Terra d’esilio
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 16 minuti
I.
Sbalzato per strane vicende di lavoro proprio in fondo all’Italia, mi sentivo assai solo e consideravo quello sporco paesello un po’ come un castigo, – quale attende, una volta almeno nella vita, ciascuno di noi, – un po’ come un buon ritiro dove raccogliermi e fare bizzarre esperienze. E castigo fu, per tutti i mesi che ci stetti; mentre di osservazioni esotiche andai non poco deluso. Io sono un piemontese e guardavo con occhi tanto scontrosi le cose di laggiú, che il loro probabile significato mi sfuggiva. Mentre, gli asinelli, le brocche alla finestra, le salse screziate, gli urli delle vecchiacce e i pezzenti, tutto ricordo ora, in modo cosí violento e misterioso, che davvero rimpiango di non avervi messo un’attenzione piú cordiale. E se ripenso all’intensità con cui allora rimpiangevo i cieli e le strade del Piemonte, – dove ora vivo tanto inquieto, – non posso concludere altro che cosí siamo fatti: solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale.
Laggiú c’era il mare. Un mare remoto e slavato, che ancor oggi vaneggia dietro ogni mia malinconia. Là finiva ogni terra su spiagge brulle e basse, in un’immensità vaga. C’eran giorni che, seduto sulle ghiaie, fissavo certi nuvoloni accumulati all’orizzonte marino, con un senso di apprensione. Avrei voluto tutto vuoto oltre quella balza disumana.
La spiaggia era desolata, ma non repellente. Volentieri – tanta era la noia nel paese – vi camminavo, al mattino o verso sera, seguendo la zona dei ciottoli per non faticare nella sabbia; e mi sforzavo di godere i cespuglietti di geranio fiorito o le foglie potenti d’agave. Ogni volta mi indisponeva il tallo sabbioso di qualche ficodindia divelto o sconquassato, dove la polpa verde di certe foglie era disseccata e rivelava il reticolo delle fibre.
Ricordo un mattino di luglio, tanto intenso che il mare non si staccava sul cielo. A pochi passi sopra il greto, s’attruppavano le barche scolorite e consunte; e qualcuna reclinata, pareva riposare dalla pesca notturna. Le onde alla riva frusciavano appena, come schiacciate dall’immane distesa d’acqua.
Seduto all’ombra contro una barca vidi il confinato operaio. Guardava verso la collina, alla vetta biancorocciosa di muraglioni, dov’era la frazione antica del paese. Pareva incantato da quella lucidità di cielo, che alleggeriva e velava ogni cosa. Al mio passaggio non si volse. Aveva il berretto a visiera tirato sugli occhi, e l’abito marrone sdrucito ai gomiti e informe alle ginocchia.
Quando fui oltre, mi sentii chiamare. Dalla tasca mi sporgeva ben riconoscibile un giornale di Torino.
Mentre il giovanotto leggeva, io respiravo rannicchiato all’ombra della barca. C’era un odore di legno assolato e di sabbia bruciante. – Non fa il bagno? – gli chiesi, dopo un po’.
— Questi giornali dicono tutti le stesse cose, – rispose l’altro, e si frugò in tasca. – Non ha da fumare?
Gli diedi da fumare. Cominciai a spogliarmi nel sole.
— Non sono un politico, – riprese. – Io sui giornali non cerco la politica. Mi fa piacere leggere quello che succede a casa. Invece parlano solo di politica.
— Credevo fosse…
— Io sono un comune, – tagliò quello, svelto. – Ho preso a pugni un milite, ma sono un comune –. Si tirò il berretto sugli occhi. – Gliele ho date per motivi personali.
M’infilai le mutandine e sedetti nel sole. Guardavo verso il mare tremolante e immobile. Pregustavo la schiuma delle bracciate, la freschezza del fondo, le screziature del sole sott’acqua. Mi faceva senso quel corpo vestito, che travedevo sotto la barca. Lunghe maniche, calzoni pesanti, berretto calcato: come non soffocava?
— Fa il bagno? – chiesi di nuovo.
— Preferisco l’acqua di fiume, – rispose assorto.
— Qui non ce n’è, – dissi.
Tornai a riva grondante e mi buttai sulla sabbia. Tenevo gli occhi chiusi.
Quando li riaprii e mi sedetti, diedi uno sguardo smarrito alla costa. Sul pallore disperato delle piante grasse e delle vicine case rosa picchiava sempre quel sole. Il mio vestito faceva una macchia scura presso la barca.
