Triste storia di un critico drammatico

di
H. G. Wells

tempo di lettura: 14 minuti


Io era allora – saprete subito perchè non lo sono più – Egbert Craddok Cummins. Il nome esiste però sempre.

Io sono ancora, che Iddio mi protegga, un critico drammatico e scrivo nel giornale: La Croce di Fuoco (Fire-Cross). In quanto a ciò che sarò fra breve, io davvero lo ignoro completamente! Scrivo con la mente affaticata, con una confusione immensa nelle idee! Farò tutto quanto sta in me per riescire chiaro ai miei lettori, malgrado la grande difficoltà che mi sta innanzi.

Bisognerà che voi abbiate molta indulgenza verso di me, perchè quando un uomo ha perduto ad un tratto ed interamente la propria individualità, ed è il caso mio, quest’uomo ha molta difficoltà nell’esprimersi chiaramente. Ma vedrete che appena avrò afferrato il soggetto di quanto vi narrerò, io sarò completamente chiaro e mi capirete subito. Dunque, dove siamo rimasti? Ah! ecco qua: Io sono il fu Egbert Craddok Cummins! Per lo passato non mi sarebbe piaciuto scrivere una storia così piena del mio i o quanto quella che vi sto per narrare! Vi è dappertutto il mio essere, io, io, sempre io! Ora i miei gusti sono cambiati, si capisce, sono diventato critico drammatico, ed ho studiato i maestri del genere. Quei, cari maestri! Tutto cambiò in me! Ora non si parla che di me! E non crediate che io sia egoista! No di certo, perchè la mia individualità si è cambiata completamente, non sono più quello che ero! Ah! il passato! Ero un bel giovane, educato, timido, elegante; avevo un bel paio di baffi, un viso interessante e…. tartagliavo un poco.

Ero fidanzato con una bella signorina che si chiamava Delia. Molto moderno il nome Delia! E molto moderna anche Delia! Vi basti sapere che fumava la sigaretta e mi amava anche un pochino perchè io era un bravo ragazzo. Delia diceva sempre Che io rassomigliavo a Lambnota 1, certamente a causa del mio balbettìo. Suo padre era un gran conoscitore di francobolli, e ne faceva la collezione; ed essa era molto amante di letture, perciò andava ogni giorno al British Museum (per i letterati d’ambo i sessi che volevano comunicarsi delle idee era un ottimo convegno quel British Museum!). Noi ci amavamo a nostro modo, cioè da intellettuali, e nutrivamo in cuore rosee speranze pel nostro avvenire.

Ora tutto è rovinato!… Suo padre mi stimava perchè, secondo lui, io sapeva apprezzare i francobolli.

Delia non aveva più madre, perciò non avrei avuto una suocera; avrei dunque potuto toccare l’apice della felicità! In quegli anni, io non andava mai al teatro; era stata la zia Carlotta ne’ suoi ultimi momenti a consigliarmi di fuggire quel genere di divertimento. Fu appunto allora che Barnabè, l’editore della Fire Cross, fece di me ed a mio dispetto un critico drammatico!

Barnabè è un bell’uomo, robusto come un toro, con una testa grossissima ed una folta e ricciuta capigliatura. Ha modi cortesi ed invadenti, e nessuno, specialmente chi ha il carattere debole al pari di me, può resistergli. Un giorno lo incontrai per le scale mentre io stava per uscire, e di botto mi fermò. Egli tornava a casa per il pranzo ed era più petulante del solito.

— Olà! Cummins! – mi disse. – Ecco l’uomo che mi occorre!

Mi afferrò per un braccio, mi spinse in casa sua, e mi fece sedere in una poltrona proprio davanti al suo tavolo da lavoro.

— Vi prego, accomodatevi! – mi disse. E attraversò rapidamente la stanza.

Lo vidi frugare in un cassetto e ritornare verso di me con alcuni biglietti color rosa e verde che mi pose nelle mani.

— Opera, giovedì; venerdì, Teatro di Surrey; sabato, Frivolezze…. credo che non ci sia altro, – disse.

— Ma!… – esclamai.

— Sono felice che voi siate libero, – continuò a dire tirando fuori dallo scrittoio delle bozze che incominciò a leggere.

— Ma io non capisco.

— Ah benissimo! – mi rispose; e pareva meravigliato della mia osservazione. – Voi mi chiedete di fare la critica di queste bozze? Benissimo! Credete forse che io vi mandi al teatro per divertirvi?

