Temporale d’estate
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 21 minuti
Sul casotto dell’«Imbarco» ai piedi delle colline, non giungeva ancora il sole. Grandi alberi l’ombreggiavano. Di là dal fiume che balenava immobile, schiarito dall’alba, si drizzavano case luminose, i sobborghi isolati, e su esse pareva già alto mattino. La barcaiola, vecchia terrea, ancor tutta spettinata, andava adunghiando con un raffio successivamente le barche ormeggiate allo scalino, accostando le piú mollate e chinandosi, con la sinistra sull’anca, a ricuperarne le funi. Ad ogni sussulto che dava una barca violentemente incuneandosi fra le altre, gli scafi ad uno ad uno ripercuotevano l’urto, sciaguattando sulla corrente.
Da dietro il telo di sacco che chiudeva il ripostiglio a tettoia, venivano tonfi, fruscii, parole. Qualcuno stava spogliandosi.
— Sono vostre la camicia e le calze di seta? – gridò una voce prorompente.
La vecchia alzò la fronte, cessando scontrosa il suo lavoro. Da certe nuvole rosse di là dagli alberi veniva un riflesso che accendeva il fiume e le avvampava il viso.
— Fine anche la sottana. Sono due, sono, – riprese la voce. Si scostò il telo e venne fuori un giovanotto abbottonandosi sulla spalla il costume. Era basso e poco muscoloso, ma tutto abbronzito e ricciuto.
— Credevamo poi di essere i primi, stavolta. Ma qui fa fresco, – disse, battendosi sulle coscie accapponate e saltellando. – Si tratta d’esser quadri, levarsi da un letto le ragazze a quest’ora per portarsele in barca.
— Sono sole, – disse la vecchia, riabbassandosi al suo lavoro. – Sole e sportive. E perché nessuno le veda fare le sportive, non hanno vergogna di disturbare la gente avanti giorno. Non mi han lasciato il tempo di pettinarmi. Donne.
— Sole! – aveva gridato il giovanotto facendo un salto. – Sentito, tu? Abbiamo avanti due ragazze sole. Vieni fuori di lí, Moro –, Si rivolse: – E come sono, come sono?
— Non avete visto le camicie? – fece la vecchia grignando. – Dalla camicia alla pelle d’una donna c’è poco…
— C’è niente. Chi sono?
— Non sono clienti. Una, magra, color della paglia. L’altra parlava poco, ma era già nera dal sole, tracagnotta, sportiva che a momenti mi sfondava la barca saltandoci dentro. Tutte e due, una gran superbia e malfidanza.
— È molto che sono partite?
— Un’ora.
— Belle ragazze? Che maglia?
— Domandale se han preso la borsetta, Aurelio, – esclamò bruscamente un’altra voce dietro il telo.
La vecchia strizzò gli occhi. – L’amico se ne intende, – disse beffarda. Alzò la voce: – State tranquilli. Sono donne che la barca la pagano loro. Ma hanno l’aria di costare molto piú di una barca.
— Secondo chi trovano, – e dalla tettoia uscí l’altro. Giovanotto ossuto, dai grandi piedi sudici e dalle mani arrossate, si annodava, sulla spalla esangue come il ventre di un pesce, le mutandine cascanti. Si guardarono in faccia lui e la vecchia che ancora scintillava dalla malizia. Nell’occhio del giovane biancheggiò una luce smorta.
La vecchia lo squadrò tutto, di sfuggita.
— Siamo nuovi, eh? Mai andato in barca, di quest’anno, a quanto vedo.
Rispose Aurelio: – Sta meglio lui col remo in mano, di tutti i mariti che avete buttato a Po. Qualunque remo. Anche un bastone, gli dice.
— Non l’ho mai visto neanche passare. A guardarlo, sembra piuttosto buon’anima dell’ultimo dopo tre mesi di sciatica. Fa piacere pigliare un po’ d’aria, eh?
Il giovanotto storse le labbra e sputò a terra. Disse all’altro, senza voltarsi, con la bocca e una guancia contratte come vi ballasse una sigaretta: – Manca niente?
Aurelio saltò al telo della tettoia e ne uscí con una minuscola valigetta che posò nella prima barca. Poi scese in questa e, piantandosi a gambe larghe, crollò lo scafo per il traverso, producendo uno sciabordio tumultuario fra tutte le imbarcazioni.
— Non occorre, – gridava la vecchia di ritorno col remo ferrato e una pagaia. – Le ho già vuotate a secco dopo che mi hanno svegliato quelle due. Non c’è piú che da montare, – e tese con un gesto di forza il palo pesante.
— Speriamo, – rispose Aurelio.
La vecchia si volse ridendo a Moro che se ne stava immobile, e lo fissò, incuriosita, di sotto in su. Disse, parlando ad Aurelio: – L’amico ha gli occhi ancora sott’acqua. Sveglia. Se picchiate in un ponte, le avarie sono a carico.
— Attenta, – disse Moro, che non picchino voi –. E scese pesantemente nello scafo, facendo traballare Aurelio. – Date qua la pagaia, – disse freddo voltandosi, – e slegate.
La vecchia ubbidí. Aurelio osservava il cielo. I nuvoli rossi eran scomparsi. In piedi a poppa, Aurelio tuffò il palo verticalmente, rinculando la barca a forza di polso. La barca uscí incerta di fra le altre, sobbalzando nella prima corrente. La vecchia brontolò un saluto cui nessuno rispose, e si volse a rientrare sotto la tettoia. Aurelio, in piedi nella maglia nera, sollevava e abbassava il palo, tastando il fondo, piegandosi a spingere di forza contro la massa d’acqua. Guardava fisso innanzi a sé, stringendo gli occhi, la piana corrente luminosa. Uscí nel sole.
Moro, steso in fondo alla barca, la riempiva tutta. Le gambe pelose poggiavano divaricate sui bordi. Si coprí gli occhi con la mano.
— Di’, Moro, che bel sole.
Moro disse, sottovoce: – A vederlo di qui.
— È lo stesso dappertutto, – disse Aurelio. – Stamattina ha il catarro. Guarda che salgono le nuvole.
— Il brutto là dentro è che il sole ci sta soltanto a scaldarti la cella. Non è piú sole, è un forno.
— Allora d’inverno si sta al caldo.
— D’inverno geli e non dici niente. Ma la rabbia è d’estate che c’è un sole cosí e, nossignore, bisogna pigliarlo con giacca e calzoni. Tu ti levi la giacca quando ti portano in cortile. Non si può. Perché non si può? Non si può.
— Come da soldato, insomma.
— Peggio. Chiudono apposta un uomo per fargli girare le scatole.
Aurelio curvo a tuffare il palo, rise sulla testa di Moro. Levando la mano e torcendo gli occhi, questi gli rimandò il sogghigno.
— Detenuto vuol dire carogna, – riprese Moro ricoprendosi il viso. – Nessuno carogna come noi per loro. Ci dicono che bisogna cambiar vita e intanto ci tengono chiusi come conigli. Se c’è da cambiar vita, avanti, metteteci subito fuori. Invece no: sta’ lí due, tre, dieci anni, secondo che dice il tuo libro; diventa giallo, verde, grigio, cosí cambi vita. Capisci che alla casa c’era uno da vent’anni? Sembrava mio nonno da morto e ne aveva quaranta. Omicidio. Tutto perché aveva bevuto una volta.
— C’è però i gabbiani che si lasciano prendere quando non dovrebbero, – fece Aurelio chinandosi.
Moro balzò a sedersi, volto ad Aurelio.
— Ma se è peggio la giustizia che noi, – esclamò agitato. – Perché non ammazzano uno sul fatto? O, se alzava soltanto una tasca, non gliene danno un fracco subito, da uomini? Allora si vedrebbe chi è piú in gamba. Non è roba da preti tener uno chiuso degli anni?
— Ti hanno poi dato un anno e mezzo.
— Un anno è niente. Sono lunghi i giorni.
— Moro, prima eri piú furbo. Quel pane del governo tu non l’hai digerito. E la gastrica lascia una faccia che sembra paura.
Moro frugò nella valigetta e ne trasse una sigaretta. La fiammella pallida nel gran sole gli incavò la pelle stirata delle gote. Gettò via di scatto il cerino.
Disse Aurelio: – Pensa piuttosto a farti furbo e sta’ attento dove lavori un’altra volta. Chi ha mai visto adoperare di giorno la mazza. Non sei fatto per le botteghe, tu.
— Per la barca sono fatto, – esclamò Moro, scattando in piedi, tanto che Aurelio traballò. – Dammi quel remo.
Aurelio sgusciò cauto a fianco di Moro e gli passò il palo. Poi si sedette e cercò da fumare. Moro, con la sigaretta convulsa tra le labbra, tastò il fondo del fiume e diede la prima spinta rizzandosi adagio.
Bianca alzò la pagaia sgocciolante e la barca avanzò sotto gli alberi nell’acqua immobile.
— Non c’è piú sole, – disse Clara.
Bianca a denti stretti si rilassò sul banco e guardò intorno. – L’acqua è scura per via di quella nuvola, ma se torna il sole, diventa argento.
— Pioverà? – disse Clara.
— Non credo. In ogni caso siamo qui per bagnarci.
— La donna del fiume, – mormorò Clara. Bianca guardò altrove per non odiare l’indolenza beffarda di quegli occhi.
— Come mai non osservi che là in Po le rondini volano basse? – disse ancora Clara.
Bianca si volse di scatto al fiume che scorreva tumultuoso in una banda di sole, davanti alla piccola foce dov’erano entrate. A mezza corrente sussultava, increspando le acque, la draga galleggiante ormeggiata a un cavo obliquo, solitaria.
— Là potremo andare, se piove. Non sono mai salita su una draga.
— Non c’è un’anima qui, – disse Clara. – Una volta rimontati quei poveri sabbiatori – però, visto che passano la vita in acqua, potrebbero anche lavarsi – il fiume è un deserto. Qui si può morire, o nascere, senza saperne nulla. Ma non per questo, – fece piegandosi sul bordo della barca, – le scatolette di sardine e i vasi rotti cessano di parlare di civiltà trascorse. Davvero, il tuo fiume non è una cosa seria.
Il corpo sottile di Clara curvo sull’acqua verdastra, nell’attillato costume citrino, vi gettava un riflesso pallido. Bianca con occhi riluttanti la sogguardò senza dir nulla. Ma poi sorrise: Clara fissava nell’acqua il proprio viso e col dito si stropicciava un angolo d’occhio.
— Basta uno specchio per dar fine alle bionde malignità di donna Clara –. La voce assurdamente le vibrava.
— Specchio per specchio, preferisco il mio. Con quello almeno non ti esce d’un tratto un branco di pesciolini dalla bocca. E non ti sembri ubbriaca. E non hai per aureola un catino sfondato.
Senza volerlo, Bianca strinse i pugni. Ma si riprese e stirò le braccia e le dita ingranchite. Torse il capo voluttuosamente, scorrendo gli occhi sul cielo, agli alberi della riva, dietro i cui tronchi smagliava una plaga serena, aperta sotto la nuvolaglia.
— Non ti ho promesso il Rio delle Amazzoni, – disse beata, – ma se piove l’avremo. Perché ripararsi? Che cosa è piú bello di un temporale al mattino?
— Senti, cara: se hai intenzione di fare il tuffo, sbrigati. Qui fra poco diluvia e il mio costume teme l’umidità.
— Voglio vederti bere.
— Bianca, per questo mi hai portata fin quassú? per tuffarmi nell’acqua nera e sporcarmi nel fango brutto e farmi mordere dai coccodrilli? Bianca, io ho una pelle da conservare bellina. Fortuna che il tuo sole è stato onesto e rispetta una povera bionda che non ha piú vestiti.
— Sciocca, – disse Bianca alzando le spalle. – Questa vita ti farebbe bene, ti renderebbe piú forte e sicura di te.
— Ma lo sono, purtroppo lo sono, forte e sicura di me. Avrei bisogno del contrario. Mi è costato un affare, la forza.
Bianca si chinò a slacciarsi le scarpe di tela e ascoltando sogguardava Clara.
— Non dare mai troppe prove di forza e dominio di te. Non avrebbero scrupoli a fartela.
— Perché non smetti questa vita incoerente? – disse Bianca sorridendo.
— È ancora la meno seccante.
— Ti capisco, – mormorò Bianca adagio, e cacciò la mano nella borsa a cercarvi la cuffia di gomma.
Quando fu in piedi e pronta, si volse a Clara che, abbandonata sul fondo contro il duro banco, la fissava con una smorfia.
— Dunque, non vieni?
— Ritorna vittoriosa. Applaudirò.
— Nuota almeno qui intorno, ti sostengo io.
— Tesoro, sei ridicola: queste cose si fanno con gli uomini. Va’ presto e non romperti il collo.
Bianca scese nell’acqua rabbrividendo e a passi incerti camminò verso la foce. Si abbandonò a sommergersi, serrando i denti. L’acqua non era fredda. Laggiú in mezzo al fiume la draga rideva nel sole. Si rialzò in piedi gocciolante, nell’acqua fino alla cintola, e si sentí contro le spalle il brivido della brezza.
