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Quando Amelio venne portato a casa dall’ospedale e posato sul letto, gli altri smisero di andarlo a trovare, ma Garofolo cominciò allora. Prima non s’era deciso perché, quantunque Amelio all’ospedale fosse entrato sporco piú di benzina che di sangue, dicevano che su quel letto nel sangue ci dormiva, ingessato e legato come un gabbione di cemento. Garofolo aveva visto la motocicletta e ne aveva avuto abbastanza.
Bagnanti ce ne sono sempre stati in questi paesi, e d’estate spuntano per la strada della collina, in mezzo ai canneti, e si voltano a guardare il mare. Può anche darsi che col tempo riempiano la città, e sul molo si vedano altrettante cabine.
Non eravamo piú giovani, eppure ci scappavano fatte delle cose inesplicabili. Ci trovavamo i pomeriggi della domenica su per quella scala buia, chiusa fra due pareti, e salivamo salivamo fino al pianerottolo che una finestra aperta sul cielo nudo rischiarava.
Il mio orrore del sangue cominciò il giorno che capitai presso un capannello di gente a cui accorrevano sempre nuovi passanti, e circondavano un tram…
Mio padre morí che avevo sei anni e io giunsi a venti senza sapere come un uomo si comporta in casa. Continuai già diciottenne a scappare nei prati, convinto che senza una corsa e una monelleria la giornata era perduta. Mia madre aveva cercato di tirarmi su duramente come farebbe un uomo, e ne aveva ottenuto che tra noi non usavano né baci né parole superflue, né sapevo che cosa fosse famiglia.
Quel tratto di mare violaceo davanti alla finestra rinfrescava tutta la stanza.
Mi accadde di svegliarmi all’alba, un poco inquieta e seduta contro il guanciale fissare un momento la finestra aperta, poi ricordo che mi venne da sorridere e accesi una sigaretta.
Neanche uno dei tre detenuti poteva sentire lo sciacquio del mare che quel giorno doveva esser un olio, ma tutti e tre stavan buttati sulle brande come nuotassero a morto. A occhi socchiusi, lo strepito e le voci dalla strada giungevano intrisi di sole e di sabbia e riempivano di mare torrido le muraglie della cella.
Dal cortile di cemento un giovanotto a gola tesa gridava al terzo piano di ombre e sprazzi di luce:
— State tranquilli, sono disoccupato.
Strillavano bambini in cortile e per le scale, e da tutti i sei piani di balconi brulicavano finestre illuminate, nei riflessi delle ringhiere.
Sui fienili e nelle stalle da un pezzo non volevano piú nessuno, perché poi succedeva che venivano gli altri a far rappresaglia. Davano un piatto di minestra e del pane solo a chiederlo, ma dicevano di andarselo a mangiare lontano; ci voleva un discorso ben grosso per trattenerli sulla porta. Ogni tanto pioveva e bisognava ripararsi sotto i ponti.