Riceviamo e volentieri pubblichiamo tre segnalazioni librarie relative a opere di Enrico Francot.

I quaderni di Lothar

Un uomo sfida il mostro del conformismo che lo ha terrorizzato per decenni.

I quaderni di LotharIl mostro terrificante nello specchio – e in copertina – Lothar lo sta sognando oppure è una vera e orrida immagine riflessa di sé? Per scoprirlo ci si dovrà addentrare nelle pagine di questo fantasmagorico romanzo di formazione.

Vi si seguirà il protagonista porsi alcune domande inquietanti. Tanto per cominciare se sia possibile per un maschio adulto, vivere senza sapere chi sia stato, da bambino, da due a nove anni e non rammentare le personalità di quanti di lui si sono occupati in quel lasso di tempo?

Per decenni Lothar non sa dove sia finita sua madre mentre lui cresceva da orfano? Lei dov’è stata, dov’era? Perché l’ha abbandonato? Dov’era suo padre? Perché da tre a sei anni gli adulti intorno, impietositi dalla sua palese infelicità lo chiamavano la creatura. Perché la creatura trascorre ore buttato con la testa sulla pancia di un barboncino nero a succhiarsi il polso? O si abbandona a furiosi capricci? Come può Lothar rammentare un paesaggio di neve a poco meno di due anni e poi non ricordare nulla fino a quando ne ha nove, quando riappare sua madre un attimo dopo che lui è tornato da un lager che gli ha spezzato l’anima e strappato il cuore, un collegio svizzero, un Kinderheim? Perché ci è stato rinchiuso per nove mesi?

L’orrida figura che gli compare nello specchio davanti al quale è intento a riflettere lo segue poi nelle stanze dell’appartamento di sua nonna morta da poche settimane dove Lothar si è rifugiato in fuga da inseguitori un po’ reali e un po’ frutto della sua immaginazione.

Ha quel mostro a che fare con suoi lati bui, con delitti di cui si sia incolpevolmente macchiato? Certo, Lothar tra quei capricci di trent’anni addietro e l’oggi è vissuto da inconsapevole maschio alla deriva di emozioni e azioni inconsulte. Ma di grandi infamie non si sente colpevole. E allora chi altri rappresenta quel mostro? Insomma, è un mostro dentro o fuori di sé?

In una narrazione incalzante, una misteriosa amica, Meme, spaventevole quanto uno spettro ma affascinante quanto una bellissima donna, e quattro quaderni dalla copertina nera lo guidano nell’esplorazione degli anni dimenticati e dell’identità del mostro che lo tormenta. Interlocutore incalzante nei suoi ragionamenti è lo specchio in cui il mostro gli è inizialmente apparso.

Lentamente emerge che il mostro ha a che fare con il suo essere vissuto a occhi chiusi senza vedere le menzogne che gli venivano rovesciate addosso, dai tempi dei banchi dell’asilo e delle scuole superiori fino alle lezioni universitarie e ai dotti articoli di giornalisti e alle chiacchiere dei politici di ieri e di oggi – senza trascurare i divani degli psicanalisti.

Rimesso un po’ d’ordine nella cronistoria della sua esistenza, dovrà domandarsi allora – e il lettore con lui – se ciò basti a fare di una creatura un individuo.

Lo si scoprirà alla fine del libro.

Da “I quaderni di Lothar”

Il mostro gli riapparve, di colpo, inatteso e gli spinse il cuore in gola. Roba da morirci, da arresto cardiaco! Di nuovo era nello specchio a rinviargli l’immagine che raggelava ogni volta il sangue di Lothar.

Era la visione di orridi volti e profili deformi messi insieme, assemblati in un’unica faccia mostruosa, come la prima volta che l’aveva vista. Sulla testa sparuti ricci negroidi si alternavano a chiazze infestate da alopecia che brulicavano di minuscoli insetti. La fronte aveva una incisione nel mezzo, una spaccatura simile a un glande. Sulla guancia destra si spalancava una bocca abnorme, verticale, da cui spuntavano due o tre canini aguzzi. Sotto il naso adunco irto di escrescenze carnose si apriva un’altra bocca semichiusa che rivelava la mancanza di denti. Dalla nuca spuntava un orecchio contorto, da fauno. La guancia sinistra era coperta da una barba di un ripugnante color viola. Il collo era diviso in due come quello di un mostro a due teste, pur essendo l’orrida testa una sola. L’abito era lacero, un piede calzava una scarpa verde e l’altro, nudo, era simile alla zampa di un coccodrillo.

Più irreali di tutto il resto erano ancora gli occhi: un bulbo oculare aggettava su uno dei due colli, altri due facevano da farfalla alla cravatta sull’altro collo. Com’era concepibile, dunque, che quell’aborto avesse gli occhi collocati in posizioni che in realtà rendevano impossibile vedersi? Con gli occhi buttati là dov’erano come faceva a guardarsi insomma!

Come ogni volta che gli appariva si toccò gli occhi con le dita di entrambe le mani: c’erano. Erano nella posizione giusta. Perché dunque l’immagine riflessa li aveva in posizioni così assurde? Perché quel mostro era tornato a visitarlo, tormentarlo ancora una volta?

E perché proprio quel giorno, il mattino di una giornata di primo autunno del 2022? Lothar era appena rientrato da una passeggiata nel bosco infiammato dai colori rossi della stagione che gli era tra le più care tra i monti dove viveva. Si era accomodato sulla sua poltrona verde prediletta, vecchia di decenni, di velluto raso, collocata proprio di fronte allo specchio. Voleva regalarsi il riflesso di un sorriso del proprio viso sereno e invece eccola là: la bestia!

Aveva ormai ottant’anni, era vecchio. L’orrida creatura gli era comparsa molte volte nell’arco della vita. Aveva navigato per tempi burrascosi, tempi di grandi conflitti interiori e con gli altri.

Ma perché gli appariva ora che tornava dal bosco dove aveva passeggiato sereno per due ore, ripensando, come sempre accade ai vecchi, alla sua vita ormai alla fine? Ora che era un uomo sereno con tutti i drammi alle spalle?

Come ai tempi indietro, durante il corso di decenni, si disse, a tranquillizzarsi, che quell’orribile faccia non poteva essere la sua, altrimenti come accade davanti a tutti gli specchi, il suo sguardo e quello dell’immagine riflessa si sarebbero dovuti incontrare.

Erano molti anni che non lo vedeva, almeno venti. L’aveva quasi dimenticato, incuba figura ricomparsa periodicamente a turbare la sua esistenza. E a ogni apparizione il mostro aveva perso alcuni particolari raccapriccianti. Ora però era tornato a essere lo stesso, proprio lo stesso della prima volta.

Passato il subitaneo attimo di agghiacciante sgomento, ebbe la prontezza di spirito di domandarsi, come la prima volta, trent’anni addietro, dove fosse finita la sua vera immagine riflessa. Se lo chiese persino con un senso di sfida, quasi: era rimasto indenne dai precedenti incontri quindi non era possibile che quella volta il mostro potesse fargli del male.

Fu allora che comparve nello specchio una figura femminile. Si voltò; lei sì che era reale, presente. Reale? Presente?

Poteva essere anche lei frutto della sua immaginazione.

“Non allarmarti Lothar”, disse lei, “oggi come mezzo secolo fa anche tu ti vedresti come sei se la tua immagine non fosse coperta dal mostro che hai davanti”.

Lui era ammutolito. Mezzo secolo fa… già!

“Sì, sono ancora io, Meme, rammenti? Ci incontrammo per la prima volta cinquant’anni fa: stavi per varcare la soglia della casa di nonna Adelia, morta da poco. Sì, allora eri sfinito, sull’orlo di un baratro… e poi altre volte ci siamo incontrati. E senza il mostro”, sorrise.

