Sogni al campo
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 4 minuti
C’erano mattine che ci svegliavamo stranamente riposati, tanto riposati che ci pareva d’essere stanchi. Il corpo ci pesava come pesa nel sonno. Nelle reni e nei polpacci si schiumava un sangue torpido ma vivo. Guardandoci in faccia, ciascuno di noi pareva venire da lontano. Parlavamo del giorno, del bel tempo sperato, quando anche il cielo alle inferriate era coperto di nuvole. Ma nessuno osava dire ch’era proprio quel torpore e quella stanchezza del cielo a farci socchiudere gli occhi di compiacenza – una furtiva compiacenza che ci lasciava irresoluti.
Non so se piú tardi, aggirandoci tra le baracche, c’era qualcuno che raccontasse al suo compagno come aveva passato la notte. Un giorno mi chiesero: – Tu, che cosa hai sognato? – e non seppi rispondere se non che avevo dormito come un bambino, senza sogni.
Eravamo come bambini, fra quelle tristi baracche, e in attesa d’incolonnarci per l’uscita consueta chi si affannava a correre cercando qualcosa, chi sedeva scioperato su una cassetta o uno scalino. Scioperati eravamo tutti, ma alcuni non volevano saperne di abbandonarsi al torpore. Temevano di doversi poi riscuotere, a un richiamo esterno, per rientrare nel giorno. Eppure quel torpore era in noi, e sapeva di un’immensa fatica, durata chi sa quanto, e chi sa dove. Ci pareva, in quel risveglio, d’incespicare come chi esce da un mare dove ha nuotato fino all’ultimo lasciando cadere a piombo nell’acqua le gambe stremate. Qualcosa era certo accaduto, durante la notte. Avevamo sognato con tanta convinzione che adesso ogni ricordo era abolito e ci restava nel sangue soltanto uno stupore incredulo. Cosí il ronzío del silenzio fa pensare talvolta a un urlo, a un clamore tanto assordante che non si oda piú nulla.
Non ho vergogna di confessare che ho paura del buio – io che pure tenni duro in quel campo della desolazione, dove lo spuntare di una bella giornata ci faceva pena tant’era assurdo. Avevamo paura di noi stessi e del buio. E chi ha paura del buio non è che creda a prodigi esistenti. Semplicemente è uno che sa che il suo sangue e il suo pensiero possono scuotersi al contatto della notte e schiumare meraviglie come un cavallo il sudore. Accadeva di risvegliarci la mattina a poco a poco, senza una scossa, come una barca s’accosta alla riva; e si scendeva indolenziti guardandoci intorno, un po’ sorpresi, quasi che quelle eterne baracche fossero bensí le stesse ma i nostri occhi, lavati nel mare nero del sonno, non le riconoscessero subito. Chi di noi si sedeva fin di primo mattino, levando lo sguardo agli inquieti che s’affaccendavano sotto il cielo basso per le viuzze del campo, aveva l’aria di cercare tra i compagni quelli che nella notte si erano aggirati con lui e con lui avevano affrontato gli spaventi, le peripezie dei torbidi sogni. Nessuno ne parlava. Ci bastava di sentire affievolirsi in noi la meraviglia.
Parlavamo del giorno invece, e delle nostre occupazioni consuete. Siccome nulla in quel campo potevamo cominciare con la certezza di finire, seguivamo ogni volta gli umori del cielo, e nella sua serenità cercavamo di leggere avidamente la nostra, ma era ogni giorno una delusione perché le tristi baracche ce ne mostravano l’inutilità. Sole e vento ci esasperavano, come fanno ai malati. Poi col trascorrere della bella stagione imparammo a serbarci malinconici sotto il cielo piú terso, e ciò volle dir molto per la nostra pace, giacché tra noi soffrivano di piú quelli che parevano piú spensierati.
Forse di notte ci accadeva veramente di sperimentare ciò che di giorno tacevamo con tanta cura. Di notte il nostro corpo s’involava di là dall’ultima baracca, di là dalle colline silenziose, se pure nel sogno ci sono ancora baracche e colline e non invece un campo nero dove le cose traspaiono per luce propria e i terrori le fitte le ansie i ritrovamenti sono una cosa sola col tumulto del sangue che mugge nel buio. Gli eventi del sonno erano già dimenticati prima ancora che accadessero, e di qui nasceva forse la tremenda fatica per riportarli in luce, per riportare alla luce almeno quel sangue e quel corpo in cui s’erano avverati. Forse in certe notti chi ci avesse visto dormire non ci avrebbe riconosciuti. Una lampada assente moriva nella baracca: pareva oscillare, essa stessa preda del sogno. Nulla di ciò che la sua scarsa luce toccava, era vero. Erano veri i tumulti e i tuffi del sangue nell’assurda immobilità della notte, come di una ruota che rapita in un turbine appare ferma. Chi di noi si svegliava prima dell’alba, tendeva l’orecchio alla notte e, parendogli di esser fuori del mondo, attendeva con ansia la voce rauca delle sentinelle.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Sogni al campo
AUTORE: Cesare Pavese
DIRITTI D'AUTORE: no
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TRATTO DA: Feria d'agosto / Cesare Pavese. - 2. ed. - Torino : Einaudi, stampa 1973. - 194 p. ; 20 cm. - (Opere di Cesare Pavese ; 5).
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici