alcuni libri rilegati e parecchie fotografie incorniciate con gusto, e le stanze presero subito un aspetto più gaio e più piacevole.
Lodovico stava estatico appoggiato alla ringhiera di ferro del balcone e guardava la piazza in silenzio.
— Perchè sei così taciturno? — gli chiese Valentina. — Sei forse pentito d’esser venuto?
— Oh, tutt’altro, ma non so come avvenga, che più guardo questa piazza, più mi persuado che è una mia vecchia conoscenza, eppure non ci sono mai venuto a Verona, ne sono certo.
— Forse avrai veduto qualche fotografia.
— È un’impressione differente da quella che si ha da un’imagine dipinta o fotografata, ma che non so spiegarmi; mi par di trovarmi in mezzo a vecchi amici, qualche cosa mi fa pensare, come se vedessi vecchie conoscenze con nuovi abbigliamenti. Basta, ho bisogno di concentrare le mie idee, di risvegliare come dei ricordi assopiti; ecco perchè sono silenzioso, però mi sento bene e mi par di vivere una vita anteriore; è un sentimento nuovo che non mi dispiace.
Valentina, contenta d’essersi sistemata, s’avvicinò al marito, e anch’essa contemplò in silenzio la vasta piazza che s’andava spopolando, l’andirivieni dei venditori e delle venditrici, che mettevano le ceste nei fondachi e nelle cantine, chiudevano gli ombrelloni e dopo una giornata laboriosa erano contenti al pensiero delle ore di riposo che avevano davanti a sè.
Stettero ad osservare in silenzio quel movimento che andava sempre diminuendo, poi scesero, traversarono la piazza, presero la via Nuova in quell’ora molto popolata, e si fermarono pieni di ammirazione in piazza Vittorio Emanuele, alla vista dell’Anfiteatro Romano che in quell’ora del tramonto faceva l’effetto d’una mole ancor più gigantesca del vero.
— Pare d’essere a Roma, — disse Valentina, — non avrei creduto di trovare in questo luogo tanta impressione di grandezza; la credevo una delle solite città morte dove si conservano vestigia preziose del passato, ma siamo invece in una città ancor viva e grande; peccato che la gente borghese moderna abbia fabbricato da questa parte delle piccole case.
— Forse i monumenti che dagli altri lati ci parlano del passato, spiccano di più per il contrasto; — disse Lodovico, — non vorrei vederla in altro modo.
Passati gli archi che dividono la piazza dal corso di Porta Nuova, entrarono per pranzare in una trattoria, che, colle tavole preparate, invitava i passanti.
Pranzarono allegramente come due sposi nel viaggio di nozze, poi Lodovico, impaziente di rivedere la zia Teresa, volle ritornare a casa, quantunque l’aria fresca della sera e la città nuova lo invitassero a passeggiare.
La zia e la cugina li aspettavano sedute accanto alla tavola illuminata da una lampada a petrolio.
Sulla tavola c’era un tappeto nuovo, sfoggiato in onore degli sposi, e un bel mazzo di fiori.
— Prenderete il caffè con noi, — disse la zia Teresa, — vi abbiamo aspettato.
Poi chiese come trovavano la città.
— È un incanto, — disse Valentina, — come non m’aspettavo.
— Non mi è nuova, — disse Lodovico, — mi pare di averci sempre vissuto.
— Vi è nato tuo nonno, mio fratello, e prima di lui tutti i tuoi ascendenti, — disse la vecchia.
— E appunto lo scopo del nostro viaggio è per saper notizie del nonno: mi è venuto il desiderio di conoscere i miei antenati. Diteci quello che sapete; ve ne rammentate?
— Come se fosse partito ieri; tutte le cose vecchie rammento; solo non ho più memoria per quello che è accaduto dopo la mia malattia.
— Diteci tutto quello che sapete del nonno, — supplicò Lodovico, — è per me una cosa molto importante, più di quello che pensate.
— Si chiamava Lodovico anche lui; — rispose la vecchia, — avea un carattere impetuoso e una testa un po’ esaltata. L’Italia era la sua idea fissa; tutto ha sacrificato per vederla libera. Anch’io ero italiana nell’anima e fremevo di vedere gli austriaci padroni della mia città, ma ero più ragionevole. Che cosa potevamo fare, se loro avevano soldati, fucili, cannoni, e noi nulla? Bisognava aspettare gli eventi e fidare nella nostra stella; ma mio fratello voleva agire, muoversi, era capo d’un comitato, andava in Piemonte continuamente a parlamentare coi capi, coi ministri; una volta fu anche ricevuto da Carlo Alberto, a cui portava messaggi; non poteva star mai tranquillo. Io vivevo sempre trepidante, temevo che lo scoprissero e lo fucilassero; che tempi erano quelli! Non avevo pace.
— E la nonna che cosa faceva, ve la rammentate?
— Se la rammento! Mi par di vederla, la piccola Elisa; era molto bellina, pareva una statuetta di Sassonia, e poi vispa, irrequieta come un uccello. Quella donna è stata il capriccio di Lodovico; volle sposarla ad ogni costo e non era donna per lui; nata a Venezia, qui si trovava a disagio, non capiva nulla di patriottismo e di politica; era giovane, bella e voleva godere la vita; forse non aveva torto; ora la vedo con occhi più indulgenti, allora, però, in quel tempo, non la potevo sopportare, così leggera, spensierata e così lontana dalle idee del marito, e non le perdonavo di renderlo infelice. Quando le nacque una bimba, che fu poi la tua mamma, speravo che si calmasse; era come pretendere che un fiume rimontasse alla sorgente: appena fu possibile, riprese la vita di prima, diceva che era veneziana nell’anima, ed aveva bisogno di feste, di maschere e di cavalieri serventi.