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Saga di Lui

Due uomini colmi d’odio e di amore, un intellettuale sensibile e un terrorista rosso, entrambi prede di donne fatali, restano leali l’un verso l’altro con passione virile, fino alla morte.

Saga di LuiMassimo è uno schizoide – irreversibilmente mutilato nel sentire – che acquista nel romanzo capacità di provare sentimenti, i motori di ogni importante scelta nella vita di un individuo. Assassino e stupratore per decenni, si cruccia per la propria incapacità di provare dolore per le vittime dei propri atroci delitti. Sa soltanto elencarli a se stesso con algido distacco senza provarne vergogna – e se ne tormenta. Massimo è stato fiancheggiatore delle Brigate Rosse da universitario, si è arruolato in gioventù tra i guerriglieri castristi e ha alle spalle missioni assassine in Amazzonia e in Africa. È allora che si è macchiato del sangue di tanti innocenti.

Il romanzo si inizia con una email da un suo amico conosciuto alle elementari, Lui, e frequentato anche dopo il ritorno dall’estero. Lui gli scrive di essere nei guai ma di non cercarlo perché è nei guai e se lo facesse finirebbe nei guai anche il suo vecchio sodale.

Massimo è ora un avvocato milanese sulla via dei settant’anni. Ha recentemente scoperto un mezzo per attenuare gli effetti dei propri tormenti. Registrare tutto quanto dice e pensa. Si è accorto che gli suscita qualche emozione sbobinare, scrivere e poi leggere ad alta voce quanto detta al piccolo dittafono che ha sempre in tasca. Si augura che sia il primo rozzo passo verso il sentire. Molte frasi riguardano ricordi degli ideali adolescenziali condivisi con Lui prima che Massimo si arruolasse nelle bande maoiste e guevariste. Rievocare quei momenti dà a Massimo attimi di serenità.

Ciò avviene anche con i ricordi condivisi con Lui dopo essere ritornato a Milano, a cinquanta anni, reduce dalle imprese rivoluzionarie. Lui sapeva fare riflettere e dare conforto al suo amico con la propria capacità di provare un’infinita gamma di sentimenti. Massimo gli appariva uomo solo e disperato tra i malesseri per il passato e la noia e l’incapacità di vivere nel presente.

Massimo rivede Lui come un poeta idealista perduto tra amori, sogni finché non è stato arrestato. Lo ricorda come scrittore di romanzi e saggi mai pubblicati. Sa che Lui ha sofferto spesso della propria incapacità di cogliere i crudeli lati nascosti di tante persone in cui si è imbattuto – e di alcune donne che ha amato. Ha sempre pagato a caro prezzo questa sua incapacità.

Ora Lui è finito vittima di un intrigo politico-giudiziario ordito da esponenti di primo piano di poteri forti. Davanti a giudici conniventi, Lui è stato giudicato colpevole in primo grado di un omicidio commissionato a un sicario da un finanziere criminale. Quattro anni in galera, poi rilasciato in attesa del processo d’appello in cui sarà definitivamente condannato a molti anni – Lui ne è certo dato il clima politico del regime del paese. Per questo è scomparso.

Forse è morto, si tormenta Massimo e si rimprovera di non essergli stato accanto in quei momenti difficili e sente, sì sente, il desiderio di aiutarlo ad uscire definitivamente dai guai giudiziari in cui si trova. Decide dunque di cercarlo. E non soltanto per sé ma anche per aiutarlo scoprire il vero mandante dell’omicidio e restituirgli onore e libertà.

I suoi dialoghi con il registratore avvengono anche con pensieri cinici che ha dentro di sé e che lo esortano a mollare, a farsi i fatti suoi, a non essere sentimentale. È il suo dialogo con quella parte di sé che Massimo chiama Bestiadentro. Bestiadentro gli dice che non potrà mai liberarsi dai ricordi dei propri crimini. Neanche ritrovando Lui e scoprendo i retroscena della sua persecuzione giudiziaria. Ma Massimo non molla.