— È anche lei confinato? – gridò di là il giovanotto.
— Qui lo siamo un po’ tutti, – dissi forte. – L’unico sollievo è andare in acqua.
— E d’inverno, che sollievo c’è?
— D’inverno si pensa ai nostri paesi.
— Io ci penso anche d’estate.
Mi venne vicino e si sedette sulla sabbia. S’era tolta la giacca e portava una camicia scura, senza maniche.
— A che paesi crede pensi la gente di qui? – chiese.
— Pensano all’alta Italia piú di noi.
— Sí, ma il loro paese è questo. A loro non manca niente.
Attraverso la via ferrata, tra la spiaggia e le prime case scrostate della frazione marina, passava un gruppo di donne. Andavano al loro angolo tra gli scogli, su per la costa, a prendere il bagno. Erano vecchie, vestite di marrone e basse, e tra loro una ragazza in bianco.
Dissi qualcosa. – Certo nel Po si nuota meglio. C’è meno sole e piú comodità.
— Dove abitava lei a Torino?
Glielo dissi.
— Ma che cosa fa in questo paese?
— Lavoro alla strada provinciale. Sono l’ingegnere.
Il confinato si fregò il naso col dorso della mano. – Io ero meccanico, – disse, guardandomi. – Riceve posta lei da Torino?
— Ogni tanto.
— Io ne ho ricevuto l’altro giorno, – e si cavò di tasca una cartolina con la veduta della stazione. – Conosce questo posto?
Guardai un po’, sorridendo, l’illustrazione e gliela restituii, imbarazzato.
— Ci sono i saluti di una ragazza. Se mi manda i saluti vuol dire che mi fa le corna. Io le conosco.
La vanteria mi dispiacque. Accesi una sigaretta senza rispondere: aspettavo il resto. Ma l’altro tacque. Dopo un po’ mi rese il giornale, con un brusco saluto, e se ne andò, incespicando nella sabbia.
II.
Certe sere, di ritorno dal lavoro, attraversavo il paese marino e mi riusciva ogni volta incomprensibile che, per qualche suo figlio sparso nel mondo, quella terra fosse l’unica, il suggello e il rifugio della vita. Non pensavo alla scarsità dei campi e delle acque, alla falsa bizzarria delle piante grasse e contorte, alla nudità della costa. Queste cose sono solo natura e io stesso le combattevo asfaltando una strada.
Ostico e vuoto era proprio il vivere della gente: parole e fogge di una sciatta realtà, che snaturavano resti di un remoto impenetrabile. Con un’indolente vivacità gli uomini uscivano a tutte le ore dalle casupole per recarsi dal barbiere. Pareva non prendessero sul serio la giornata. Passavano il tempo in strada o seduti sulle porte a chiacchierare, e parlavano quel dialetto che, lontano, sulle montagne dell’interno serviva ai mandriani e ai carbonai. Forse di notte lavoravano, o nascosti, nelle case gelose e soffocanti, ma alla luce del sole, dal mattino alla sera, parevano soltanto ospiti annoiati, in libertà. E nessuno voleva vedere in strada la sua donna. Uscivano le vecchie, uscivano le bambine, ma le spose, le fiorenti, non uscivano.
Per questo, certo, il paese era inamabile. Quegli uomini parevano starci provvisori. Non s’incarnavano con le sue campagne e le sue strade. Non le possedevano. Vi erano come sradicati, e la loro perenne vivacità tradiva un’inquietudine animale.
Pure, sull’imbrunire, s’addolciva sotto il cielo anche il paese. Veniva dalla marina un poco d’aria e per le strade rotolavano i bambini seminudi, e le vecchie strillavano. Dalle porte esalava tanfo di fritto e io solevo sedermi a un’osteria, di fronte alla stazione deserta. Guardavo passare il gregge di capre, che dava il latte al paese, e m’insonnolivo nella penombra, assaporando la solitudine. Mi tuffavo in un’amara commozione al pensiero che alle mie spalle, oltre le montagne, continuava a vivere il grande mondo e che un giorno l’avrei riattraversato. C’era laggiú chi mi aspettava e questa sicurezza mi dava un tacito distacco da ogni cosa e ad ogni tedio un’indulgenza trasognata. Accendevo una sigaretta.
Subito sbucava Ciccio. – Cavaliere, mi date qualcosa?