Era giunta alle increspature e mulinelli della foce e davanti le scorreva poderosa la corrente. Il piede sprofondava. Torcendo il capo sulla spalla in un’occhiata che colse, sul pelo dell’acqua, le rive basse, la barca – chiazza imprecisa, – le piante, ogni cosa, si distese d’un balzo, levando le braccia e puntando le gambe. Nella corrente sussultante fu subito a gioco. Piegò il corpo a monte della draga, dritto alla collina velata di sole e di nubi, e tuffò il viso nell’oscurità gorgogliante. L’acqua le sfuggiva eguale sulla bocca negli scatti del respiro tra le bracciate e le falciate calme. Nell’obliquo cammino l’equilibrio instabile minacciava ad ogni attimo di scomporle la cadenza e Bianca non vedeva altro che il rapido balenío delle gocce nel respiro. Rituffando un’ultima volta la bocca affannata, scorse repentinamente le vaghe trasparenze subacquee del sole diffuso. Levò il capo. Aveva la draga a pochi metri.
Bianca si dibatteva intorno al cassone galleggiante per trovarvi un appoggio, quando sull’acqua corse un’ombra. Se ne andava anche l’ultimo sole. La brezza fredda ringagliardí.
Bianca si issò spellandosi un ginocchio sul cassone. La soprastruttura metallica di carrucole e griglioni insabbiati lasciava una breve cornice tutt’intorno. Camminandovi malferma Bianca ne fece il giro e trovò una tettoia fatta d’assi che entrava sotto i macchinari. Aveva un piancito terroso e, in un angolo, dei sacchi ripiegati. Nel mezzo, le tavole s’aprivano a un vano d’acqua nera, gorgogliante – il fiume – dove una catena di secchie arrugginite, penzolante da un foro luminoso, pescava.
Bianca uscí fuori a guardare la corrente che riemergeva da sotto il cassone. Spaziò gli occhi alla rapida – irta di sassi e di pali – della diga che avevano risalito a forza di remo un’ora prima; e si ricordò di Clara.
Corse saltellando sul fianco della draga e cercò la foce. Dapprima non vide che una riva bassa e verde, assai lontana e immobile, sotto gli alberi stormenti, poi colse dietro una lingua di terra la maglietta pallida di Clara che, in piedi, agitava la pagaia.
La vocetta stridula gridava qualcosa nel vento improvviso, mostrando il cielo.
— Uh uh! Qui c’è riparo, – vociò Bianca. – C’è riparo.
Parve che Clara avesse sentito, perché agitò la mano e scomparve dietro la lingua di terra. Brontolò sordamente remoto il primo tuono. Bianca si strappò la cuffia di gomma, nervosa. Dal cielo, dove nuvole spaurite brulicavano contro gli alti vapori, guizzò fievole un lampo, come un palpito. Bianca si premè le mani sulle costole, fissando l’acqua che le schiumeggiava sotto. Lo schianto tardava.
— Clara, – gridò, – c’è… – Cominciò un ruglio vago che a poco a poco prese forza, d’eco in eco, sempre piú vasto come un franamento. Si scaricò lontano, con un sordo rimbombo mancato. Bianca arrossí, rinfrancata. In città pioveva certo. Il cielo laggiú a valle, era uno spavento.
— Clara, qui c’è riparo, vengo a prenderti –. Sotto le fredde raffiche che risalivano il fiume tutta la draga sibilava, cigolando sull’ormeggio. – Ma dove s’è ficcata, quella stupida? – mugolò Bianca, scrutando la riva bassa e i grandi alberi che si divincolavano sullo spacco sereno d’orizzonte.
Ecco la barca che usciva dalla foce. Dentro c’era Clara, nel centro, curva a menare grandi colpi schiumosi di pagaia.
Ma una volta in corrente, perse la direzione, presa dai mulinelli e dalle ventate. – Attenta, – urlò Bianca. – Finirai sulla diga, – e correva per il cassone a seguire la discesa inesorabile. Allora Clara si alzò in piedi – Bianca la vide che pareva un canarino – e diede di piglio al grosso remo ferrato, piegandosi a tuffarlo per spingere. La barca scendeva. Clara afferrata al remo lo piantava a perpendicolo cercando il fondo e il fondo non c’era e la corrente ogni volta le spingeva la barca sul remo stroncandole i polsi.