L’intricato percorso alla ricerca – a tratti pericolosissima – che Massimo intraprende lo porta a scoprire chi davvero ha commesso il delitto per il quale Lui è stato incriminato. E conduce l’ex marxista-leninista per lo meno a capire cosa sia sentire¸ provare davvero sentimenti. Più di capire a uno schizoide non è concesso.

Il racconto si snoda in pochi giorni tra Milano, Roma, un villaggio della Liguria, e si sviluppa poi per alcuni anni in una sperduta frazione di montagna. Massimo vi si deve rifugiare a fare il vaccaro, sì, il pastore mungitore di vacche.

Finale a sorpresa, da psicodramma però, non da romanzo giallo. Si scopre, sì, chi davvero ha commesso il delitto ma si rimane a bocca aperta per la fine toccata a Massimo e a Lui.

Da “Saga di Lui”

Non si possono divulgare i segreti di un uomo. Ma se l’uomo è misteriosamente scomparso ed è un uomo degno, allora i suoi segreti si possono, anzi, si devono rendere noti affinché la sua vita possa essere d’arricchimento per altri. L’uomo di cui intendo narrare era il mio compagno di banco alle scuole elementari, settanta anni fa. Tutto quanto ne rammento lo detto via via a un registratore e poi lo trascrivo. L’ho fatto anche per me, per curarmi da una malattia dello spirito, per non finire i miei ultimi giorni nell’abbraccio mortale della schizofrenia.

A questo mi sto dedicando mentre sono seduto nel giardino di Piazza Vesuvio, a Milano, a due passi da dove vivo. Sono sconcertato perché stamani il mio amico di allora si è rifatto vivo con una email che mi ha gettato nello smarrimento più totale. Maledetta email! Quell’antico amico mi ha chiesto qualcosa che non sono capace di fare. Mi ha distolto dalle riflessioni su me stesso, uomo piagato che sono. Mi ha distratto dalle osservazioni sul mio ombelico come amo dire, infastidito io stesso dal mio egocentrismo.

Quella email mi spinge all’azione, io che dalle azioni mi sono tenuto alla larga dopo gli anni della guerriglia nelle foreste d’Africa e del Sud America dove, nel 1972, mi ero arruolato tra gli eredi delle idee di Che Guevara, morto nel 1967.

Rientrato in Italia nel 1982, distrutto nello spirito e malandato nel corpo, da allora mi sono dedicato, pigro e passivo, a scribacchiare memorie per magistrati analfabeti, senza cultura e senza cuore. Sono un avvocato da quattro soldi.

Sono stato per una vita e sono ancora in balìa di un cervello scisso da sentimenti. Un cervello così fa brutti scherzi. È ossessivo. È come un animale selvaggio. Non si lascia domare, né condurre a servire il suo padrone, un io umano. Più lo si vuole forzare a fertili pensieri, più quello si ribella, imprigionato in sterili concetti, fino a farsi dannoso per l’equilibrio psichico interiore, incapace di compiere gli stessi banali gesti della vita quotidiana. Induce a giudizi e pregiudizi incivili, a comportamenti bastardi, dannosi per sé e per gli altri, roba da vergognarsi appena fatta o detta.

A quella parte imbizzarrita e perniciosa della mia personalità ho imposto il nome di Bestiadentro, al maschile, e ci litigo furibondo da anni. Bestiadentro è una diabolica creatura. Ha tante facce. A volte mi tortura con le visioni dei delitti commessi, crude, orride; altre volte si manifesta con un’eruzione di sensi di colpa; in altre ancora, frequentissime, mi fa comportare come il barbaro che ero, senza rispetto per gli altri, donne soprattutto, e senza pietà per nessuno.

