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(voce di SopraPensiero)Massimo Scalia, politico italiano e docente presso l’Università «La Sapienza» di Roma, è uno dei padri dell’ambientalismo scientifico in Italia. Fondatore della Lega per l’Ambiente, ora Legambiente, è stato tra i primi parlamentari delle Liste Verdi eletti negli anni ottanta. Il suo nome è legato alle battaglie contro il nucleare e a favore delle energie rinnovabili. Dopo l’esperienza nei Verdi, è oggi tra i fondatori e i dirigenti nazionali degli Ecologisti Democratici e del Movimento Ecologista. Nel 1997 ha presieduto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse.
Com’è la situazione ecologica nella «terra dei fuochi»?
Purtroppo è messa male, per dirla in parole semplici, e francamente per rendersene conto non c’era bisogno delle rivelazioni di Schiavone, criminale che ha contribuito grandemente a degradare quella terra. La situazione era già allora così grave che non c’era alcun bisogno della sua testimonianza (peraltro resa pubblicamente già nel 1995, due anni prima di quella della Commissione parlamentare d’inchiesta, di cui oggi si parla tanto). Come Commissione acquisimmo nuovamente la sua testimonianza affinché restasse agli atti dei lavori; ma nel corso dei numerosi sopralluoghi effettuati in quell’ambito la gravità del disastro balzava agli occhi. Al punto che quell’area (il litorale domitio-flegreo) venne inserita nell’elenco dei primi 17 siti nazionali da bonificare. Ecco dunque che già allora tutte le autorità competenti in materia erano perfettamente a conoscenza del fatto che quell’area fosse disastrata in maniera paragonabile a quelle del grande inquinamento industriale, come ad esempio l’ACNA di Cengio o il petrolchimico di Gargallo Priolo.
Informazioni già allora di dominio pubblico, quindi.
Sì, anche perché i nostri documenti erano pubblici (anche se non credo che siano stati in molti a prenderne visione) e in essi facevamo sempre di tutto per dare spazio a tutte quelle voci che difficilmente avrebbero trovato spazio altrove per esprimersi: quelle dei singoli che denunciavano con la propria testimonianza personale, come quella delle associazioni.
Qual è stato dunque l’esito di quella indagine, sul versante dell’azione da parte delle autorità competenti?
Posso dire in estrema sintesi che chi allora era preposto a fare interventi di risanamento lo ha fatto – se lo ha fatto – tardi, poco e male. D’altro canto la situazione è ancora gravemente compromessa e qui le responsabilità vanno suddivise tra il governo nazionale e quelli del territorio. Mi permetta qui di osservare che i cittadini non sono affatto esenti da ogni responsabilità: essi hanno anzi l’enorme responsabilità di aver lasciato troppo sole e per troppo tempo quelle voci che invece le denunce le facevano, correndo rischi in prima persona.
Lasciando un attimo da parte i cittadini e la loro innegabile responsabilità: com’è possibile che le autorità istituzionalmente deputate a intervenire, non abbiano provveduto e siano rimaste impunite, di fronte a una simile catastrofe?
Be’, chi voglia porsi questo problema non potrà limitarsi a considerare il punto di vista limitato della terra dei fuochi; dovrà anzi estendere lo sguardo a tutti quei siti più o meno estesi (molti dei quali paragonabili per estensione: si pensi che l’area di Priolo Gargallo è confrontabile con quella della provincia di Caserta) devastati dalla produzione industriale, cui accennavamo all’inizio. Ben vengano tutte le iniziative di queste ultime settimane nate intorno all’emergenza campana, che contribuiscono a tenere i riflettori accesi sul problema; ma la questione italiana è molto più ampia e complessa e comprende l’intero quadro di distruzione e di contaminazione che è l’esito negativo di quarant’anni di sviluppo industriale.
Quindi il problema non riguarda solo il traffico e lo sversamento illegale di rifiuti ad opera della criminalità organizzata.
Direi che il problema è ben più ampio e che andrebbe trattato complessivamente, perché in quell’elenco dei primi 17 siti nazionali da bonificare – che hanno in definitiva lo stesso tipo di problemi e di esigenze – solo 2 (la terra dei fuochi e la discarica di Pitelli, vicino a La Spezia) nascono dallo sversamento illegale, mentre gli altri quindici afferiscono alla produzione industriale. Un discorso di risanamento del territorio nazionale dovrebbe a mio avviso essere complessivo.
