Recensione a: L.G. Manenti, P. Karlsen, “Si soffre ma si tace”. Luigi Frausin, Natale Kolarič: comunisti e resistenti, Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, Quaderni 45, Trieste 2019, pp. 221, euro: 20,00.
Deretoricizzare l’impegno antifascista e l’attivismo partigiano per approssimarsi più, e meglio, attraverso le trame sfuggenti e contorte dei percorsi esistenziali, al valore politico, ideale, ideologico, e fin anche etico (Pavone docet), di una scelta resistenziale non di rado pagata con la vita. Potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura dell’appassionante volume dedicato da Luca G. Manenti e Patrick Karlsen alle figure di Luigi Frausin e Natale Kolarič, comunisti adriatici medaglie d’Oro al valor militare della lotta di liberazione.
Pubblicato nella collana dei “Quaderni” dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, «Si soffre ma si tace» (Trieste 2019), titolo-motto di Frausin conforme all’abbozzo di un programma morale evocante sacrifici e riscatto, non colma solo una lacuna conoscitiva, investigando avvenimenti oggetto di rimaneggiamenti e manipolazioni ad usum delphini nella cornice della Guerra Fredda. Aggiornando e precisando la storiografia ferma ai contributi di Paolo Sema, Piero Panizzon e Milica Kacin-Wohinz (per fare dei nomi), riporta prepotentemente il focus interpretativo su due figure essenziali, e forse sottovalutate, per la comprensione della storia regionale in età fascista. Figure di vertice eppure non apicali a livello di direzione nazionale del partito, esemplari nell’illustrare i percorsi di militanza diffusa nel comunismo adriatico in virtù della posizione di quadri periferici di una straordinaria periferia insicura come quella giuliana, ascesa a nodo strategico nei delicati equilibri dell’Europa in guerra e postbellica.
Muovendo da una prospettiva biografica non ripiegata su se stessa, ma piattaforma di un’analisi a raggiera che investe gli ambiti politico e sociale, e senza smarrire la coerenza interpretativa della classica monografia, il volume si presenta suddiviso in due parti, rispettivamente firmate da Manenti e Karlsen. La prima dedicata a ricomporre gli anni della formazione dei due muggesani, seguendone il mutare della coscienza di classe in convinta militanza partitica (p. 16), fino all’ingaggio nelle battaglie contro lo squadrismo ed i soprusi del fascismo regime. La seconda, consacrata a sviscerare i travagliati avvenimenti della lotta di liberazione, delucidati con ammirevole chiarezza e puntuale logica storiografica, senza lasciare nulla alle tante, troppe, sovradeterminazioni memorialistiche del dopo.
L’esame degli anni della formazione di Frausin e Kolarič, da leggere in parallelo alle belle pagine dedicate da Karlsen al giovane Vittorio Vidali nel volume biografico del 2019, è proposto da Manenti tracciando un orizzonte analitico di dimensione europea, entro il quale ritaglia il giusto spazio al milieu muggesano-triestino, paesaggio antropologico decisivo – direi – delle successive, congiunte, scelte dei due esponenti del PCd’I.
Con abilità lo studioso riannoda i fili sottili di un repertorio documentario giocoforza eterogeneo e frammentato, scalzando l’immagine convenzionale di un proletariato monolitico e concorde circa i propri obiettivi, al contrario pericolosamente scisso nel quotidiano e negli immaginari nelle componenti italiana e slava (p. 35).
Integrando la piccola nella grande storia, e viceversa, Manenti ci ricorda la forza seduttiva del mito della rivoluzione bolscevica in loco. Una forza alimentata, secondo un reticolo comunicativo sconosciuto a gran parte d’Italia, dai racconti dei reduci austro-ungarici giuliani e istriani sovente ex prigionieri nel fu impero zarista. Racconti di vita e di prima mano; narrazioni di episodi vissuti o visti con i propri occhi, rilanciati come tanti exempla da replicare nell’aspirazione ad una rivalsa sociale, a metà tra il programma politico ed il desiderio prepolitico, che sul lungo periodo prepara culturalmente il sostrato alla successiva fascinazione staliniana, allorché, nei primi anni ’30, sotto l’onda d’urto di una politica repressiva mussoliniana intransigente, capillare ed efficace, proprio le aspettative riposte nell’uomo forte di Mosca e nella patria del socialismo rappresenteranno un salvagente emotivo per gli antifascisti incarcerati, al confino o costretti all’emigrazione in Francia, Russia, Svizzera, Belgio, Lussemburgo e America Latina.
Orientata da uomini come il gerente del quotidiano Il Lavoratore Anselmo Marabini, che della tortuosità delle biografie antifasciste è un singolare prototipo, e fortificata «da un’ideologia ferrea e d’immediata comprensione» (p. 18), allettante soprattutto per chi, tra miseria e sfruttamento, è scarsamente scolarizzato ma non digiuno di sapienza popolare, la devozione incondizionata al verbo comunista di Frausin e Kolarič si rivela una scelta, nello stesso tempo, totalizzante e non meramente difensiva, di contrasto all’aggressività fascista.