E, fregandosi le mani in attesa: – Sono fumatore anch’io.
— Grazie: servitore.
Ciccio era piccolo, tutto abbronzato, con la barbetta grigia e gli occhi furbi. Si drappeggiava in un mantello scolorito e aveva i piedi avvolti in pezze assicurate da cinghiette. Quando aveva speso le elemosine in vino, si teneva nascosto per non dare brutto spettacolo di sé. Veniva da un paese dell’interno, e la sua leggenda era nota. A me ne avevano parlato – come di ogni loro cosa – con orgoglio.
Ciccio era scemo e ogni tanto lo prendeva un parossismo, per cui inveiva all’aria per la strada contro certi suoi fantasmi. L’aveva ridotto cosí la moglie, scomparendo con un tale. E Ciccio piantò tutto, lavoro casa e dignità, e frugò per un anno quelle coste, senza sapere chi cercasse. Poi lo misero all’ospedale, ma lui non volle e ritornò nei suoi paesi e diventò il vero Ciccio, il mendicante simbolico, che preferiva un mozzicone o un bicchierotto a un grosso piatto di minestra.
Quando all’osteria si giocava alle carte, lo scacciavano come seccatore. Ma quando si annoiavano o passava un forestiero, Ciccio valeva oro. Era un esempio convincente della passionalità locale.
Nei primi tempi del suo accattonaggio, era stato carcerato varie volte su per quella costa e glien’era rimasto un tale orrore per il chiuso, che anche d’inverno dormiva sotto i ponti. – Altrimenti che soffrire sarebbe? – mi spiegò tutto d’un colpo con la voce arrangolata. Pensai sovente a questa frase. Gli erano forse sopravvissuti dei rimorsi, che ora dessero un motivo alla sua vita? Ciccio non era, benché tocco, sempre stupido. Un tracollo come il suo, una sofferenza da inebetirlo, poteva bene avergli portato in luce una sua colpa vera o presunta e troncato il diritto ai lamenti. Ma a questo modo – privo pure del conforto di gridare all’ingiustizia – Ciccio sarebbe stato davvero troppo infelice. A quel tempo preferivo credere che avesse parlato senza senso, come del resto elemosinando faceva anche troppo.
A certe villane indiscrezioni sulle sue disgrazie, Ciccio rispondeva con un garbuglio di ragioni che deviavano il discorso. Quando arrivò di città la biondina, fatta venire di nascosto e accomunata per due giorni nella macelleria, a Ciccio il macellaio stesso spiegò: – Vedi, Ciccio, dovevi ammazzarla tua moglie. Adesso fa anche lei la puttana, come questa Ma Ciccio con aria furba: – Se la donna fa peccato, il piacere è suo e il peccato è dell’uomo. In quanto che sappiamo ancora divertirci…<>
III.
Di notte mi facevo venir sonno, sedendo sulla spiaggia e ascoltando lo sciacquio del mare nel buio. A volte stavo in albergo studiando la mappa dei lavori o rileggendo i miei giornali, e fumando fantasticavo sul trasferimento che non poteva tardare.
Una sera irrequieto tornavo dalla spiaggia in paese, quando una voce mi chiamò. Mi volto e travedo l’operaio torinese seduto su un muricciolo. Mi stupí: sapevo che il suo regolamento gli vietava di uscire a quell’ora.
— Come va, Otino?
Mi diede una sigaretta e ci mettemmo a passeggiare sulla strada fiancheggiata da uliveti. C’era l’aspro profumo delle campagne di settembre sotto il cielo fresco. Il confinato non parlava. Camminammo un cinquanta metri, poi ritornammo, passando e ripassando davanti alle bicocche in cui lui abitava.
— È un sistema ben trovato per stare in casa e prendere l’aria, tutto insieme, – dissi finalmente.
L’altro taceva; per quanto vedevo, con le labbra serrate. E fissava la terra, dove camminava.
— Ha ancora molto da scontare?
Neanche questa volta mi badò, ma con una specie di sforzo, quasi avesse la gola tagliata, disse senza guardarmi:
— Rompo la testa a qualcuno.
Mi arrestai, lo afferrai per un braccio: – Cosa diavolo succede?
Quello si svincolò e si fermò. – Non dico a lei, – borbottò scontrosamente. – Le donne sono carogne. Io sto qui a fare il frate e quella si fa sbattere.
— Quella della cartolina? Se le scrive.
Il meccanico mi fissò con odio. – Era mia moglie.
