(voce di SopraPensiero)

 

Spesso parlando del passato del nostro Paese ci dimentichiamo che molti contesti ebbero da subito connotati matriarcali. Ai primi del ‘900 nei luoghi costieri dove la principale fonte di sussistenza era la pesca, in particolare nella regione delle Marche, il ruolo delle donne era centrale, specie quello delle “retare”.

Erano donne temprate dalla fatica, che si occupavano dei lavori domestici, della famiglia e affiancavano tutte le attività collaterali alla pesca. Erano loro che confezionavano a mano le reti e rammendavano le dure stoffe delle vele. Una volta in porto i cordami delle barche andavano messi a bagno in una particolare miscela resinosa per evitarne l’usura. Lungo la battigia si raccoglieva la legna depositata dal mare che veniva conservata per essere poi riutilizzata.

Le donne andavano settimanalmente ad attendere l’arrivo dei loro mariti, e come ne veniva avvistato uno si correva a chiamare le altre. Tutte insieme scaricavano i pesci, a volte erano tonni che pesavano decine di chili, se li sistemavano in testa e li adagiavano sulla terraferma per prepararli alla vendita.

Erano le donne ad occuparsi del commercio dividendo il pescato secondo le qualità e pezzature e, dopo averlo sistemato sui carretti, andavano a venderlo nei paesi vicini o al mercato locale. Nei luoghi dove si svolgeva la vendita del pesce le donne utilizzavano una bilancia in ottone, non solo per la pesa ma anche per agitarla a richiamare la gente ad acquistare.

Una volta venduto il pesce, quello che restava poteva essere distribuito per il fabbisogno della famiglia. Spesso non ne rimaneva, oppure veniva barattato con frutta, ortaggi, o altri generi alimentari del mondo contadino.

Le donne si svegliavano che faceva ancora buio, pensavano subito a predisporre un pasto caldo per la famiglia con i pochi ingredienti in casa, curavano l’istruzione dei figli e mantenevano gli anziani, che avevano un ruolo molto importante per i più piccoli specie quando veniva loro a mancare in tenera età la figura paterna.

Nei periodi più caldi fuori dall’uscio delle case si raccoglievano i bambini giocando sotto all’occhio vigile delle mamme che, sedute su sedie spesso sgangherate dal tempo, cucivano o pulivano verdure.

Con il sopraggiungere del freddo le donne si raccoglievano nelle case, vicino alle finestre o accanto al fuoco, spesso cantando e raccontando storie.

Le retare mettevano una sedia di fronte a loro e vi avvolgevano una matassa di spago e corda di canapa che usavano per confezionare le reti con un lungo ago di legno, attorcigliandolo su cannucce di vario diametro a seconda della grandezza che le maglie dovevano avere. Componevano le maglie con rapidi e vigorosi gesti in modo da realizzare nodi molto robusti che non si strappassero durante la pesca. Un lavoro durissimo che logorava le mani e la schiena.

Una volta pronta la rete veniva stesa in terra, piegata più volte su sé stessa, caricata sulla testa e consegnata ai pescatori.

Vista la lunga assenza degli uomini in mare, le donne, oltre ad avere le redini dell’organizzazione familiare, intersecavano rapporti orizzontali che attraversavano più nuclei, sempre gravitanti intorno a figure femminili. Si solidificavano vincoli di vicinato, di gruppo e di parentela potenziando sentimenti di solidarietà che garantivano un guscio protettivo contro le avversità. Un sistema matriarcale che, in assenza degli uomini, esprimeva appieno la forza delle donne che solidali lavoravano con tenacia per mandare avanti interi  nuclei famigliari e animando la vita delle città.

 

Molte di loro erano vedove a causa delle sciagure in mare che si erano prese i mariti, talvolta anche i figli, quindi si rimboccavano le maniche aiutando le altre ad assolvere i lavori più faticosi.

Onore a queste donne che non trovano menzione nei libri, ma che con il loro sacrificio hanno rappresentato l’ossatura economica nel nostro Paese, tessuto rapporti sociali e creato un’identità culturale forte e degna di essere ricordata.

(di Agatha Orrico)

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