— Ah, anche i cavalieri serventi? chiese Valentina.
— Che volete? s’annoiava. Mi ricordo che una volta mio fratello mandò un giovane veneziano con istruzioni di mandarlo in Piemonte ad arruolarsi come soldato. Era un suo amico d’infanzia ed Elisa, invece di seguire la volontà del marito, pensò bene di tenerlo presso di sè, dicendo: — El xe un pecà che così belo el se fassa massar; el sarà el me cavalier servente!
— E poi? — chiese Valentina.
— Era un po’ pazza, poveretta.
— E come ha finito? — chiese Lodovico.
— È morta, e molto giovane, — disse la vecchia; — come, non saprei, fu un mistero; mio fratello, sempre viaggiando per la causa italiana, stava dei mesi senza dar segno di vita, poi veniva in fretta a salutare la moglie e la bimba, e via di nuovo. Mia cognata aveva preso il suo partito, e si divertiva; si occupava del figurino della moda; aveva i cavalieri serventi come la sua mamma e la sua nonna, diceva lei; non pensava alla politica e alla guerra che per lagnarsi che non ci fossero spettacoli e divertimenti; non era certo un’eroina. Un giorno, verso la fine del ’48, i piemontesi erano alle porte, tutto era pronto per fare la rivoluzione, non si aspettava che un segnale per agire, ma c’erano troppe spie, troppi soldati e si esitava; mio fratello venne in fretta, misteriosamente, poi scomparvero tutti: lui, mia cognata, la bimba e una vecchia fantesca. Non si sapeva dove se ne fossero andati, fui ansiosa per molto tempo, li ho creduti morti, poi ho saputo che soltanto Elisa era morta; poveretta! essa che amava tanto la vita….
— E non sapete in che modo morì…. così giovane?
— Se ne dissero tante, — rispose la zia Teresa, — ma nessuno seppe nulla di preciso. Troppi avvenimenti tenevano trepidanti gli animi in quel tempo; i piemontesi vinti, le nostre speranze fallite, sempre in ansia pei nostri cari, una vita febbrile, ma ora sono contenta d’esser vissuta in quei giorni di ansia e trepidazione.
— E il nonno? — chiese Valentina.
— Ci scrisse da Torino dove s’era rifugiato; qui non poteva più ritornare, essendo compromesso negli affari politici; diede disposizioni per vendere la casa dove abitava e spedirgli i mobili migliori. Mio marito s’incaricò di tutto.
— E dove abitava, vi ricordate?
— Sul corso Santa Anastasia, — disse Giulia, — la mamma mi ha fatto tante volte vedere la casa; se volete, ve la mostrerò.
— E vogliamo anche visitarla, — disse Lodovico.
— Bisogna chiedere il permesso al proprietario; non so a chi appartenga ora; sarà tutto cambiato, non troverete più traccie del nonno.
— Mi basta vedere i sotterranei…. credete che siano molto mutati?
— Devono essere trasformati in cantine, c’è un’osteria al piano terreno.
— Ma che idea vedere una casa che ha appartenuto a vostro nonno? — disse Giulia, — a che scopo?
— È un nostro segreto che vi spiegheremo; intanto è ora di salire.
— Ma a proposito, — disse Lodovico, indugiandosi sulla soglia, — la statua sopra la fontana?
— Madonna Verona? — chiese la vecchia.
— Sì; è sempre stata così colla corona d’oro sul capo?
— No, — disse Giulia, — al tempo degli austriaci aveva il capo incoronato di ferro. Abbiamo ancora una fotografia di quel tempo…. Eccola, — disse dopo aver cercato in un cassetto.
— Ah, bene! — esclamò Lodovico. — Precisamente come l’ho veduta in sogno, o in realtà non lo so, con quella posa identica, ritta, come a guardia della piazza, ma colla corona di ferro; quella corona d’oro m’imbarazzava; ora sono contento; buona notte.
Salì alle sue stanze coll’animo sollevato. Valentina aveva indovinato; in qualche angolo del suo cervello stavano nascoste imagini ereditate dagli avi; quella corona era una rivelazione. Se prima era incredulo, ora si sentiva impaziente di continuare le indagini, di visitare la casa degli avi, di sapere la verità.
Valentina invece esitava, temeva d’aver dato un’illusione che, rimanendo tale, avrebbe potuto peggiorare il male di Lodovico; è vero che esistevano fatti di persone, le quali potevano descriver paesi e cose che non avevano mai veduto, ma erano state famigliari ai loro genitori; aveva pure udito, colle sue orecchie, alcuni, sotto eccitamenti speciali, parlare una lingua ignota, ma conosciuta dai loro antenati.