— Ma io non so cosa desideriate.

— Non sono un imbecille! Sappiatelo!

— Non sono mai stato in un teatro.

— Benone. Nessuna idea preconcetta.

— Ma non saprei dove e come incominciare.

— Di bene in meglio. Idee nuove, nessun pregiudizio, nessuna copiatura. Il nostro giornale è un organo vivente e non una collezione di articoli rubati qua e là. Questa non è la casa del giornalismo di mestiere, messo in movimento da una macchina. Posso essere certo della vostra probità!

— Ma io ho degli scrupoli di coscienza.

Questa volta mi afferrò di nuovo per un braccio, e facendomi alzare mi spinse fuori dell’uscio, dicendomi:

— Andate dal redattore Wembly a raccontare di queste storie. Egli vi spiegherà tutto.

E siccome rimanevo un po’ perplesso, egli esclamò:

— Ah! dimenticavo…. ecco per questa sera, fra venti minuti! Siamo intesi!

Era un altro biglietto d’ingresso! E mi sbattè la porta in faccia.

Io aborro le discussioni. Risolsi di dar retta a’ suoi consigli e di diventare (per mia disgrazia) critico drammatico. Percorsi lentamente il corridoio per recarmi da Wembly. Strano individuo però, quel Barnabè. Ma quanto persuasivo! Durante i quattro anni nei quali le nostre relazioni furono assai cordiali, egli mi ha dato un mucchio di consigli; ma non tutti furono da me accettati. Sono di carattere assai docile, non c’è che dire, e mi piego facilmente. Ed è appunto in grazia di questo mio difetto che io fui così disgraziato. Ho accennato, se non mi sbaglio, al leggiero balbettìo che acquistai fin dalla prima infanzia. Ma mi scusi il lettore, tutto ciò non è che una digressione; torniamo a bomba.

Andai a casa in carrozza, senza passare da Wembly, e mi vestii per recarmi al teatro.

Non vi annoierò colle mie riflessioni assai complesse sullo spettacolo di quella sera (tali riflessioni le scriverò nelle mie memorie), nè su quanto mi successe fra un atto e l’altro, quando appunto mi smarrii in un labirinto di corridoi. Vi basti sapere che al terzo atto ero in loggione; e non avevo avuto nessuna intenzione di andare tanto in alto. Desidero solamente insistere sull’impressione che produssero in me gli attori di quella commedia o dramma. Ricordatevi, prima di ogni altra cosa, che fino a quella sera la mia esistenza era stata sempre tranquilla, e che non avevo mai messo piede in un teatro, e vi prego anche di ricordarvi che il mio carattere è assai sensibile. La mia prima impressione fu di profonda meraviglia per la strana e convenzionale maniera con la quale gli attori recitavano ed agivano sul palcoscenico.

Certamente ciò non avviene a chi è abituato al teatro. Quei gesti ridicoli ed esagerati, quelle moine, quelle smorfie orribili, quegli urli che vorrebbero essere di dolore, quelle intonazioni più o meno naturali, quelle risate che fanno piangere, tutte queste belle cose da palcoscenico, per chi va a teatro tutte le sere, non devono certo impressionare. Ma per me tutta questa roba era nuova, nuovissima! Recitavano una commedia. I personaggi dovevano rappresentare, credo, degli inglesi; e credo che si sforzassero di rappresentare degli esseri umani. Il dubbio è naturale per chi non è mai stato al teatro. Osservai in giro, quasi spaventato, nella sala illuminata, e feci la grande scoperta (scoperta ben naturale per un novello critico), che toccava a me di riformare il dramma o la commedia che fosse!

Cenai rapidamente, e mi recai al giornale per scrivere le mie impressioni, che furono, ve lo accerto, assai poco lusinghiere per quel lavoro teatrale! Barnabè ne fu estasiato!

In quanto a me, non chiusi occhio per tutta la notte. Appena potei prender sonno, incominciai a sognare schiere di autori che mi guardavano torvi, attori che battevansi il petto, autori che mi gridavano insolenze e minaccie, attori che ridevano ironicamente e sgangheratamente; insomma, una vera ridda infernale di personaggi teatrali, di critici invidiosi e di autori da me frustati!

L’indomani mi alzai alle undici con un forte mal di capo andai a leggere la mia critica alla Croce di Fuoco, feci colazione e ritornai a casa per radermi la barba.