— Idiota, – urlava Bianca fuori di sé. – Tieniti obliqua. Posa il remo. A pagaia.
S’infilava a casaccio la cuffia, quando sentí uno strillo e non vide piú Clara, piombata nell’acqua dietro al remo. Il ribollimento disordinato in coda alla barca mostrava dove quella si dibatteva.
Nell’istante che spiccò il tuffo, Bianca fu quasi accecata da un lampo. Solo nell’acqua si sentí al sicuro. Nuotò frenetica, a testa sommersa, senza guardare e senza udire. Non le giunse lo scoppio del tuono; non pensò nulla di Clara; tendeva con ogni suo senso alla barca, a raccogliere il remo, per raccogliere Clara.
Urtò nel remo col braccio. Si guardò attorno negli spruzzi e vide lontano qualcosa di biondo che schiumava; vide dall’altra parte, nel filo della corrente, la barca deserta. «Senza la barca, non la tiro fuori», le lampeggiò in mente; e scagliò il remo innanzi, verso la barca, e lo raggiunse, e lo scagliò un’altra volta. Le parve di strapparsi le spalle issandosi, dall’acqua fuggente, su quelle tavole. Vi si rovesciò dentro tutta contusa e afferrò la pagaia.
Quando si volse non vide piú Clara. Solo ora s’accorse che pioveva a cascata, a grandi staffilate d’acqua che levavano i solchi e gli spruzzi nel fiume. Tutto, intorno, fumava del pulviscolo, e la schiena le prudeva, intiepidita dalla violenza del rovescio.
Clara non c’era piu. Bianca rigettò indietro il capo a liberarsi dalle ciocche fradice che l’accecavano. Aveva perduta la cuffia. Ma dovette spiccicarle con le dita, tanto la pioggia le incollava. Le sfuggi un urlo: – Clara.
Tutta l’acqua ribolliva, disordinata, eguale. Drizzò la barca con la pagaia e la inchiodò contro corrente. Scrutò le strosce tormentate e crepitanti, cercando il luogo dove Clara era scomparsa. Le migliaia di bolle diffondevano un pallore assurdo fra l’acqua e l’aria. Nelle lacrime di pioggia Bianca spaziò lo sguardo alle rive, ogn’intorno, e ogni cosa svaniva in un profilo incerto. Era sola sul fiume.
Batté rabbiosamente la pagaia e avanzò controcorrente, a casaccio, pur di restare su quell’acqua. Osservò coi capelli negli occhi che un albero isolato sulla riva corrispondeva a quel punto. Battendo i denti dalla tensione, scattò in piedi, nelle raffiche fradice, e posò la pagaia. – La donna del fiume, – mormorò ansante. Si tuffò a casaccio, urtando malamente il piede.
Sott’acqua trovò una gran calma. La massa eguale, densa, attutiva e rendeva ogni gesto remoto, enorme. Spalancò gli occhi nell’oscurità e andò brancicando, torcendosi, tastando con le mani e con gli occhi. Non vedeva e non sentiva se non il peso dell’acqua. Quando emerse, fu sorpresa della luce e della pioggia: le aveva dimenticate. La barca non era lontana. Tornò a tuffarsi e a brancolare, con le orecchie muggenti, menando fievoli bracciate. Riemerse e nuotò alla barca. Vi salí lacerando il costume, aggrappandosi con tutto il corpo.
Quand’ebbe ripreso in pugno la pagaia, nell’acqua fino alle caviglie, girò smarrita gli occhi all’altra riva e le balzò il cuore. Una barca nei vapori filava radente, sospinta da due figure in piedi, curve, dritta alla draga.
Bianca si mise a urlare, saltando in piedi, agitando la pagaia. Le schizzava in bocca la pioggia tiepida. Quelli non si voltavano.
— Venite, – urlava Bianca da spellarsi la gola. Fu per gridare «aiuto» ma si tenne. Strappò dalla borsa fradicia, che quasi galleggiava, un asciugamano e balzò sulla cassetta agitandolo, inviluppato nella pioggia. Non smetteva di chiamare.
Quelli erano all’altezza della draga, e lasciarono allora le punte, si buttarono seduti e pagaiando guadagnarono la draga. Bianca li vide che uno saltava sul cassone, l’altro, piegato nella pioggia, gli porgeva la fune. Bianca guardò di scatto la corrente schiumosa che andava sudiciamente interrandosi; poi si scrollò sotto l’acqua e volse la barca alla draga pagaiando a denti serrati.