Durante una rissa di poche settimane fa, nel tentativo di evitare un suo ennesimo assalto, mi sono barricato dietro alcuni ricordi di episodi vissuti col mio amico dei miei primi anni di vita e mi sono accorto che Bestiadentro ha fatto un passo indietro. Era un fatto insolito. Non manca mai di rammentarmi, ghignoso, che per me non c’è riscatto: sono stato e resto un assassino. E uno stupratore. Ma in quel momento l’avevo spiazzato: anche io ero stato umano! Ho fissato nella scrittura quei ricordi, in un quaderno. Quando li ho riletti, ho avvertito un senso di liberazione. Ho provato con la rievocazione di un altro episodio e ho ottenuto lo stesso effetto positivo. Rileggere mi suscitava un groviglio di emozioni che, proprio perché fissate su un foglio, ripetute dalla voce, potevano come stabilizzarsi, non volare via come una spirale di nebbia nel vento. Le emozioni potevano essere filtrate, poi elaborate, farsi infine sorgente di riflessioni sul significato di quei remoti eventi, sì, proprio io che mai mi si sono preso la briga di riflettere.

Già, riflettere: cogliere i riflessi sulla mia vita, allora e oggi, di ciò che ho fatto e di ciò che mi è accaduto intorno, di là da frettolosi giudizi, da ubriaco parolaio. “Non è questa la funzione dei sentimenti?”, mi sono domandato, io che non ne so provare.

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Sangue in salotti di razza padrona

Per i capi veri delle mafie non occorre un ordine, basta un cenno del capo o un battito di ciglia

Sangue in Salotti di Razza PadronaSangue in Salotti di Razza Padrona è un romanzo di formazione. Non è un giallo. Se lo fosse, sarebbe un giallo a rovescio: il colpevole la fa franca. Questo scopre l’investigatore, Eugenio Bazzon, tale suo malgrado, ché sua intenzione era soltanto trascorrere un weekend di distrazione in Toscana.

Nella primavera del 2013, Bazzon, ultrasettantenne cinico colonnello dell’Interpol in pensione, è trascinato da un’amica di gioventù a trascorrere due giorni e tre notti in un palazzo – Villa Bevilacqua – tra latifondi a vigne e ulivi alle porte di Firenze. La magione è di proprietà di un antico discontinuo amore proprio di Bazzon, l’affascinante ambigua contessa Manuela Del Poggio. Vicino di tenuta di Manuela è un Principe.

È lì, oltre che per rilassarsi e interrompere la propria adorata solitudine quotidiana a Milano, anche per raccogliere materiale, da cronista, e scrivere un breve pamphlet ironico sull’emotività degli Italiani dell’alta borghesia commissionatogli da un editore inglese. Intende poi assecondare un vecchio pediatra suo amico ai bordi della paranoia che gli ha chiesto di fare luce sulla scomparsa della propria giovane nipote, convinto com’è che più ci si avventuri tra esponenti dell’intelligencija più facile sia trovare indizi per crimini commessi da malavitosi accolti e coccolati in salotti bene.

Invitati con lui sono un magistrato, un giornalista, uno scrittore di best seller, un’autrice di soap opera, alcuni suoi attori, un nano astrofisico, un fiscalista-commercialista, una notaio, una molto spregiudicata e molto bella giovane donna, tre uomini e donne d’affari, un potente politico. Comparse sono camerieri e cameriere, paggi in polpe, uomini di fatica, contadini e, nel corso delle vicende, quattro assassinati.

Su tutti volteggia il Principe, il più criptico tra i personaggi della vicenda, arrogante, presuntuoso, sessualmente sfrenato. È discendente di un’antica casata che ha avuto papi tra gli antenati. Anche lui è produttore di rinomati vini e oli di alta qualità. I suoi delitti sono sempre stati e sempre rimarranno impuniti perché tra i cortigiani del suo dominio ci sono politici, magistrati e intellettuali di spicco, tutti ex amanti passati o in carica delle signore del giro e tutti in qualche modo consanguinei.