Però sapeva di aver troppa facilità di accettare certi fatti non provati scientificamente, aveva la fantasia molto fervida, glielo diceva anche il suo professore quando la chiamava la romanziera della scienza, ed ora, ch’essa temeva d’essersi spinta troppo innanzi, e avrebbe voluto aspettare e godere la città nuova, ecco che suo marito era impaziente e voleva subito incominciare le sue ricerche. Era strano quello che accadeva nelle loro anime; le parti erano mutate: essa esitava, e invece Lodovico era pieno di fede e voleva agire. Il timore di lei veniva anche dal fatto, che in quel tempo nessun mutamento era avvenuto nel male di Lodovico, eppure aveva tentato tutti i rimedi suggeriti dalla scienza in simili casi. Aveva preparato colle sue mani delle pozioni calmanti di diverse specie, aveva variato le dosi, tentato di distrarre lo spirito di lui con racconti e letture interessanti nell’ora fatale; tutto era stato inutile.
In quel mese di matrimonio s’era abituata a quelle crisi, e le facevano meno impressione sapendo prima quello che doveva accadere; lo stava sempre ad assistere amorosamente, qualche volta lo copriva con un lenzuolo, che serviva a rendere i movimenti più calmi e gli urli meno sensibili, e in ogni caso non si udivano in lontananza, ed egli usciva meno stanco da quell’incubo.
Essa era molto scoraggiata, e quasi avrebbe voluto stare inerte ad aspettare gli eventi nel timore di perdere anche quel filo di speranza che le rimaneva, era in un periodo nel quale non aveva più fede nè in sè stessa nè nella scienza, e pareva invece che avesse trasfusa quella fede nell’animo di Lodovico. Nemmeno il nuovo ambiente e le nuove cose avevano avuto influenza sul suo male. Anche in quella prima notte che si trovavano nella città degli avi, il male lo assalse nell’ora fatale, e per la prima volta Valentina pianse trovandosi impotente a strapparlo all’incubo spaventoso.

V.

Dopo un sonno riconfortante, Valentina fu destata da un mormorìo indistinto che andava aumentando e pareva come se delle onde marine andassero ad infrangersi sugli scogli del lido. Un raggio di sole entrava dalle persiane e si rifletteva sulla parete disegnando strisce dorate.
Pensò che doveva esser tardi, scese dal letto, si vestì in fretta e aperse la finestra, impaziente di sapere da che cosa provenisse il rumore che l’aveva risvegliata dal sonno.
Un vero spettacolo festoso si presentò allo sguardo ammirato.
La piazza era piena di gente, come se fosse in aspettazione d’una festa. Sotto gli ombrelli giganteschi stavano disposte, con arte, le ceste di erbaggi tinte in tutte le sfumature di verde, da quello pallido e quasi latteo a quello forte come lo smeraldo; le carote, i pomidoro spiccavano nelle loro tinte calde, fra il verde; e i cavoli fiori giganteschi s’ammucchiavano negli angoli circondati da una corona di foglie protettrici. Le ceste di frutta estive invitavano i passanti a soffermarsi, i venditori si affaccendavano per attrarre l’attenzione dei compratori, e più di tutti le venditrici, belle, cogli occhi lampeggianti e la bocca sorridente, chiamavano la gente, si rubavano gli avventori e spesso litigavano fra loro.
Madonna Verona, sul suo piedestallo di marmo, pareva proteggere la folla che formicolava in mezzo a quella massa di erbaggi e di frutta. Ai suoi piedi l’acqua usciva da una quantità di polle disposte a cerchio, in freschi e innumerevoli zampilli, che lambivano una tazza di marmo antico e cadevano in mille spruzzi, formando una corona fresca e viva intorno ai suoi piedi.
Le venditrici facevano a gara nel portare le verdure ed i fiori sotto la pioggia refrigerante; andavano e venivano colle braccia cariche di ceste fiorite, parevano fanciulle che andassero a recare un’offerta votiva a qualche nume tutelare; andavano dai loro banchi alla fontana e dalla fontana ai banchi continuamente. Ai piedi intorno alla statua era come un tappeto fiorito; la pioggia spruzzava su quelle verdure e quei mazzi di fiori variopinti, gocce iridescenti che facevano rivivere le foglie avvizzite, e tutte s’affaccendavano onde trovare un posto per la loro merce ai piedi della fontana protettrice.
E intanto i banchi erano riforniti di verdure sempre fresche; i compratori facevano cerchio, e qualche volta dovevano aspettare il loro turno per essere serviti.
Anche Lodovico si svegliò pel rumore della folla e per lo scroscio della fontana, raggiunse Valentina sul balcone, e stette con lei ad ammirare lo spettacolo nuovo.
— Pare una festa di carnevale, — disse Valentina. — Così dovevano essere le feste che in antico si facevano in onore di Cerere e Pomona, e non si crederebbe che questa festa ogni giorno si ripete e si rinnova.
— Quanto è diverso da tutti i mercati che abbiamo veduto! Dove si trova un insieme più pittoresco? — disse Lodovico, — non è possibile confonderlo con altri perchè è unico. Quante volte l’ho veduto nei miei sogni! — E sì dicendo stava estatico e meravigliato ad ammirare il palazzo Maffei laggiù, incoronato di statue, severo, maestoso, che pareva osservare la folla plebea, quasi a distanza, e gli affreschi delle case de’ Mazzanti, sorridenti ai raggi del sole che li illuminavano, e tutte quelle case di stile e forma diversa che mostravano il gusto e i bisogni di secoli differenti. — Quanto è bello! — esclamò, — e quanto mi pare più gaio della monotona linea delle nostre case di Torino.
