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Un uomo aveva un asino che per lunghi anni aveva portato senza stancarsi i sacchi al mulino; ma le forze gli vennero meno e diventava sempre più inetto al lavoro. Il padrone pensò di utilizzarne la pelle, ma l’asino capì che non soffiava buon vento, scappò via e prese la strada verso Brema: là, pensava, avrebbe potuto suonare nella banda cittadina.
Si era istituito un premio per il miglior corridore; anzi, due premii, uno grande e uno piccolo, per i due migliori corridori, — e non in una gara soltanto, ma durante tutto un anno.
Era il mese di maggio. Il vento spirava, sì, ancora freddo e tagliente; ma alfine la primavera era giunta anche in Danimarca, dove il suo carro arriva tirato dalle tartarughe: cespugli ed alberi, campi e prati, tutti lo dicevano: ecco la primavera!
Mimmo e Momo avevano deciso di scappare in America. E volevano scappare, non dopo aver letto libri di avventure, ma perché loro due, che fino dalla nascita si erano sempre azzuffati, in un punto solo si trovavano d’accordo: nell’odio per i libri.
In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colori della primavera, s‘ergevano una accanto all‘altra due grandi case disadorne, pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardini chiusi da siepi, posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa dimensione e forma. Chi vi abitava non aveva però lo stesso destino.
Primo, Secondo e Terzo, i tre fratelli Gelmini, erano andati a portare un cestino d’uva alla nonna. Non che la nonna non avesse dell’uva; anzi ne aveva tanta che i suoi pergolati erano più neri che verdi; ma di quella qualità, posseduta in tutti quei dintorni solo dalla famiglia Gelmini, non si sapeva se ce ne fosse altra al mondo.
In casa Borsino avevano proprio paura che l'aria si mangiasse quei due bambini tanto desiderati e venuti con tanto ritardo; e avevano paura del freddo, del caldo; insomma non saprei dire di che cosa non avessero paura.
Neanche da ragazzo Geri s’era mai capacitato di quei mendicanti che si presentavano alla porta vestiti decentemente – d’inverno, con un soprabito – e salutavano chiedendo l’elemosina seri, come chi attende a un affare e non ha tempo da perdere e lo fa capire.
Il castello, nel quale il mio domestico s'era deciso di penetrare a viva forza, anziché permettermi, deplorevolmente ferito come io era, di passare una notte all'aria aperta, era una di quelle costruzioni, indecifrabile miscuglio di grandezza e di melanconia, che hanno per sì lungo tempo innalzate le loro rocche eccelse in mezzo agli Apennini, tanto nella realtà quanto nell'immaginazione di mistress Radcliffe.