A Villa Bevilacqua Bazzon scopre anche che irreprensibili dame e gentiluomini, protetti dallo scudo del politicamente corretto, sono attivi o complici di riciclaggi di denaro sporco, di commerci internazionali di opere d’arte, di tratta delle bianche e di un lucroso traffico di stupefacenti e d’armi in paesi con guerre civili. Già persuaso di suo che l’accumulo di ricchezza da attività criminali muova la Storia da sempre, nel bene e nel male, a Villa Bevilacqua individua, con l’aiuto dello stesso Principe, i sottili e saldi nessi del malaffare internazionale e la loro capacità di condizionare la politica italiana. E non solo italiana.

Scopre poi che taluni ospiti della villa hanno manipolato in passato e continuano a manipolare impunemente come burattini uomini e donne del passato e del presente di Manuela e del Principe, fino ad avere assunto e continuare ad assumere su di loro un diritto di vita e di morte. In forza di tale diritto, quattro persone sono assassinate. Le indagini sulle loro morti si arenano subito come incidenti mentre al vecchio poliziotto appaiono omicidi eccome, omicidi a coprire ramificate operazioni di malavita. Il meccanismo è spiegato dal Principe in persona: dietro i peggiori crimini internazionali non ci sono capillari organizzazioni segrete o “cupole” mafiose. I vertici del potere politico ed economico di ogni Paese si limitano a dividersi i bottini dei traffici illeciti. La manovalanza è costituita da membri di salotti chic mossi da cupidigia di soldi, potere e sesso.

Quanto ai crimini del salotto di Villa Bevilacqua, Bazzon intuisce che l’impunità degli assassini deriva dall’essere, i burattinai, tutti consanguinei tra loro per disinvoltura sessuale dei padri e madri in gioventù e dall’essere protetti da politici e banchieri e magistrati amanti ex o in carica delle signore del giro.

In un’aura da racconto gotico, la trama si snoda non in una caccia a indizi per inchiodare un colpevole, ma nel tracciare, pagina dopo pagina, un albero genealogico a delineare il profilo di un inconsueto pluriassassino, un assassino, per così dire, diffuso, come lo sono taluni alberghi in panoramiche zone riservate al turismo più scic.

Cinica complice ne è la patologica assenza in tutti i presenti della capacità di sentire.

Bazzon si rende conto a proprie spese che la consanguineità non è perseguibile penalmente, neanche se ha commissionato omicidi: la responsabilità è evanescente, non processabile. Resta impunita.

E Bazzon che ha osato addentrarsi nel lato oscuro dei legami di sangue tra i protagonisti, che fine farà?

Da “Sangue in salotti di razza padrona”

“Oh, che tormento”, declamò teatrale Filippa, alzando le mani dal volante verso il tetto dell’auto dopo l’ennesima frenata a un centimetro dal paraurti dell’auto che ci precedeva.

“Dai, coraggio, siamo quasi arrivati”, la confortai io, uomo paziente da quando mi si sono diradati i rossi capelli sulla nuca. La chierica non ha tolto attrattiva al mio viso asciutto di maschio sano, slanciato per un metro e novantadue, con poco adipe sui fianchi nonostante i settant’anni e passa.

Come una donna stufa di stare immobile accanto al guidatore in un lungo viaggio, tirai giù l’aletta parasole e mi guardai allo specchio. Gli occhi marrone da cane erano semichiusi dalle palpebre: lo sono da quando avevo trent’anni e danno al mio sguardo un’aria addormentata, di distacco dal mondo. Eppure sono occhi che mi si dice suscitino ancor oggi inquietudine. I più benevoli amici ne attribuiscono l’origine a profondità di spirito, spirito che io sento invece, ahimè, evaporato al calore ostile del tempo.

“Smettila di fare la scimmia allo specchio, vanitoso”, mi irrise Fili.