Poi sentirono il bisogno di muoversi, di scendere in mezzo a quella folla festosa, tanto più che Lodovico voleva uscire per andare a vedere la casa del nonno.
Scesero, chiamarono Giulia che li aspettava per accompagnarli, e poi si cacciarono in quel labirinto di banchetti sotto gli ombrelloni, dove si divertirono nell’udire parlare un linguaggio quasi sconosciuto, ma molto espressivo.
Giulia conosceva tutti i venditori e dava delle spiegazioni.
Essa comperava sempre dalla signora Nene; aveva gli erbaggi più freschi e la frutta più scelta; altri, specialmente gli uomini, preferivano fermarsi dalla bella Rosina perchè aveva occhi che mandavano lampi.
— Dov’è, dov’è? — chiese Valentina, voglio vederla.
— Eccola, — disse Giulia.
E si soffermò sotto un ombrellone, dove una siepe di gente circondava una bella ragazza fresca e robusta con due occhi neri, luminosi, e riccioli di capelli che le scendevano sul collo, sulla fronte come serpentelli irrequieti. Serviva tutti premurosamente, rideva e pareva contenta di vivere.
— A me piace più la Rossa dei fiori, — disse Giulia, — venite, vi ci conduco.
E attraversando la folla riuscirono ad un posto dove su banchetti schierati in lunga fila, c’erano i fiori più profumati della primavera: viole, rose, garofani, gaggìe, e una schiera di belle fanciulle formavano mazzolini, riempivano con arte piccoli ed eleganti canestri e offrivano la loro merce profumata ai compratori.
La Rossa dei fiori formava mazzolini di rose e viole mammole. Era alta, slanciata e intorno al capo aveva un’aureola di capelli fulvi, del colore tanto amato dal Tiziano, la carnagione candida un po’ dorata, occhi castani, e in tutta la persona qualche cosa di fosforescente, di luminoso, che dava l’impressione che sarebbe bastata la sua presenza a rischiarare una stanza priva di luce.
Offerse un mazzolino a Valentina, ma Lodovico ne comprò tanti e per la sposa e per la cugina e per mandare alla zia Teresa. Erano così profumati quei fiori! Gli sembrava che avessero un profumo più intenso di quello degli altri paesi.
— È un fatto, — osservava Valentina, — qui c’è una natura esuberante, in tutto, nelle donne, nei fiori, nella frutta. Pare che in seno a questa terra si concentri un calore più intenso, come nelle viscere d’un vulcano.
— Sono stanco della folla, — disse Lodovico che aveva la sua idea fissa in mente, — se Giulia volesse condurci sul corso di Santa Anastasia….
— Prima vi voglio mostrare la piazza dei Signori; è qui sulla nostra via. Vedete, ci siamo già. Qual contrasto passare dal frastuono di piazza Erbe a questa piazza tranquilla!
— Quanto è bello! Che calma solenne, — disse Lodovico, — mi fa piacere vedere qui in mezzo il monumento di Dante, il nostro poeta più grande. Verona è una delle poche città che gli abbia eretto un ricordo di marmo.
Poi si fermò estatico ad ammirare la loggia di fra Giocondo.
— Quelle sono le statue degli illustri veronesi, — disse Giulia, — qui c’erano le case degli Scaligeri, e laggiù vi sono le tombe.
Sì dicendo s’erano avvicinati alla chiesa di Santa Maria Antica e rimasero silenziosi davanti a quell’immortale lavoro di marmi e di ferro che racchiude le ceneri dei più munificenti signori di Verona.
— La più grandiosa è la tomba di Can Signorio, — disse Giulia.
— Quali artefici ebbe il nostro paese! — esclamò Valentina, — è un sogno di marmo e il cancello è meraviglioso, pare un merletto di ferro, — poi voltasi a Lodovico disse: — Non si potrebbe rinunciare oggi a far le nostre ricerche della casa degli avi? Sarebbe così bello tuffarsi in quest’onda di arte senza altri pensieri!
— Sono impaziente di vedere la casa che mi sta fitta in capo, dopo farò quello che vorrai, — poi vedendo Valentina un po’ turbata, soggiunse: — non temere, non è come pensi, sono preparato a tutto, anche a non trovar nulla, ma l’incertezza mi opprime.
— Andiamo dunque, — disse Valentina.
E Giulia li condusse sul corso di Santa Anastasia, davanti alla casa che aveva appartenuto all’avo di Lodovico.
Non avea nulla di speciale dal lato esteriore. Al pianterreno c’era una bottega che portava un’insegna colla scritta: Osteria delle due campane.
Lodovico non pensò se fosse conveniente far entrare in un luogo così volgare due signore; ma obbedendo all’impulso della sua idea fissa entrò nell’osteria. In quell’ora non era molto popolata. In un angolo due operai giuocavano a tre sette colle carte; dall’altra parte quattro uomini in maniche di camicia colla pipa in bocca e un boccale di vino sulla tavola giuocavano alla morra, e si sentiva ogni tanto fra le pareti affumicate della stanza risuonare un numero, come un razzo lanciato nell’aria.
Nel vedere entrare quei visitatori tanto inusitati, sospesero i giochi, e l’oste si avanzò sorridendo, chiedendo in che cosa potesse servirli.
