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Non muoio neanche se mi ammazzano
Giovannino Guareschi
Introduzione di Silvia Pascale & Orlando Materassi.
Volutamente riprendiamo il titolo del libro che è assolutamente indicato per descrivere l’odissea degli IMI (Internati Militari Italiani).
Furono classificati dalla Germania di Hitler con questa dicitura i soldati italiani fatti prigionieri, catturati e rastrellati (sul territorio italiano, in Slovenia, Croazia, Albania, Grecia, Isole Egee e Ionie, Provenza e Corsica) dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei campi di prigionia del Terzo Reich. È la storia di oltre 600mila militari italiani negli Stalag della Germania nazista: i nostri soldati, sottufficiali e ufficiali che operarono Resistenza opponendo il rifiuto alla collaborazione con i nazisti, al costo di indicibili privazioni e sofferenze. In diverse migliaia di casi andarono incontro alla morte per fame, stenti e malattie.
La gran parte di questi campi era situata in Germania e Polonia, ma anche in Austria, Russia, Ucraina, Bielorussia, Rep. Ceca, Francia e Slovenia. I nazisti usarono ogni mezzo di persuasione verso i prigionieri italiani perché scegliessero l’esercito tedesco o i repubblichini di Salò per continuare la guerra, offrendo ogni vantaggio rispetto alla durezza della detenzione nei Lager. Agli Internati Militari Italiani, a differenza dei prigionieri di guerra, non venivano riconosciute le garanzie e le tutele previste nella Convenzione di Ginevra del 1929.
Il lavoro di Marcello De Caro è, come sempre premettiamo di dire ogni volta che partecipiamo a iniziative sugli IMI, un nuovo tassello per la composizione di un mosaico sull’internamento militare italiano dei nostri soldati fatti prigionieri dai reparti della Wehrmacht, la cui storia resistenziale è ancora poco conosciuta nel nostro Paese.
È una pagina di storia completamente assente nei testi scolastici di ogni grado: a ormai più di ottant’anni dal coinvolgimento dell’Italia nel secondo conflitto mondiale si tarda a capire il ruolo avuto dalle truppe del regio esercito e delle milizie fasciste in una guerra di aggressione e di italianizzazione nei territori occupati fino al 7 settembre 1943. Una riflessione che tarda ad arrivare, ma che nessuno fino ad oggi se ne è fatto efficace promotore a nessun livello, sia istituzionale, politico, storico.
La stessa commissione italo-tedesca istituita nel 2009 e i cui lavori si conclusero nel 2012, in una parte della relazione finale nel capitolo italiani e tedeschi tra il 1943 e il 1945 scrive:
“L’Italia da parte sua, deve riconoscere pubblicamente la stretta collaborazione fra i regimi dittatoriali di Mussolini e Hitler sotto il segno dell’Asse a partire dal 1936, la comune partecipazione alla guerra in Francia, in Grecia, in Jugoslavia, nel Nord Africa, e nell’Unione Sovietica dal 1940 in poi e il coinvolgimento di entrambe le dittature nelle più efferate forme di repressione nella RSI. Detto in altri termini, i tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto dei collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da parte loro, devono accettare di non essere stati soltanto vittime, bensì anche, in certa misura, complici e collaboratori.”
Partendo da queste riflessioni meglio si capirebbe la data cruciale del 25 luglio 1943, data importante della destituzione di Mussolini, alla quale fa riferimento Marcello De Caro all’inizio del suo lavoro, e si comprenderebbero i fatti accaduti fino all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Da questa data i tedeschi hanno modo di occupare quasi tutta l’Italia e di preparare i piani che permetteranno loro, dopo l’annuncio dell’armistizio (interpretato dal Reich, in maniera del tutto strumentale, come tradimento dell’alleanza) di disarmare, deportare e uccidere, in alcuni casi, centinaia di migliaia di soldati italiani, colti completamente di sorpresa e abbandonati dalle istituzioni che avrebbero dovuto prepararli alla svolta.
Le forze armate italiane terminano la guerra, o almeno questa prima fase di guerra, come l’hanno iniziata, nel segno dell’impreparazione e dell’inadeguatezza.
Sono eventi storici che aiutano a capire in maniera più approfondita la scelta antifascista fatta dai nostri soldati: quando vengono catturati viene loro chiesto di continuare la guerra accanto ai reparti tedeschi o di far parte del costituito esercito fascista della RSI che avrebbe reso loro la possibilità di riacquistare la libertà, ma la maggior parte di loro rifiuta.
Troppo spesso si è detto che la scelta di non aderire al nazifascismo sia appartenuta soltanto agli ufficiali, perché non accettarono di lavorare per il Terzo Reich. Anche i soldati si rifiutarono di aderire al Terzo Reich e alla RSI, ma vennero inviati automaticamente al lavoro coatto. E non è vero che alla truppa la richiesta di adesione sia stata fatta solo una volta, ma come si può leggere in molte testimonianze scritte di soldati semplici, la possibilità di accettare le proposte dei nazifascisti venne più volte respinta.
“Tutto l’inverno si è dormito senza il pagliericcio, ci è stato tolto, perché ad un’ennesima richiesta di arruolarsi nell’esercito fascista, si era risposto con un ennesimo rifiuto di tornare a combattere a fianco di quelli che sono i nostri odierni aguzzini.”
Secondo una ricerca svolta dall’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) le motivazioni che spinsero a dire no al nazifascismo furono il 30% per ragioni militari, in particolare gli ufficiali che avendo giurato fedeltà al regio esercito vollero mantenere il giuramento fatto, il 26% per ragioni etiche, il 24% per ragioni ideologiche, il 20% per motivazioni diverse.
Se mettiamo da parte il 30% per ragioni militari possiamo pensare che la scelta, in particolare per i soldati semplici, era dettata dalla consapevolezza del fallimento del regime fascista, delle sue menzogne, della illusoria certezza di una guerra breve e vincente, ma soprattutto era animata dalla voglia di tornare a casa volendo solo la pace, ripudiando finalmente una guerra imposta al popolo per manie di grandezza del duce e del re.
Una scelta fatta in completa solitudine da parte di una generazione nata e educata sotto il fascismo, al credere, obbedire, combattere, costretti a subire l’arruolamento e l’invio nei vari fronti di guerra, dove saranno partecipi non solo in azioni militare, ma di repressione di comuni cittadini, accanto alle milizie fasciste.
La consapevolezza della loro scelta non fu soltanto un no al nazifascismo, ma anche riscatto morale che rese dignità ad un Paese offeso per vent’anni dalla dittatura fascista e distrutto dalla guerra.
Storia di una resistenza
Gli internati militari italiani
di Marcello De Caro
Ciesse Edizioni
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L’autore
Marcello De Caro è nato a Roma, dove si è laureato con lode in Lettere con indirizzo storico presso l’Università La Sapienza approfondendo la storia degli Internati Militari Italiani. Dopo una lunga esperienza come docente all’estero è approdato in Emilia-Romagna, dove continua la sua attività di insegnamento, ricerca e studio. Fa parte dell’ANEI di Marzabotto.