Mi successe allora un caso strano: non potei trovare il rasoio. Mi venne in mente che il giorno prima non l’avevo adoperato e che perciò doveva essere ancora nella valigia. Andai innanzi allo specchio e mi osservai il viso. Ad un tratto, senza pensarvi, mi afferrai la gola colla mano destra, e colla sinistra tesa incominciai a far finta di radermi la barba. Questo strano mio modo di agire mi meravigliò, ed esclamai:

— Bizzarro! bizzarro!

Ed era una vera bizzarria, che mai fin allora mi era successa. Nondimeno aprii la valigia ed incominciai a radermi la barba sul serio, questa volta. Appena finita quest’operazione, il mio pensiero volò al teatro ed agli attori, ed incominciai davanti allo specchio ad imitare nei gesti i personaggi che avevo visto la sera innanzi.

— Ma questo è un principio di malattia! – esclamai dopo un po’. – Sarebbe forse la teatromanìa?

Forse avevo ragione: si dicono tante verità scherzando!

Per fortuna la mia crisi non durò molto quel giorno lì, e poco dopo uscii di casa per recarmi al British Museum ad un appuntamento con Delia.

Naturalmente parlammo dei nostri progetti per l’avvenire e del mio nuovo impiego. E quest’impiego fu l’origine di tutte le mie disgrazie! Da quella sera io diventai, per dura necessità, un fedele ed assiduo frequentatore di teatri, e a poco a poco il mio carattere incominciò a trasformarsi.

Incominciai ad osservare in me stesso un principio di finzione ed esagerazione esterna. Varie volte fui stupito del mio modo di salutare Delia. M’inchinavo cerimoniosamente, come fanno i cortigiani, e rimanevo in quella goffa posizione per un po’ di tempo. Quando me ne accorgevo, mi raddrizzavo repentinamente non senza provare in me un certo qual turbamento e malessere morale, misto a vergogna. Un giorno, appunto, dopo quel ridicolo saluto, Delia mi guardò assai meravigliata e parve rannuvolarsi in viso.

All’ufficio avevo spesso spesso dei modi strani e nervosi; mi rosicchiavo le unghie, cosa che non avevo mai fatto, e quando Barnabè m’interrogava, mi accadeva talvolta di provare grande difficoltà nel rispondergli. Un giorno, parlando con Delia per non so che cosa, mi strinsi nervosamente la fronte colle mani! Sbrigavo le mie faccende ed i miei affari con un’enfasi stranissima; mi pareva di recitare sempre una commedia! Mi sforzavo di correggere questa manìa, ma inutilmente; peggioravo ogni giorno! Incominciai allora a capire la ragione di questi miei atti inconsiderati.

Il teatro, gli attori producevano in me un’impressione fortissima, e siccome, ve lo ripeto, sono assai sensibile, io non potevo sottrarmi a quella morbosa influenza. Era dunque il contagio. Ogni giorno i miei nervi ricevevano l’impronta di qualche gesto teatrale, raro e meraviglioso! Ogni giorno entrava nell’animo mio un sentimento esagerato, e questo sentimento rimaneva in me per sempre! Una specie di vernice teatrale incominciava a ricoprirmi tutto, e mi faceva dimenticare completamente il mio essere di una volta. Ed il bello si è che mi accorgevo benissimo di questo cambiamento, ma non potevo porvi rimedio alcuno. Mi vedevo perfettamente come attraverso ad un vetro! Una sera che vegliavo solitario, mi parve vedere il mio nuovo io muoversi nella stanza con strani atteggiamenti. Si afferrava la gola, stendeva le braccia, allargava le gambe e camminava come un automa perfezionato! E cambiava atteggiamento per prenderne subito un altro più solenne, più drammatico; lo si avrebbe detto mosso da un congegno di orologeria! Capirete benissimo che tutto ciò mi impressionò assai! E l’indomani andai da Barnabè per rassegnargli le mie dimissioni da critico drammatico.

Barnabè mi parlò del divorzio per un’ora di seguito ed io non riescii a esporgli il mio fermo proponimento. Che volete, sono di carattere un po’ debole! I modi di Delia incominciarono a modificarsi a poco a poco a mio riguardo, e nel nostro reciproco e giornaliero conversare non vi era più quella solita confidenza; io sentiva che essa incominciava a provare meno affetto per me.