Parlò Lodovico e gli disse lo scopo della sua visita. Quella casa aveva appartenuto a suo nonno; voleva visitare i sotterranei e vedere se ci fossero sepolte alcune carte importanti che dovevano esservi nascoste fino dal 1848.
L’oste lo guardò come si fa con una persona, che si supponga non sia in sè.
— Come? Per una storia così vecchia venire ad incomodarlo? Fosse almeno stato per un tesoro, avrebbe sperato anche lui di poterne avere una parte.
— Il vostro disturbo vi sarà pagato e bene, — disse Lodovico. Mi basta aver il permesso di poter far qualche scavo, vi farò rimettere tutto a posto e non avrete alcun danno.
— Però mi permetterete di star presente a questi scavi; sapete, ho la mia merce nel sotterraneo.
— Non ho nulla in contrario, — disse Lodovico, e vi prometto che se troveremo un tesoro sarà tutto per voi.
— Quand’è così, fate pure, — disse l’oste, — purchè sia tutto terminato prima di sera. Capite bene, la sera ho qui molti avventori e non vorrei….
— Ma anche subito, — rispose Lodovico, — fatemi, vi prego, chiamare degli uomini del mestiere.
— È meglio intanto andare a colazione, — disse Valentina.
— Se credono, — disse l’oste, — possono far colazione qui, mia moglie è una buona cuoca e vi preparerà vivande squisite, io poi ho un vino di Valpolicella che può far resuscitare i morti.
— Volentieri, — disse Lodovico, coll’intenzione di tenersi buono l’oste, ed anche perchè si sentiva attratto da quei luoghi, — se avete una stanza appartata dove poter stare tranquilli, accetto, così dopo ci mettiamo all’opera.
L’oste mostrò uno stanzino che apriva soltanto nelle grandi occasioni, quando venivano dei forestieri di riguardo, e serviva la sera ad una compagnia di signori che solevano riunirsi per fare la partita e bere qualche buona bottiglia di vino.
— Va benissimo, — disse Lodovico, — anche tu, Giulia, dovresti restare con noi.
— Vi ringrazio, — rispose la cugina, — ma la mamma starebbe in pensiero; ritornerò dopo per vedere se avete scoperto nulla; queste ricerche mi interessano, mi sembrano storie da romanzo.
Sì dicendo uscì pensando a quei cugini tanto originali che si contentavano di mangiare in una volgare osteria e si erano certo fitti in capo di trovare un tesoro. Era impaziente di raccontare quel fatto alla madre e alle vicine; infine erano divertenti e davano argomento di discorrere, e poi molto alla buona, anzi troppo, e rideva in cuor suo all’idea che si era tanto sgomentata all’annunzio del loro arrivo, temendo fossero troppo esigenti.
Valentina e Lodovico, seduti a tavola nel loro camerino, trovarono che in nessun grande albergo erano stati serviti con maggior premura, e da un pezzo non rammentavano d’aver mangiato con tanto piacere.
L’oste e la moglie erano tutti affaccendati per servirli, pronti ad ogni piccolo cenno; essi avevano scelto cibi semplici: pollo, uova, salato, e avevano trovato tutto squisito. Il vino vecchio di Valpolicella, quello delle grandi occasioni, che l’oste aveva voluto far loro gustare, così frizzante e saporito, li aveva ristorati e messi di buon umore; e gli dissero:
— È proprio vero; questo vostro vino rallegra e riscalda; ma sapete che vi ordinerò di mandarmene in Piemonte, nel paese del vino?
L’oste a quegli elogi gongolava dalla gioia e non solo avrebbe fatto scoperchiare il sotterraneo, ma tutta la casa, per contentare un signore così compito.
Egli stesso s’incaricò di far venire i muratori, e quando tutto fu pronto domandò a Lodovico da qual parte si dovesse incominciare a togliere le pietre del pavimento. Fosse il vino che avesse dato a Lodovico una specie di chiaroveggenza, o le vive imagini del suo cervello, parlò del luogo dove si trovava come se ci fosse sempre vissuto e disse:
— Una volta ci doveva essere una scala che conduceva dall’appartamento della casa direttamente nel sotterraneo.
— Me ne ricordo, — disse l’oste; — quella porta fu chiusa quando presi in affitto la bottega e la cantina. Venite, — continuò; e preso un lanternino lo condusse, attraverso ad una serie di cantine buie, in un ambiente un po’ più vasto e più alto degli altri. Avvicinatosi ad una parete soggiunse: — Doveva esser qui la porta, c’è ancora qualche traccia.
La cantina era fatta a vôlta, intorno alle pareti c’erano alcune botti di grandezze diverse, poste in fila, come schiere di soldati, in ordine di battaglia; in un angolo bottiglie, fiaschi vuoti un po’ in disordine, nell’aria un odore di vino dava una specie di ebbrezza al cervello.
Lodovico non s’accorse di nulla; disse soltanto:
— È qui, ricordo benissimo, il luogo è un po’ mutato, ma in terra a sinistra ci deve essere una pietra con infisso un anello di ferro per sollevarla. È là che dovranno cercare; soltanto ci vorrà un po’ di illuminazione.
— È presto fatto, — disse l’oste.
Dopo averli lasciati un istante, ritornò con un pacco di candele, e incominciò ad infilarle nei colli delle bottiglie vuote.