Cosa si può dire che sia cambiato in questa zona dal 1997?
Questo è difficile per me dirlo, perché il mio mandato parlamentare è scaduto nel 2001 e con esso anche la mia possibilità di incidere direttamente su questi fenomeni. Dopo ho continuato a osservare le cose da cittadino, cercando di mantenere uno sguardo attento e informato e di partecipare agli eventi collettivi, in particolare quelli promossi da Legambiente. Quello che posso segnalare nella realtà di questi ultimi vent’anni è l’enorme scollamento tra la propositività attiva e vigile delle associazioni e la sordità delle istituzioni.
Crede che il governo dovrebbe adottare misure speciali per l’emergenza ambientale in Campania?
No: sono contrario alle azioni dettate dall’emergenza. Si deve a mio avviso fare quello che andava fatto prima, cioè cominciare a provvedere al risanamento del territorio e questo presuppone una radicale presa di coscienza della politica e una ben precisa volontà di mettersi a studiare in dettaglio la situazione delle acque e del suolo, dalla cui analisi parte la comprensione dello stato delle cose, del come ci si è arrivati e di quale sia la strada migliore per venirne fuori. Tutto parte da questa conoscenza (che richiederà probabilmente l’opera di decine di migliaia di tecnici esperti e forse svariati mesi di lavoro). Ma al termine si sarà finalmente in grado di agire con cognizione di causa. Meglio sarebbe stato farlo vent’anni fa. Ma, d’altro canto, è meglio tardi che mai.
Nell’attesa di questo studio (ove mai ci fosse, appunto, la volontà politica di realizzarlo): come dovrebbe comportarsi il genitore che ha bisogno di dare acqua e cibo ai propri bambini?
Per questo tipo di informazioni esistono istituzioni da prendere come riferimento, sia sul piano nazionale (l’Istituto superiore di sanità) sia su quello locale (come l’ARPA Campania, nel caso in esame). Sono questi che possono e devono dare garanzie sulla qualità dell’aria, dell’acqua, del suolo. D’altro canto, in assenza di una mappatura completa del territorio (ne parlavamo un attimo fa) nessuno può spingersi molto più in là del dire «l’inquinamento porterà danni alla salute»; per poter affermare con una certa sicurezza l’entità e il tipo dei danni (e come farvi fronte in via preventiva) la mappatura è indispensabile. Senza l’elemento qualificante e quantificante derivante dall’analisi, ogni discorso del genere non è che una chiacchiera da bar.
Del resto è nota la sua collocazione nell’ambito di quello che viene chiamato «ambientalismo scientifico».
Vorrei sottolineare però che non si tratta di una questione di «gusto» o di mera «appartenenza»; la mia opzione per la scienza parte dal fatto che a certi problemi – come quello che stiamo affrontando qui – è possibile dare due tipi di risposta: quella populista e quella seria. Io sono per il secondo tipo, perché solo una conoscenza adeguata giustifica un certo tipo di allarme ed in grado di offrire soluzioni efficaci.
Allo stato delle cose, quale futuro prevede per la Campania e per l’Italia?
Al corteo di Napoli al quale ho partecipato qualche giorno fa lo slogan che circolava era: «vogliamo una terra felice». È un’ottimo slogan, dobbiamo pretendere di vivere in una terra che non ci impensierisca come qualcosa di pericoloso o addirittura in agguato. Tuttavia questa lodevole intenzione non produrrà da sola la soluzione del problema: la speranza vera è che da qui prenda il via una partecipazione di massa dei cittadini alla vita politica del Paese che possa attivamente influenzare l’azione delle istituzioni indirizzandole alle esigenze reali. I cittadini devono diventare protagonisti, in tanti sensi. Ben venga la manifestazione sporadica, certo; ma i cittadini devono assediare le istituzioni affinché facciano quello che devono fare. È questo il tipo di partecipazione che si richiede alla cittadinanza: nient’altro che la partecipazione democratica alla vita del Paese. Nessuno pretende che ci si metta di punto in bianco a buttar giù progetti di bonifica o a valutare tecnologie di risanamento; è sufficiente che i cittadini comincino a denunciare tutto ciò di cui sono a conoscenza e poi che si uniscano, realizzando così una forza tale da poter fare proposte. Solo una rete di solidarietà civile, che stia «col fiato sul collo» delle istituzioni, potrà permettere alla voglia di riscatto di questi territori di diventare realtà.