Emerse nella pioggia a fior del cassone quella testa d’annegato.
— Oh, – disse Aurelio buttato sui sacchi, – guarda in che stato siamo –. Moro che in fondo alla tettoia, nudo, torceva le mutandine, non si volse.
— Ma è una donna, – esclamò Aurelio.
La donna gettò le mani sul cassone. Di sotto, la barca le sfuggiva.
— C’è un’annegata, – gridò stridula. – Venite ad aiutarmi.
Aurelio corse a darle una mano: – Se non sale, annega anche lei. Moro, mettiti le brache.
La donna, mano nella mano, tentennava la testa da loro al fiume. Vaporava di pioggia come un cavallo e aveva la pelle abbronzata e tramortita: braccia e gambe, coperte di graffi.
— Mi è annegata un’amica, bisogna trovarla. Da tanto è che chiamo.
— Annegherebbero anche i pesci, oggi, – disse Moro nella penombra della tettoia, facendosi schermo delle mutandine al ventre peloso.
— Salga su, salga su, – ripete Aurelio. – Tu copriti il piú grosso. Se è da tanto, è già morta, dov’è stato?
— Laggiú, – fece la ragazza con la voce di pianto, additando la corrente. Volle divincolare la mano. – Laggiú.
— È andata sotto?
— Vuoi che anneghino per aria, – disse Moro, là in fondo.
— Salga su, – disse Aurelio. – Tropp’acqua fa male. Qui c’è una tettoia. La barca è già piena.
Moro venne avanti con le mutandine drappeggiate sul ventre. – Dov’ha detto che è stato?
— Laggiú, subito dopo il Sangone –. Girava gli occhi tra i capelli incollati, che pareva piangesse.
— Venga al riparo, – riattaccò Aurelio tirandole il braccio. Se è là che è affondata, la corrente non la porta oltre la diga. Sappiamo dove trovarla. Aveva la sua età?
— Sapeva nuotare? – aggiunse Moro.
— E voi, sapete nuotare? – chiese bruscamente la ragazza.
Moro si buttò seduto sotto l’orlo della tettoia, cacciandosi le mutandine tra le cosce. Tirò una pacca sul garretto di Aurelio, che stava sempre sporto in fuori nel rovescio a trattenere l’altra.
— Capito, Aurelio? – disse nell’angolo delle labbra, – sono quelle dell’imbarco. Cara la mia bagnante, noi sappiamo nuotare meglio di voi che venite qui a far le stupide nei giorni feriali, ma nuotiamo sott’acqua non sotto la pioggia. Se vi piace, si vedrà dopo. Adesso come adesso, lasciamo piovere. Lascia che vada a pescarsela lei.
Aurelio allentò le dita indeciso e si raddrizzò sotto la tettoia, sgrondando. Lentamente la barca prese a indietreggiare. La ragazza, in piedi, rimase un attimo in pieno rovescio, levando una spalla a fregarsi la guancia. Poi si chinò, mano alla pagaia, e riaccostò la draga.
Senza parlare si issò sul cassone, tenendo fra i denti la catena della barca. Quando ci fu, volse le spalle accoccolandosi per arrivare a infilar la catena in un anello del cassone. In quei movimenti scopriva sul fianco sinistro illividito un lungo squarcio del costume nero e uno sbrindellamento alla coscia sull’orlo. Non era piú la carne abbronzata e lucente delle gambe e delle spalle: ma qualcosa di bianco.
Assicurata la catena, si sporse a prendere una borsa nella barca. Aurelio seguiva il gioco dello squarcio sulla pelle livida. Senza guardarli, la ragazza si rialzò balenando sui piedi – era bassa e bruna come lui – e posò la borsa gocciolante, sotto la tettoia. Poi si sedette al riparo in disparte dai due. Raccogliendo al petto le ginocchia, si poggiò su i gomiti e si prese le gote tra le mani. Rimase immobile, fissando la pioggia.
Tutta la draga crepitava e vibrava sciacquando sulla corrente. Giú dal foro delle carrucole in fondo alla tettoia s’ingolfavano ventate fredde che tagliavano la schiena. Aurelio accoccolato sui sacchi, vedeva la schiena grande e nuda di Moro e le spalle raccolte della ragazza, luminose sullo sfondo balenante della pioggia.
— Moro, – disse a un tratto nel silenzio, – copriti il sedere che prendi un colpo d’aria.