— Vedrete che illuminazione, lasciate fare. — Posò le candele accese sopra le botti; e sopra alcune tavole di legno; attaccò due lanterne alla vôlta, e quando gli parve che ci fosse abbastanza luce, andò a chiamare gli uomini affinchè si mettessero all’opera. Vennero, armati di zappe e di picche.
— Prima in quell’angolo, — disse Lodovico; — cercate se trovate un anello di ferro.
Mentre frugavano e picchiavano in tutti gli angoli, Valentina non fiatava, le pareva di sognare. Quell’illuminazione fantastica, quegli uomini intenti ad un lavoro rude, suo marito in piedi colla faccia accesa che dava ordini esatti e precisi, le faceva l’effetto di trovarsi sotto terra, in qualche miniera o nelle viscere d’un monte e che Lodovico fosse un capo da cui dipendesse l’esito d’una grande impresa.
Quegli uomini picchiavano colle picche, cercavano carponi l’anello di ferro che Lodovico diceva esistere, come se l’avesse veduto, ma non trovavano nulla.
— Cercate meglio, — diceva l’ingegnere, — ci dev’essere, almeno una traccia…. non trovate nulla? cercherò io, — e si mise carponi a toccare il terreno con crescente ansietà, — ah, ecco, — disse finalmente, — sentite qui, questo solco, questa specie d’incavo, qui era l’anello di ferro, ed ora alzate la pietra.
Non era cosa facile; l’umidità e il tempo avevano formato intorno alla pietra una specie di cemento durissimo, che non cedeva facilmente ai colpi di piccone.
Gli Arcelli erano impazienti, pareva che quegli uomini mettessero un tempo interminabile nella loro opera di distruzione.
— Presto, presto, — diceva Lodovico, — come siete lenti!
E quegli uomini picchiavano con maggior violenza, mettendo in quel lavoro tutto lo sforzo di cui erano capaci; avevano già fatto una fessura nella pietra ma procedevano lentamente come se si trattasse d’infrangere un masso di granito.
— Coraggio, avanti, forza, provate a cacciare una leva nella fessura.
— Bisogna picchiare ancora e molto, prima di sollevare la pietra, — dicevano gli operai.
— Se vi riuscite, avrete una buona mercede.
Quelle parole pareva avessero dato agli operai nuovo vigore e ripresero il lavoro con maggior lena.
Come parevano eterne quelle ore ai due sposi impazienti!
Finalmente la pietra si mosse e un urlo di gioia uscì dalle labbra di tutti.
La pietra era pesante e, quantunque stanchi, fecero uno sforzo supremo per sollevarla; l’abisso era scoperchiato.
Lodovico si avvicinò, ma dovette subito ritrarsi, un tanfo asfissiante usciva da quell’apertura.
— Scoperchiate ancora, che l’aria entri, se vogliamo poi entrare noi pure.
E levarono con maggior facilità un’altra pietra.
— Io posso entrare, — disse un operaio, — noi siamo abituati a queste cose, in ogni caso legatemi ad una corda; se mi sentirò male vi darò uno strappo e mi solleverete.
— Per carità, state attenti, — raccomandò Valentina, — si fa presto ad asfissiarsi.
— Non c’è pericolo, — disse l’operaio più coraggioso, — tenete la corda, ecco, son pronto, — e sì dicendo scomparve nella buca.
Gli altri, e più di tutti Lodovico e Valentina, stavano attenti, silenziosi, coll’ansietà di chi attende un avvenimento insolito. Ad un tratto si udì uscire un’esclamazione.
— Avete trovato? — gridò Lodovico.
— Sì, un involto…. c’è dentro qualche cosa, non capisco, è duro, pare di legno.
— Su, su, vediamo.
— Ecco, sento come una palla.
— Su, su, presto, — diceva l’oste.
Lodovico non parlava, aveva il cuore che pareva gli scoppiasse, teneva Valentina per mano, stretta come in una morsa di ferro.
Valentina era trepidante. Nessun ricercatore di città sepolte avea mai provato il sentimento d’aspettazione ansiosa che essa provava in quel momento. L’operaio salì recando in mano un teschio.
— Dio mio! — esclamò l’oste, — altro che tesori!
— Ancora, ancora, — disse Lodovico, — scendete, portate il resto, ci dev’essere un altro teschio e poi altre ossa ancora, due scheletri ci devono essere.
— Siete forse un mago? — disse l’oste, — ma che cosa avverrà? crederanno che qui sia stato assassinato qualcuno e la mia bottega ne scapiterà.
— Non temete, — disse Lodovico, — questi scheletri son là sepolti da cinquant’anni; nè voi nè io eravamo nati in quel tempo.
— E come fate a sapere?
— Non so, mi son fatto un sogno.
Altre ossa erano uscite dal sotterraneo, poi carte, pezzi di giornale e l’involto di tela ammuffito: erano due scheletri come aveva detto Lodovico, però gli operai dicevano di dover dichiarare all’autorità la scoperta fatta.
— Fate pure, tanto io voglio chiedere il permesso di dar a quelle ossa degna sepoltura, — disse Lodovico.
Intanto fece collocare le ossa in una cassa, in un angolo tranquillo che formava quasi una nicchia, per poter attendere il permesso del municipio prima di muoverle dal posto dove erano state trovate.
L’oste era avvilito; s’aspettava di veder scintillare oro ed argento, e invece dovea tenersi chissà per quanti giorni quella funebre compagnia; si sentiva venire i brividi al pensarci, e si pentiva d’aver dato il permesso a Lodovico di far delle ricerche nella sua casa.