“Vanitoso? Mavalà! Mi sto guardando le rughe intorno al collo. Sono proprio vecchio”, replicai ridendo.

Non sono vanesio, ma provavo un po’ di imbarazzo ad andare dove stavamo andando.

Eravamo diretti a una delle lussuose ville affacciate su Firenze, Villa Bevilacqua, di proprietà di Manuela del Poggio, signora a me ben nota da quando era una giovane e molto avvenente ventenne, non appariscente ma sensualissima. Manuela era un’amica di Fili, più o meno sua coetanea, prossima a doppiare la boa dei cinquant’anni. A essere meno discreti, dovrei dire che per Manuela la boa era già a poppa della sua vita e del suo passato, solcato, a mia memoria, da spumeggianti scie di acrobatici surfisti. La conoscevo ragazzaccia insomma, dietro una maschera di signora molto per bene. Tanto per bene che dovrei riferirmi a lei come contessa Manuela: così i più le si rivolgevano, fingendo di ignorare che i quarti di nobiltà da lei vantati non le venivano per nascita ma soltanto da un matrimonio da cui era uscita quasi subito senza clamori.

Non ero a mio agio: a Villa Bevilacqua ci sarebbe stata gente tutta un po’ su, danarosa, gente nota, non grigia come me. Erano tipastri e dame adorni di dorati pappagalleschi fregi politicamente corretti su cappe di ostentata libertà sessuale a esaltare le proprie gabole di mondana promiscuità d’alcova e a celare le rapine perpetrate da genitori che li avevano resi straricchi e in vista. Li sapevo infami, ossia non degni di fama – del rispetto che soltanto la musa della Storia Clio conferisce quando iscrive nomi nel volume sulle proprie ginocchia.

Tra mille dubbi e cambiamenti di programma, mi ero risolto infine a spingermi tra le colline fiorentine per scrivere un libro a smentire i tanti luoghi comuni sugli Italiani: isterici e rumorosi con spaghetti in gola e mandolini tra le dita. Il committente era un editore anglosassone di cui non ero autorizzato a fare il nome. Per la mia situazione attuale, non lo farò neanche ora.

A dirla poi tutta, al compito letterario ne avevo aggiunto un altro. Un mio amico, tale Antonio Ruffo, pediatra, mi aveva affidato una ricerca. Voleva che indagassi su una sua nipote diciassettenne scomparsa alcune settimane prima. La polizia aveva smesso di cercarla.

Secondo i contorti circuiti mentali di Ruffo, nella grande villa avrei potuto raccogliere indizi per riportargli a casa la nipotina. Era un uomo strano. A volte mi dava l’impressione di essere un po’ ai bordi del paranoico quando asseriva si finisse contigui alla malavita anche solo a salir su nella scala sociale. Discendente di un’antica famiglia di medici, Ruffo aveva scelto, per seguire una propria naturale inclinazione, di non impegnarsi a diventare un luminare della scienza di Ippocrate. Sfidando il padre, che lo era stato, aveva preferito vivere gaudente e sereno e limitarsi a essere un buon pediatra. Oramai era in pensione. Me l’aveva presentato Fili, che l’aveva avuto pediatra da bambina; con lui avevo trascorso ore di chiacchiere. Era un vecchio molto felice di come aveva vissuto e fiero di essere stato un dottore vecchio stile. Si vantava di non aver dovuto prescrivere mille esami per scoprire cosa avessero i suoi piccoli, seguiti fin dalla nascita. Per perizia e, forse, anche per una buona dose di fortuna, non aveva mai sbagliato una diagnosi. Tutti i suoi bambini erano cresciuti in salute e si erano fatti, amava rammentare, uomini grandi e grossi e donne sane e belle.

La scomparsa della nipote aveva ingigantito una sua fissazione: era convinto che il mondo fosse governato dalla malavita. Lo ripeteva con gli occhi un po’ stralunati. Diceva che un suo amico dei servizi segreti gli aveva fatto leggere un corposissimo documento in cui, dati sulla carta, si dimostrava che il grosso del prodotto interno lordo del mondo proveniva dalla malavita, altro che acciaio, petrolio, carbone, automobili o computer!

Persino lo Ior, la banca del Vaticano, incalzava Ruffo, l’Istituto per le opere di religione, era dovuto ricorrere a speculazioni immonde per accumulare abbastanza denari da aiutare i cattolici nel mondo; era un fatto risaputo, a suo dire, che una parte di quei soldi era stata ricavata da traffico d’armi e di stupefacenti per poi finire, negli anni Ottanta, ai movimenti antisovietici nei paesi satelliti dell’Urss, Polonia in primis.

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L’autore, Enrico Francot

Scrittore e psicanalista, l’autore, ottantun anni, ha lavorato ed esplorato ed è vissuto in molti paesi di Asia, Africa, Nord e Sud America, nonché in Europa prima e dopo i tempi della Cortina di Ferro.

Enrico FrancotEnrico Francot è uno scrittore giudicato misantropo e rabbioso dai pochi che lo frequentano e ne hanno letto i libri, ritenuti complicati e ostici. Il suo stile e il lessico ne tradiscono gli ottant’anni ben portati, la consuetudine a passare disinvoltamente da una lingua europea all’altra, con evidenti influenze anglosassoni ma senza superflui anglicismi.

Nato in Italia ha incominciato presto le sue permanenze all’estero per studio e lavoro: da adolescente in Gran Bretagna e Austria. A 18 si è diplomato dopo un anno da senior in una High School a New York. Poi ha conseguito la maturità classica a Roma. Già orfano di madre, la morte del padre a venti anni lo induce a cercare lavoro per pagarsi e concludere gli studi universitari. È soprattutto l’ottima conoscenza dell’Inglese – ma anche del Tedesco appreso nell’infanzia dalla madre ebrea – a consentirgli di muoversi alla dipendenza di grandi gruppi industriali di ingegneria tra Medio Oriente, paesi dell’Est Europa, paesi africani emergenti e Sudamerica.

Rientrato a Roma, dopo brevi parentesi in Francia e Gran Bretagna, approda nel 1970 alla redazione esteri dell’Ansa e da qui, come giornalista professionista, ne diventa corrispondente presso le sedi di Bonn e Bruxelles.

Seguono anni via via come redattore, caporedattore, condirettore e direttore responsabile di varie testate del gruppo Corriere della Sera (Il Mondo e Capital), a Il Globo, a Successo e Gente Money, fino al 1988. Poi opera la scelta di continuare a scrivere come giornalista indipendente, ma frequentando per quattro anni il Carl Gustav Jung Institut di Zurigo e diplomandosi in Psicologia Analitica.

Milano è diventata ormai la sua città. Vi ha esercitato per anni l’attività di analista postjunghiano in studio privato prima a Zurigo per un breve periodo e poi per oltre venti anni a Milano, sempre distante culturalmente dalle varie scuole e dagli ordini professionali.
Negli ultimi trent’anni si è intensificata l’attività di scrittore avendo come orientamento una visione eterodossa, quando non capovolta, del comune sentire, incurante del fatto che tutti gli editori, tranne uno ne hanno rifiutato manoscritti. Alcuni suoi libri sono stati firmati con uno pseudonimo.

Instancabile curioso di genti e culture, a contatto per professione con il potere, ne è sempre rimasto distante, mantenendo nel tempo un’indipendenza di opinione e giudizio che non ha fatto di lui quello che viene definito un uomo di successo. Ha così alimentato l’opinione di chi lo descrive di difficile carattere e nettamente uomo solitario, spesso in polemica con il mondo femminile militante estremista e non meno tenero con quello maschile. In quest’ultimo dichiara di aver trovato un solo uomo in sintonia con il suo spirito, conosciuto a Baghdad nel 1967 e ancora affettuosamente vicino.