Moro volse un profilo di sogghigno. – Non sta bene mettersi i calzoni in presenza d’una signorina.
— Credi di essere bello? Le signorine non guardano.
— Sono troppo educate per dire «crepa».
Aurelio ficcò una mano nella valigetta gettata sui sacchi. – Moro, vuoi una sigaretta?
— Se non sono annegate anche loro.
Aurelio si alzò e venne a tendere il pacchetto a Moro, togliendone intanto una con le labbra. Poi si volse alla ragazza e porse le sigarette. – Ci fumi sopra, – le disse. La ragazza non mosse ciglio e continuò a fissare la pioggia.
— Grazie tante, non fumo, – brontolò Aurelio e si volse ai sacchi, sfregando il cerino.
— Hai visto come sono le donne, – diceva Moro, sfregando a sua volta, inutilmente. – Tutto il mondo al loro servizio. Fanno le valorose e si mettono nei pericoli quando non sanno che cosa vuol dire Po e a uno che le ragiona sputano sui piedi e chiedono ancora se sa nuotare. Chi sa davvero, annegare non lascia. Vuoi scommettere, Aurelio, che anche l’altra sapeva nuotare?
Aurelio esasperato dal cerino, lo sbatte via con la sigaretta. Gironzolò un poco sotto la tettoia, irrequieto; andò a tastare la catena delle secchie; si passò la mano sotto il costume a massaggiarsi il petto rabbrividito; e venne finalmente a sedersi all’entrata della tettoia, accanto alla ragazza che Moro sbirciava di traverso.
Si tirò anche lui le ginocchia al mento e vi poggiò la gota.
— Però le belle ragazze non piangono, – disse socchiudendo gli occhi.
L’altra scattò in piedi avvampando e fece per volgersi sotto la tettoia. Aurelio le teneva un braccio prigioniero e cercò di tirarla giú. Si divincolarono. – Buona, buona, noi ci conosciamo, – disse Aurelio. – So perfino che la sua amica era bionda.
La ragazza lo fissò un attimo con gli occhi brucianti. – L’ho detto io, – mormorò.
Poi, liberatasi, corse dentro. Nella penombra, si volse. – Come fa a saperlo?
— Mi dica come si chiama lei e glielo dirò, – sorrise Aurelio, drizzandosi.
La ragazza disse rapida: – Piccone: ebbene?
Scoppiò una risata di Moro, che si picchiò le palme sulle cosce. E Aurelio sorridendo: – Il suo nome le dico: che cosa m’importa della famiglia?
La ragazza restò un attimo interdetta, poi tutto il viso le avvampò e si contorse, come a uno schiaffo sulla bocca.
Scoppiò in quel momento una bestemmia di Moro. S’era alzato di scatto e le mutandine eran volate in acqua. Buttandosi avanti, in ginocchio, tuffò inutilmente il braccio. Allora saltò, cosí nudo, sulla barca della ragazza, levando un gran spruzzo, e le pescò grondanti. Risalí, senza coprirsi, il cassone. – Bastarde, eran già asciutte, – esclamò sbattendole in un angolo, e avanzò risoluto sotto la tettoia.
La ragazza lo guardò venire, fissandolo in faccia. Senza distogliere gli occhi, Moro disse nell’angolo delle labbra: – Le barche sono piene, valle a vuotare, Aurelio –. La ragazza indietreggiava.
— Dove abbiamo veduto la bionda, Piccona? – le diceva Moro sul viso. – Ma i morti galleggiano, stupida: sanno nuotare piú di me e di te. Lo sai dov’è adesso la bionda? – Moro abbassò la voce; la ragazza gli vide i denti. – Ti sta dietro, nel pozzo, ha gli occhi aperti e le unghie rotte, e ti chiama, alza la mano, ti prende… – La ragazza si volse incespicando nei sacchi. Moro le rise sulle spalle: – Stupida –. Poi le gettò le mani ai fianchi.
Aurelio gli afferrò una spalla. – Non è cosí che va fatto, scarpone. Cosí la spaventi soltanto. Credi di essere sempre in galera? C’ero io e tocca a me.
La ragazza si dibatteva in ginocchio. Moro la inchiodava, pugno alla nuca, piantandole uno stinco nelle reni. Volse di scatto il viso scarno e teso, e ghignò verso Aurelio. – Va’ a vuotare le barche, ti ho detto. La Piccona mi ha visto e le piaccio. È cosí che mi vuole.