Allora io corrugavo la fronte, e prendevo mille atteggiamenti studiati innanzi a lei, ed ero più che convinto di recitar sempre una commedia. Ritornai nuovamente da Barnabè per presentargli le mie dimissioni, e questa volta egli mi parlò di X, di Y e di Z, autori e scrittori emeriti nella Nuova Rivista letteraria e teatrale! Mi fece fumare un grosso e fortissimo sigaro che mi disorientò completamente, ed uscendo da casa sua, mi recai all’appuntamento con Delia, nella Galleria Assira. Camminavo come cammina Irving, il famoso attore Irving!

— Amore! amore! amore! – esclamai quando vidi Delia, ed in quei tre amore! misi tutta l’enfasi acquistata fin da quel maledetto giorno in cui diventai critico drammatico.

Essa mi strinse la mano assai freddamente, guardandomi in viso con occhi indagatori.

— Egbert! – esclamò; e rimase muta per un po’ di tempo.

Io non fiatai. Prevedevo quello che doveva succedere. Mi sforzai di essere l’uomo di una volta, l’Egbert Craddock Cummins che essa amava, dall’andatura naturale, dalla sincerità balbuziente; ma avevo la coscienza di essere (malgrado i miei sforzi) un nuovo personaggio, un personaggio con sentimenti esagerati, misteriosi, un personaggio non mai visto sulle scene!

— Egbert! – mi disse finalmente, – non siete più lo stesso!

— Ah!

Involontariamente avevo messo una mano sul mio cuore e avevo voltato la testa in segno di meraviglia e di stupore doloroso, come un commediante!

— Ecco! – disse Delia.

— Cosa volete dire con ciò? – domandai a voce bassa.

E guardandola in viso con occhi stralunati, strinsi le mie mani in atteggiamento di preghiera. Sapevo benissimo quanto essa voleva dirmi, sapevo benissimo quanto io ero ridicolo in quel momento; ma io lottavo invano contro la teatromanìa.

— Cosa volete dire con ciò? – ripetei ancora; e con voce studiatamente rauca aggiunsi: – Io non vi comprendo!

— Perchè fingete? perchè recitate la commedia? – mi disse in tono di rimprovero. – Io non voglio che siate così! Una volta eravate ben diverso!

— Io era diverso? io era diverso? – risposi guardando di qua e di là con occhi truci.

La vidi allora stringere febbrilmente il suo parasole.

— Un’influenza malefica si è impadronita di voi, – diss’ella, – Cercate di liberarvene! Non ho mai visto nessuno cambiare in tal modo come voi!

— Delia! – esclamai, cascando nel patetico, – abbiate pietà di me! Oh! Delia! Pietà di me! pietà!

Essa mi osservò lungamente e poi incominciò a dire:

— Perchè seguitate a recitare la commedia? Non vi capisco! In ogni modo io non posso passeggiare con un uomo che fa tante stranezze! Voi mi rendete ridicola agli occhi del mondo! Sinceramente, io non vi amo in tal modo! E sono venuta, apposta per dirvelo qui, perchè è il solo posto ove possiamo essere certi di non avere testimoni.

— Delia! – esclamai, – voi volete forse dirmi….

— Sì! La vita di una donna è pur sempre triste…. con voi sarebbe insopportabile!

A tali parole mi battei la fronte con forza. — Addio! – soggiunse freddamente Delia. — Oh, Delia! non così, non così!
— Addio, signor Cummins!

— Oh, Delia! – esclamò Cummins, – non così, non così!
— Oh, Delia! – esclamò Cummins, – non così, non così!

Feci uno sforzo violento per padroneggiarmi, le presiuna mano, cercai di persuaderla addimostrandole il mio affetto; ma essa mi osservò attentamente e trasalendo disse:

— È necessario!

E profondamente commossa, uscì con passi affrettati dalla Galleria Assira.

Dio mio! Tutto il dolore umano urlava nel mio cuore! Io l’adoravo la mia Delia; ma non trovavo una sola parola per protestarle amore e per iscusarmi! Il mio nuovo i o , la mia vernice mi avevano completamente imprigionato anima e corpo!

— Addio! – dissi, – addio ancorai ad….ad…. addio!

E la seguii collo sguardo finchè sparve. In quell’istante io mi odiavo profondamente.