Lo guardai atterrito.
— Quand’ero dentro, veniva tutti i giorni a vedermi e piangeva e voleva venire con me. Ma come faceva a vivere qui? Qui non ci sono fabbriche. Poi l’ho capita e le ho scritto di venire. Lei non mi ha piú risposto. In questo momento è a letto con qualcuno.
— Ma non siete…?
— Stavamo insieme Si raschiò la gola e io guardavo in terra.
— Già, – dissi poi, confuso.
Ceravamo appoggiati al muricciolo, dove il meccanico sedeva prima. Il frastaglio nero degli ulivi ci faceva intorno un muro. Il mio compagno respirava come avesse le costole fiaccate. Poi, scattando: – Camminiamo –. Riprendemmo, di buon passo.
— Ma che non le scriva, – cominciai io a un certo punto, – non vuole ancora dire…
— Storie, – tagliò quello, – non lei. Non è una donna a posto. Anche quando c’ero, mi toccava ricominciare tutti i giorni. Non lasciava mai capire la sua idea. Non che mi comandasse, ma era dura, dura. Sono stato tranquillo solo quando l’ho vista piangere. Per due anni l’ho tenuta. Allora, me l’ha fatta –. Dicendo queste cose, pareva attanagliato. Esitava a parlare e trattenersi non poteva. I muscoli della mascella tesi gli facevano una faccia ancor piú scarna.
— Perché non le scrive lei, Otino? Le ragazze di Torino sono gentili. Vorrà ben rispondere.
— Non lei. Sei mesi fa le ho scritto, che venisse, subito, tre lettere le ho scritto. Ha veduto la risposta.
Continuò a parlare nella sua tana ammobiliata. Mi chiari che era al confino per aver cacciata a pugni la politica in testa a un milite che corteggiava quella donna. Ne aveva per cinque anni e non era ancor finito il primo. Voleva dare la testa nei muri.
— Perché non fa una domanda di grazia? – chiesi cauto.
— La domanda? La farò, – disse fissando rabbioso la candela. – La farò. Bisogna… Tanto mi prenderò vent’anni, – aggiunse secco. – Se ritorno.
Lo guardavo, a disagio. C’era un tavolo tarlato, carico di giornali accartocciati, un piatto sporco, e la candela accesa, piantata in una bottiglia. Un odor misto di sudore, di fumo e di letto opprimeva quella luce.
Camminava in su e in giú. Dallo sgabello, dove mi aveva seduto, lo scrutavo. Conoscevo quel suo tipo brusco e taciturno. Non sapevo piú che dirgli.
— E non ne può piú fare a meno di questa ragazza? – azzardai infine.
— Ne faccio a meno! – gridò. – Ne ho fatto a meno per un anno –. E si appoggiò alla parete. – Ne farò a meno ancora. Ma che lei faccia a meno di me, non voglio.
— Adesso lo sa, – riprese secco. – Senta, le parlo da amico, anche se non lo siamo. Se ha una ragazza, la ingravidi. È l’unico modo per tenerla.
— Ci vuole calma.<>
IV.
Nel tedio della giornata e del paese, l’ossessione del confinato che passeggiava senza pace la stanza o la spiaggia, sempre solo, gli occhi fissi, mi teneva compagnia. Si lasciava vedere poco – gli ricordavo il suo dolore – ma bastava un saluto a distanza o che lo sentissi nominare, per accorgermi con un insolito sussulto che non ero solo, in quella terra abbandonata, e che qualcuno ci soffriva come avrei potuto soffrir io. La pena, quasi un rimorso, che l’esasperazione dell’esiliato mi inferiva, mi strappò l’ultimo interesse che potevo sentire per quella vita. Anelavo ormai di andarmene come da un’isola deserta. Eppure, avvicinandosi il giorno probabile del commiato, sempre piú mi abbandonavo con un’amara compiacenza all’atmosfera desolante di quel luogo.
Fra i terrazzieri della mia strada, ne avevo alcuni che erano stati per il mondo senza farci nessuna fortuna, o dissipandola. Me li trovavo all’alba, spelacchiati, sulla soglia della baracca che avevamo drizzato in testa al ponte della foce, già finito. Fumavo con loro all’aria fredda, contro il basso orizzonte marino, tirando umide boccate.
I terrazzieri cicalavano.
— La mattina a Niú Orleàn stavo a letto con la femmina. Il lavoro era poco e la vita era facile. Maledetta la stagione che son tornato alla fiumara.