Si consolò quando l’Arcelli gli mise in mano una bella somma di danaro, e gli promise di ritornare il giorno dopo.
— E me li lascerete molto in deposito? — disse accennando agli scheletri.
— No, li farò portar via al più presto possibile; vi raccomando intanto che non sieno profanati, chiudete a chiave il sotterraneo.
L’oste rabbonito dal ricco dono promise ogni cosa, e Lodovico e Valentina uscirono e s’avviarono verso casa, colla testa piena d’idee che si confondevano, si accavallavano nel cervello e un bisogno di espandersi e di parlare e dar sfogo al cumulo di pensieri da cui erano oppressi.

VI.

Il salotto della zia Teresa non era mai stato così animato come in quella sera in cui gli Arcelli erano infervorati a raccontare le impressioni della giornata e la lugubre scoperta.
Tutti insieme cercarono di ricostruire il dramma che si era svolto nella vecchia casa. Non dubitarono che i due scheletri avessero appartenuto alla piccola Elisa ed a qualche suo innamorato.
Certo il marito, tornato a casa dopo una lunga assenza, forse irritato di non esser riuscito nella sua missione patriottica e col cuore d’italiano ferito vedendo che gli avvenimenti non erano favorevoli, trovando la moglie in stretto colloquio con uno dei giovani che egli aveva mandato dal Veneto, acciecato dall’ira, li aveva uccisi entrambi e poscia nascosti nel sotterraneo che serviva di ripostiglio alle carte politiche e compromettenti.
La zia Teresa aggiungeva delle notizie preziose che mostravano la verità del fatto. Essa era entrata per la prima in casa del fratello dopo la partenza di lui; dal disordine trovato, da alcune macchie di sangue sul terreno, dalla scomparsa dei due giovani e dalla fuga del fratello, aveva intuito la verità; ma per non accusare nessuno, l’aveva tenuta sepolta nel cuore, come il sotterraneo aveva tenuto nascosti i cadaveri: ora non c’era più dubbio, doveva essere accaduto precisamente come pensavano; ma quello che imbarazzava la zia Teresa era che Lodovico avesse scoperto quel segreto custodito con tanta cura.
Egli allora raccontò il male che fino dall’infanzia l’aveva travagliato, e come la sua medichessa, Valentina, con una divinazione quasi soprannaturale, fosse riuscita a colpire nel segno.
— E vedete, — soggiunse tutto pieno d’entusiasmo per la giovane sposa, — i migliori medici avevano sbagliato, nessuno aveva trovato l’origine del mio male; ci voleva una medichessa per veder giusto, e poi ci sono ancora quelli che vorrebbero tener la donna rinchiusa fra le domestiche pareti, quando può adoperare l’intelligenza con tanto vantaggio dell’umanità! Anch’io, vedete, forse per atavismo, nel vedere il sesso gentile invadere il nostro campo, ero contrario alla donna indipendente; ma mi sono ricreduto; non so se essa potrà riuscire in ogni scienza, ma nella medicina potrà raggiungere delle altezze inesplorate; è una scienza nella quale ci vuole una specie di divinazione, e la donna la possiede meglio di noi, sicchè può far molto bene. Valentina ha questa qualità in sommo grado, e ne ho avuto la prova, sicchè io spero che vorrà esercitare la sua professione per il bene dell’umanità.
Valentina era orgogliosa della stima e degli elogi del marito ma crollò il capo e disse:
— Per ora regnano ancora i vecchi pregiudizi; non potrei esercitare la mia professione per mancanza di clienti!
— Ma ci sono i poveri e quelli che hanno perduta la fede nel loro medico e amano le cose nuove, poi, quando sapranno il mio caso ch’io proclamerò al mondo intero, vedrai….
— In ogni modo verrà pubblicato questo fatto che prova una delle mie teorie, — disse Valentina, — è un trionfo per me, che chiamavano romanziera della scienza; sarà sempre un documento storico; soltanto non basta trovare una malattia, bisogna guarirla e ancora non possiamo cantar vittoria.
— Tu sei più incontentabile di me, — disse Lodovico. — Ero talmente avvilito del mio male incomprensibile, che soltanto l’idea che ne conosco l’origine e che io espio una colpa del nonno mi fa più tranquillo.
— Ma e come può aver conosciuto un fatto accaduto molti anni prima della sua nascita? — chiese Giulia.
— È questa la prova della mia teoria, — disse Valentina, — i centri cerebrali impressionati da un fatto atavico. Egli non vide nè seppe nulla, ma sua madre bimba di quattro anni è stata testimone inconsapevole della scena, che non poteva comprendere, ma che s’è infissa nel cervello infantile incancellabilmente e forse sarà stata un’ossessione per tutta la sua esistenza; quell’immagine l’ha trasmessa nel cervello del figlio, dove non si sa in che modo si è mutata in incubo opprimente.
— Quante cose sapete, — disse la zia Teresa. — Se poteste guarirmi!
— Tenteremo un po’ d’elettricità, — rispose Valentina, — insegnerò a Giulia a dare la corrente e potrà portare un po’ di calore e di vita alle membra intorpidite: ciò vi recherà certo qualche sollievo.