— Addio! – ripetevo come in sogno; e volgevo disperatamente lo sguardo intorno a me. Poi, vinto dal dolore, minacciai, gridando come mi pazzo, il cielo che mi aveva fatto nascere, e scoppiai in dirotto pianto. Ma subito una voce interna mi disse: «Imbecille!»

Ci volle del bello e del buono per persuadere il policeman di servizio al Museo che io non era ubbriaco e che era stata una semplice indisposizione passeggiera la cagione dei miei lamenti.

Ebbene, malgrado quel gran dolore, io non fui capace di sottrarmi al mio destino! Lo so benissimo, lo vedo io stesso, tutti se ne accorgono, divento ogni giorno più commediante. Nessuno però più di me è stato istruito sulla fallacia e la stupidità delle tirate da palcoscenico.

Il tranquillo Cummins, il timido, l’amabile Cummins non è più. Impossibile sarebbe il riprenderlo. Io sono spazzato via come la foglia secca è spazzata dal vento di marzo.

Anche il mio sarto ha l’intuizione della mia metamorfosi. Gli ho ordinato un abito color grigio scuro, ed egli invece me lo ha fatto celeste chiaro, e mi ha cucito ai pantaloni un lustro di seta nera per farne risaltare le costure esterne.

Il mio parrucchiere, poi, mi pettina ora come mai non si sarebbe sognato quando io era Cummins. Dice che vuol farmi una «testa tipo!!»

Incomincio ad avere relazioni con attori. Non li posso soffrire, li odio; ma è solamente con essi che io non mi sento osservato. Il loro modo di parlare mi attrae, e osservo in me un’attitudine crescente per la brevità drammatica, per l’impeto nei discorsi alternato con brevi pause ai saluti profondi ed esagerati, agli atteggiamenti coi quali si sottolineano le parole.

Anche Barnabè ha osservato il mio cambiamento. L’altro giorno ho offeso Wembly chiamandolo: vecchio mio! (è una frase da teatro quel: vecchio mio! ) Chissà come l’andrà a finire; e non posso rimediarvi!

Avevo udito parlare di gente avvelenata dall’aria del palcoscenico, e avevo sempre creduto che fosse un semplice modo di dire. Ne parlavo ridendo, e non ci facevo gran caso. Non c’è da scherzare, è proprio una malattia, ed io l’ho presa, violentemente presa, questa malattia.

Avvelenamento di palcoscenico! Sono suggestionato dal dramma, dalla commedia, ed i miei modi diventano talmente esuberanti, la mia collera talmente convenzionale, che io mi domando se sono veramente io, proprio io, che agisco in tal maniera! E chiedo a me stesso se non sarebbe meglio abbandonare completamente questa lotta ineguale fra i miei due esseri, i miei due io ! Abbandonare il mondo lugubre e questa volgare vita per la quale io non sono fatto: cambiare il nome di Cummins con qualche pseudonimo da teatro, e dare il colpo di grazia al mio i o , coprendomi di orpelli e calcando a mia volta il palcoscenico! La mia sola salvezza sta forse in ciò. Perchè, in fin de’ conti, nella vita di ogni giorno, nella vita, diremo così, ordinaria, nessuno mi considera come sano di mente! Mi tocca proprio di confessarvelo! Mentre sul palcoscenico, ne sono convinto, la gente mi piglierebbe sul serio. Questa sarà la mia fine, sento che sarà la mia fine! Eppure ho un profondo orrore per tutto ciò che fa risaltare l’attore dall’uomo naturale! Sono sempre del parere della zia Carlotta, che cioè la commedia è indegna d’un uomo saggio, ed a maggior ragione, indegna della sua collaborazione! Anche ora rassegnerei volentieri le mie dimissioni da critico drammatico; ma non posso persuadere Barnabè! Le mie lettere di dimissioni non le legge; egli mi dice sempre che è cosa contraria alle regole del giornalismo, lo scrivere al direttore; e quando mi reco da lui per parlargli della mia decisione, egli mi fa fumare un grosso sigaro, mi fa bere del wisky, ed allora succede in me qualcosa di strano, qualcosa di tanto strano che le mie dimissioni se ne vanno in fumo!

Fine.


nota 1 – Umorista e poeta inglese.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Triste storia di un critico drammatico
AUTORE: Wells, Herbert George

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle straordinarie / H. G. Wells ; [illustrazioni di Celso Ondano]. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 211 p., [10] c. di tav. : ill. ; 27 cm.

SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC028040 FICTION / Fantascienza / Brevi Racconti