— La fortuna è la fortuna. Se ti metti a lavorare sei fregato.
— Bisogna chiederlo a Vincenzo Catalano che strofinava le carene dei vapori e dormiva per terra insieme ai negri.
— Non bisogna essere fessi. Sono i paesani che ti fregano.
— Solamente per il mondo si sta bene.
— Basta andare in Altitalia.
— Basta non essere fessi.
— C’era un viale di palme in riva al mare, dove una volta camminai dal mattino alla sera senza veder la fine. A notte ero ancora in città e fu dentro quel caffè che incontrai…
Mi toccava fare il sorvegliante, ora che il ponte era finito. Stare a guardare quei tre o quattro che mettessero fuoco alla caldaia e piantassero i picchetti, era ormai tutto il mio lavoro. Presso la caldaia c’era un’agave bruciacchiata. La caligine del bitume si mesceva all’odore salmastro della spiaggia e salendo velava un sole pallido, che faceva male agli occhi.
Allora me ne andavo passo passo via dal mare, su per la strada spoglia, socchiudendo gli occhi a quelle montagne sconosciute.
Giú per la strada qualche volta m’incontravo in villani sopra l’asino. Piú piccolo del padrone, l’animale trotterellava paziente e mi passava accanto senza guardarmi, mentre il villano si toglieva il berretto. Veniva da sotto a quelle coste, silenzioso, da una bicocca secolare o da una capanna, e mi scrutava un attimo con le occhiaie fosche. Per qualcuno di loro il mare era un’incerta nube azzurra. Qualche volta una bassa contadina vestita di marrone, cotta dal sole e dalle rughe, passava a piedi nudi con una cesta in capo, o un maialino alla corda, trotterellante per le tre zampe libere. Non mi dava uno sguardo: fissava innanzi gli occhi immobili.
Di questi incontri non provavo sazietà. Questa era gente ignota, che viveva sulla sua terra la sua vita.
Ritornavo alle baracche, e i terrazzieri mi aspettavano seduti, essendo sorta qualche difficoltà che non toccava a loro risolvere. Cosí veniva mezzogiorno, e poi la sera, e l’indomani; e con ottobre cominciò il diluvio.
Asfaltare ancora era impossibile. Pioveva che pareva una cascata. Scrissi alla ditta di risparmiare me e i denari, e mi rinchiusi le giornate intiere all’osteria.
Una volta il macellaio mi prese in disparte. – Ingegnere, mettete dieci lire e siete socio. Domenica scrivo. La merce arriva mercoledí, e fino a venerdí in qualunque ora voi ne abbiate volontà bussate tre colpi e vi aspetta l’amore.
La biondina saltò dal treno una sera di vento e d’acqua, il macellaio la coprí con un ombrello, un altro le prese la valigetta, sparirono nella viuzza scura dietro la chiesa.
Tutto il paese lo sapeva, ma all’osteria si continuò a parlarne solo tra i fidati, vantandosi il macellaio che a quel modo si sarebbe trovato qualche altro cliente per Concetta. La nutrivano a carne e olive, ma la tenevano chiusa. Chi andava, chi veniva. Io ci fui la seconda sera. Nella bottega scura intravvidi due capretti sventrati penzolanti dagli arpioni su un mastello. Il macellaio mi accorse incontro, mi apri un altr’uscio tarlato e, stringendomi la mano, m’introdusse.<>
V.
Di Concetta si discusse sovente all’osteria. Chi la diceva scipita, chi proponeva di richiamarla presto. – Il fatto è che in città si stancano troppo queste ragazze. Un’altra volta bisogna che venga piú riposata –. Aveva colpito specialmente il contrasto tra la carnagione scura e grassa e la leggerezza esotica dei capelli biondi.
— Viene da un incrocio, – spiegò il barbiere. – È cresciuta al brefotrofio. Sono le migliori. Quand’ero in Algeria, fui con un’araba bianca come il latte, e i capelli rossi. Si diceva figlia di un marinaio.
Io bestemmiavo tra me e me, che non mi avrebbero preso piú. E neanche quei discorsi postumi mi piacevano troppo. Sentir uomini d’un’altra terra parlare di donne è avvilente. Cambiai discorso: – Chi ha veduto il confinato?
— Piano! – sibilò un giovanotto, abbassando la faccia tra le nostre. – Pianissimo! È arrivato ieri uno della questura a interrogarlo. C’è di mezzo un omicidio.