— Non dovevi spogliarti: non è piú uguale.
— Sicuro, – disse Moro sussultando agli sforzi della ragazza. – Se aspettavo le tue ciance. Va’ a vuotare le barche che affondano.
La ragazza si abbandonò a un tratto sui sacchi, tanto che Moro fu per caderle addosso. Il corpo prono nel nero costume lacero giacque floscio e biancheggiante.
— L’hai ammazzata, – gridò Aurelio.
— Sono come i gatti; muoiono solo a tenerle sott’acqua.
Quando Aurelio fu alla pioggia, invece che le barche si mise a guardare la corrente. Gialla di fango schiumeggiava sudicia sotto l’acqua del cielo. Mulinelli e mulinelli si formavano e scioglievano intorno alla draga, brulicanti a miriadi di sonagli. Qualche ramo stravolto passava balenando, subito sommerso. La draga ondeggiava, scossa dai sussulti profondi. A valle, tutto era grigio e incerto: le masse d’alberi sulle rive deserte parevano di un altro mondo. S’indovinava, là in fondo alla corrente, il muggito e l’accavallarsi della schiuma sopra la rapida della diga.
Le due barche eran colme d’acqua; quella della ragazza, mezzo sommersa. Aurelio sbirciò sul fianco l’ingresso grondante della tettoia, poi si buttò innanzi e raccolse la cucchiaia di legno che galleggiava nella barca. Accecato dalla pioggia, sporgendosi dal cassone menò qualche palettata rapida e svogliata. Si ritrasse, giungendogli dalla tettoia un ansito e un secco gemito di stoffa squarciata. Si voltò di scatto e intravide nell’ombra un viluppo bianco.
Si sedette allora sull’orlo del cassone, allungando le gambe scure alla pioggia, fisso alla barca che ballonzolava adagio. L’acqua lí dentro era limpida rispetto a quella del fiume, vi trasparivano le tavole di fondo verniciate a legno chiaro. Non c’era che il palo ferrato: la pagaia se l’era portata via la corrente.
Senti bestemmiare Moro. Non volle voltarsi. Poi stropiccii di lotta e un gemito lungo. Poi, di nuovo la pioggia.
Aurelio si sbottonò il costume sulle spalle e lo calò alla vita. Poi si tastò il petto, gonfiandolo. L’aria fredda sapeva di fango e di foglie. Provò a contrarre le labbra rattrappite e sibilò un motivo senza riuscire a zufolarlo.
— Aurelio, pronti, – scoppiò la voce rauca di Moro. – Altro che morta.
Aurelio s’alzò di scatto, Moro in fondo alla tettoia, seduto, si stringeva al petto le ginocchia. Ma non fece a tempo, Aurelio, di vedere la ragazza distesa, che quella balzò in piedi e, bianchissima malgrado i lividi sanguinosi, malgrado i brandelli di costume, attraversò l’ombra e urtando Aurelio piombò in acqua.
Picchiato il ginocchio sulle tavole, Aurelio rimbalzò e si volse, le orecchie piene di una risata di Moro.
— Te l’ha fatta: le vedi, le donne.
La ragazza già lontana. Nuotava disordinatamente, a grandi spruzzi, tutta fuor d’acqua. Aurelio saltò sulla barca, che quasi traboccò. Bisognava slegare.
— Non serve, – disse Moro sopraggiungendo, – te l’avevo detto di vuotare. Non fai piú in tempo. L’hai lasciata scappare.
Aurelio infuriato voleva gettarsi in acqua. Moro lo tenne. – Non va lontano. Io la stanco una donna. Guarda.
La ragazza era travolta dalla corrente. Senza direzione, era finita proprio nel mezzo del fiume e le sue braccia non davano piú se non radi spruzzi. Filava rapida verso la diga.
— Non sa nuotare, però il suo servizio l’ha fatto, – disse Moro.
— Ma annega e io…
— Torna all’ombra, – disse Moro, tirandolo per il braccio, – diventi stupido? Non poteva andar meglio. Ci ha pensato da sé per levarsi di mezzo. Le donne come quella poi parlano.
Aurelio aveva perso di vista quel punto nero e aguzzava gli occhi, sussultando.
— Adesso sí che fumo volentieri, —disse Moro rientrando.
Quando, dopo qualche minuto, Aurelio lo raggiunse e si buttò sui sacchi, brusco, Moro riprese: – Fumati una sigaretta. Farai tu il primo, un’altra volta.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Temporale d’estate
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)