Poi parlarono del passato e del modo di ottenere il permesso per poter dare sepoltura alle ossa dissepolte. Giulia aveva molte conoscenze fra gl’impiegati del municipio e se ne sarebbe incaricata con tutto il piacere per essere utile ai cugini pei quali incominciava a sentire un po’ di simpatia.
Con quei discorsi era già passata l’ora in cui la zia Teresa soleva coricarsi, e Valentina si alzò per salire al suo appartamento affinchè la vecchia potesse riposare.
Data la buona notte, raggiunsero le loro stanze, ma non avevano voglia di dormire; erano troppo eccitati dagli avvenimenti della giornata e avevano la mente infiammata e rigurgitante di pensieri e d’imagini.
Apersero la finestra e uscirono sul balcone per respirare l’aria fresca della notte.
La piazza era deserta e silenziosa; la colonna col leone di San Marco e Madonna Verona e il capitello veneziano s’ergevano in mezzo all’ombra come fantasmi. La luna presso al tramonto mandava una luce diafana e pallida, rischiarando un angolo della piazza.
Nessun essere vivente rompeva quel silenzio solenne. La città vetusta era immersa in un sonno tranquillo.
Valentina e Lodovico godevano quella tranquillità, riposavano da una giornata piena di avvenimenti e respiravano con voluttà l’aria fresca che pioveva come una carezza sulla loro faccia infocata.
Parlavano del solito argomento di quella giornata memorabile e della tomba che dovevano erigere alle vittime della tragedia passata. Essi decisero per una semplice arca di marmo che racchiudesse tutti e due gli scheletri e sopra scolpire semplicemente il verso: Amor condusse noi ad una morte, senza nome e senz’altra indicazione.
Forse avrebbe colpito l’imaginazione di qualche anima innamorata e sarebbero venuti a visitare la tomba misteriosa come ad un pellegrinaggio o come andavano a quella di Giulietta. Poi trovavano che come le frutta della terra, l’amore in quella città doveva essere più intenso; anche a loro pareva di amarsi meglio là in quella quiete, in quella piazza addormentata, vedendo disegnarsi nell’ombra la casa dei Capuleti. Si tenevano abbracciati come se fossero nel primo giorno del matrimonio e parlavano incessantemente facendo progetti per l’avvenire.
Dovevano tutti e due lavorare con tutte le loro energie per inalzarsi sopra la moltitudine, lasciare una traccia luminosa nella scienza ed essere degni l’uno dell’altro. Egli avrebbe voluto coll’elettricità tramutare la faccia del mondo, e lei colla scienza sollevare l’umanità sofferente. Egli confessava che il suo per Valentina non era soltanto amore, ma ammirazione, dopo che essa era stata tanto chiaroveggente; gli pareva d’aver accanto un essere superiore e n’era orgoglioso e avrebbe voluto che tutti s’inchinassero ad adorare la sua Valentina.
Erano in quello stato estatico che fa dimentichi di tutto e di tutti; furono scossi da un rintocco che partì dall’orologio della torre dei Lamberti e si sparse nel silenzio della notte come una sfida; tacquero, trattennero il fiato per contar l’ora.
Uno, due, tre, quattro.
I due giovani si guardarono in faccia esterrefatti. Un solo pensiero attraversò il loro cervello. Erano proprio le quattro, l’orologio dovette ribattere i rintocchi perchè ne fossero persuasi. Già da due ore l’ora fatale era passata e Lodovico per la prima volta non aveva avuto la crisi del male.
Non trovarono la voce per esprimere il loro pensiero, tanta era la commozione che provavano nell’anima; ma si gettarono nelle braccia l’uno dell’altro colle lagrime agli occhi.
La malattia era vinta inaspettatamente, la sorpresa era stata troppo imprevista e la gioia tanto grande che quasi la sua intensità diventava una sofferenza. Quando potè parlare, Lodovico chiese a Valentina:
— E sarà vinta per sempre? Tu che sai tutto, dimmi che cosa succede dentro di me.
— Quello che speravo, che la scienza mi suggeriva, ma, sai bene, in tutte le cose recondite che avvengono nel nostro organismo c’è la parte misteriosa, imprevista, e perciò non è così certo l’esito come quello dei vostri calcoli matematici. Una piccola parte del tuo cervello era piena della tragedia degli avi, e ad una cert’ora quell’imagine prendeva il sopravvento, e scoppiava come una bomba al contatto colla miccia infocata; oggi tutto il tuo cervello è stato riempito da quelle imagini, ed è avvenuto l’equilibrio; un masso compatto schiaccia, diviso in piccoli frammenti riesce leggero; ora non c’è alcuna ragione per cui il tuo male si rinnovi; è svelato il mistero e più non esiste.
— È vero, — così deve essere, — rispose Lodovico, — mi sento mutato, mi pare che una vita nuova incominci per me; è strano, non mi sento stanco, non ho voglia di dormire, i pensieri lieti mi riscaldano il cervello. Valentina, restiamo qui per vedere spuntare l’alba d’un giorno che segnerà un’êra nuova nella mia vita.
La giovane medichessa, sorpresa del suo trionfo, che non s’aspettava, chinò il capo in segno di assentimento, e rispose:
— Sì, restiamo pure, le ore felici bisogna viverle e non obliarle nel sonno.

Fine.


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TITOLO: Una tragedia in un cervello
AUTORE: Cordelia

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Verso il mistero : novelle / Cordelia. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 390 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici