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La cosa avvenne quest‘anno, nell‘aprile che ci apportava uno dopo l‘altro dei giorni foschi, piovosi, con brevi interruzioni sorprendenti di sprazzi di luce e anche di calore. Rincasavo di sera in automobile con Augusta dopo una breve gita a Capodistria. Avevo gli occhi stanchi di sole ed ero incline al riposo.
Nessuno al mondo sa tante novelle quante ne sa Serralocchi. Quello sì, ne sa di belle! E come le racconta! Verso sera, quando i bambini sono ancora seduti a tavola, composti, o pure quieti quieti sui loro panchettini, capita Serralocchi. Sale la scala senza far rumore, perchè ha le scarpe di feltro; apre la porta pian pianino...
Vivevano in un villaggio due uomini dello stesso nome; tutti e due si chiamavano Cecco; ma l'uno aveva quattro cavalli, l'altro ne aveva uno solo; e così, per distinguerli, la gente chiamava Ceccone l'uomo dei quattro cavalli, e Cecchino l'altro. Sentirete ora quel che avvenne a questi due uomini, perchè la mia è storia proprio vera genuina.
Appena fu in condizione di poter uscire dall’ospedale, il maggiore Baredi scelse a dimora per la convalescenza la sua villa di Casaglia. Gli erano concessi due mesi a rimettersi del sangue perduto da una ferita che era stata quasi mortale, al petto, e da un’altra, al capo, che gli aveva deturpata la guancia sinistra per sempre.
La mente umana – incominciò Cutt-Hardy – è di una prodigiosa fecondità nell’escogitare forme di vendetta. Il desiderio di vendicarsi di un nemico, e nel medesimo tempo di sottrarsi all’occhio vigile della giustizia, ha reso fertile l’ingegno del vendicatore di delitti raffinati ed abilmente preparati.
A Mansueto non parea vero d‘essere assoluto padrone di quei campi che si stendevano rigogliosi innanzi a sè, di quelle bestie rinchiuse nella stalla, e della bianca casetta, semplice e modesta, che gli sorrideva inghirlandata dalla vite del Canadà.
In un misero villaggio sardo, il più povero degli abitanti si chiamava Quirico Oroveru, soprannominato Barabba, da una volta che aveva rappresentato questo personaggio in una sacra rappresentazione.
Ho conosciuto la scià Manin da fanciullo, nel mio paese sul mare. Semplice, nel vestire e nel fare, che non si distingueva dalle altre signore della sua condizione ed età. I suoi abiti erano scuri, neri più spesso, cioè quasi sempre, con filettature e guarnizioni varie, ma sobrie, secondo la foggia del tempo… no, d’un tempo che non era già più quel tempo. Mattiniera, sì, come tutte le donne e le ragazze di provincia, sapevo che la vedevano in giro pel paese, lesta lesta, alle prime luci del giorno. Andava alla prima messa, tutte le mattine; quella prima messa che per me era come se non la dicessero, e nemmeno l’annunziassero, ché mai sentivo – beati sonni della fanciullezza! – la campanella garrula a rompere con le sue squille veloci il silenzio ancora notturno, per chiamare i fedeli.
Belluca, un contabile mansueto, costretto in una esistenza soffocante, dopo aver sentito il fischio di un treno, che precedentemente non aveva mai notato, si ribella alle angherie del capoufficio...