— Gentaglia.
— Chi hanno ucciso?
— Niente. Non l’hanno arrestato. Volevano solo schiarimenti. Il delitto è avvenuto in Altitalia.
— Che ne sapete?
— Lo vidi infatti ieri sera camminare sulla spiaggia come un matto. Non aveva berretto e pioveva.
Corsi a cercarlo. In casa non c’era. Ne chiesi ai vicini. Era uscito all’alba come sempre. Ritornai lungo la spiaggia: trovai Ciccio, sotto una barca capovolta, che si fasciava i piedi.
Ciccio l’aveva veduto. – Ve lo mostro. Compatitemi.
Attraversammo il paese. La gente era incuriosita. Salimmo volgendo le spalle alla marina. A mezzanotte c’era un portico che dava sui tetti sottostanti. Ai piedi di una colonna sedeva Otino, guardando a terra.
Levò una faccia infastidita e sofferente. Mi fece un cenno di saluto.
— Che cosa è successo, Otino?
— Quel che doveva succedere.
Dall’altra colonna, dov’era corso a sedersi, Ciccio mi fece il gesto di chi fuma. Lo mandai all’inferno.
— Ho saputo che uno della questura…
— Tutto si viene a sapere, – disse Otino con aria cupa. Poi si guardò intorno e scrutò Ciccio.
— È uno scemo che non sente, – feci io. – Se vuole raccontarmi, può.
— Quello che gli è scappata la moglie? Bisogna essere ben terra da pipe per ridursi in quello stato.
— Otino, è una mezz’ora che la cerco: mi hanno detto che sta male.
— Io? – quello scattò. – Io? Una cosa sola, – e scandí le parole con due labbra scolorite, – mi è rimasta nel gozzo: che adesso non lo posso piú far io.
— Che cosa? – balbettai.
— Ma la pianti, – mi gridò in faccia. – Qui le cose si sanno. Cosa viene a far finta?
— Otino, se lo dico, mi può credere. Ho saputo che uno della questura le ha parlato, ma che cosa le abbia detto o che schiarimenti volesse, non ho idea.
— Mi dia da fumare, – fece brusco. Porsi la sigaretta; poi guardai Ciccio e gli gettai la sua, che prese al volo.
— Allora senta. Mia moglie, – e tentò un sorriso, – mia moglie è stata uccisa da un compagno di lavoro, col quale conviveva da sei mesi, e aveva rapporti da due anni. Il sottoscritto viene interrogato perché frequentava la vittima – frequentava – e potrebbe gettar luce su importanti precedenti. Sa il piú bello? – fece poi, afferrandomi un braccio. – Le ha sparato sette colpi, tutti in faccia.
Di ridere non tentava piú. Parlava con una secca vivacità, ripetendo le parole come per obbligo, senza che la sua voce trasalisse. Quand’ebbe finito, rimase a dondolare il capo, fissando la sigaretta ancora intatta tra le dita. Poi scattò. Serrò nel pugno la sigaretta e la scagliò via, con un rugghio come gettasse anche la mano.
Sentii al braccio prigioniero il sussulto. Svincolandomi, dissi piano: – Scusi, Otino.
— Quel che mi sta nel gozzo è che non lo posso piú far io, – gemette un’altra volta. – Da due anni, – e si prese il capo tra le mani. – Da due anni.
Da quel portico aperto sul mare me ne andai indurito e avvilito. I due che rimasero non erano tipi di gran compagnia. Pure li vidi giorni dopo, in piazza, seduti sul lungo tronco. Non parlavano, ma insomma erano insieme.
Io passai gli ultimi giorni a gironzare anche sotto la pioggia. Il mare evitavo di guardarlo: era sporco, sconvolto, pauroso. Il paese e le campagne si erano come impiccioliti. In pochi passi raggiungevo qualunque luogo e me ne tornavo insoddisfatto. Non ne potevo piú. Ogni colore era sommerso e, nel cattivo tempo, le montagne erano scomparse. Mancava ora a quel paese anche lo sfondo, che in passato aveva dato un orizzonte alle mie camminate.
Solo, restò ben visibile dalla finestra dell’albergo, nella pioggia, la collina brulla dai muraglioni biancosporchi in cima: il paese antico. Con quella vista negli occhi, una mattina che al solito la luce agonizzava, partii per il mio destino.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Terra d’esilio
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)