È nell’attivismo degli Arditi rossi, «drappelli di Trieste e Muggia combattenti in nome del proletariato ch’ebbero scopi offensivi e non furono un mero fenomeno di reazione alla violenza altrui» (p. 25), drappelli di cui Frausin è militante non di secondo rango, che si inverano due dei maggiori fenomeni maturati all’alba della guerra civile europea. Da un lato, emblema del tramonto della società dei notabili a favore della nascente società di massa, l’inedito protagonismo (anche in armi) del proletariato, demartinianamente presente e non più mero oggetto passivo delle decisioni delle cancellerie europee. Dall’altro, nel quadro di una complessiva svalorizzazione della vita umana proiettatasi dai campi della gloria, dove milioni di uomini sono stati mandati a uccidere e morire, gli effetti di quella profonda brutalizzazione delle relazioni politiche capace, a propria volta, di plasmare formae mentis e sensibilità facilmente disponibili alla radicalizzazione e alla violenza.
Come le vicende di Frausin e Kolarič sembrano attestare, si è trattato di processi di brutalizzazione dai percorsi differenziati seppur simili nell’approdo, non circoscrivibili alla sola guerra guerreggiata. Per il primo, classe 1898, l’abitudine «al sangue e alla fatica» della vita di trincea (p. 26) conosciuta sotto le insegne della Duplice monarchia, predispone, quasi automaticamente, all’impegno in prima persona nello scontro fisico con gli squadristi. Per il secondo, nato a Muggia e di un decennio più giovane di Frausin, la mancata sperimentazione delle sofferenze del combattente è rimpiazzata – seguendo un’intuizione di Marija Bernetič – dalla scoperta non meno drammatica, e patita sulla propria pelle di bambino, dell’estrema miseria alimentare, sanitaria e morale, di un fronte interno le cui realtà spoeticizzano inesorabilmente ogni immaginario eroico-glorioso del conflitto.
L’affermazione scopertamente violenta del fascismo di confine spinge i due muggesani, a distanza di pochi anni, a percorrere il medesimo tragitto di espatrio clandestino ed emigrazione. Frausin vivrà in prima persona la sollevazione socialista di Vienna del luglio 1927, e avrà occasione di visitare l’Unione Sovietica nel febbraio del 1930. Kolarič, dopo la rocambolesca fuga in Jugoslavia inseguito dal mandato di cattura fascista, attraverso la Svizzera, giungerà in Francia nella seconda metà del 1931, per esservi formato come quadro clandestino.
È il 1929 quando «Frausin è designato a entrare nel Comitato regionale veneto e cooptato come membro comandato nel Comitato centrale del partito». Passo formale preliminare affinché, promosso membro effettivo, sia «incaricato di dirigere il partito nella Venezia Giulia» (p. 56).
Gli anni dell’ascesa di Frausin a dirigente interregionale coincidono con quelli della svolta. Sollecitata dalla componente giovanile capeggiata da Luigi Longo, e non senza contrasti e dolorose rotture – si pensi all’espulsione di Leonetti, Ravazzoli e Tresso, seguiti più tardi da Silone – s’impone nell’ufficio politico la decisione di riportare il centro di gravità della direzione politica ed operativa del partito in Italia.
Nella congiuntura della crisi economica mondiale del ‘29, una convinzione domina: la certezza di poter favorire meglio, e solo dall’interno, il precipitare di quella prossima rivoluzione che l’Internazionale Comunista genuflessa alla componente staliniana predica imminente, mentre voci oggettivamente ai margini – gli incarcerati Gramsci e Terracini – invitano a guardare con cautela, mettendo in guardia dal rischio di analisi astratte e prive di concrete prospettive.
Seppur, forse, sottotraccia nelle pagine dedicate alla formazione dei due muggesani, gli avvenimenti collegati allo svoltismo, con le motivazioni ed i sentimenti propri ad un’azione segnata dallo stridere dell’iperbole rivoluzionaria con i devastanti esiti sul campo – pubblica sicurezza e OVRA arrestano implacabilmente giocando al “gatto col topo” – rappresentano anche per Frausin e Kolarič un passaggio biografico decisivo.
Nella quotidianità dell’azione clandestina, è il fideismo svoltista, intriso di sinistrismo figlio non ultimo delle controversie in corso nel gruppo dirigente sovietico, a fissare definitivamente l’identità ideologica dei due muggesani, fornendo, nel contempo, il carburante ideologico ed emozionale ad una prassi sovversiva destinata per entrambi a concludersi nelle maglie della polizia politica. A Pegli per Frausin il 04 marzo 1932; nel capoluogo giuliano per Kolarič il 18 luglio, tradito da un compagno ex guardia rossa in miseria, quando già le autorità di pubblica di sicurezza di Trieste, Gorizia, Capodistria e Fiume, lo hanno messo in cima alla lista dei ricercati, temendone la capacità di mobilitazione del malcontento delle campagne a maggioranza slava contro un regime fascista descritto ai compagni come omologo del capitalismo (p. 85).
Al di là di una certa agiografia postbellica circa il laboratorio pedagogico svoltista, è indubbio che Frausin e Kolarič sono in questi frangenti in prima fila nello sperimentare quella peculiare evoluzione dell’habitus (Bordieu) del militante comunista, declinato nell’ottica della fedeltà, del settarismo e della totalizzante dedizione al partito, che se avrà una successiva terminale proiezione nell’attivismo armato partigiano, a livello interpretativo risulta pienamente indagabile combinando i metodi della storia politica con gli strumenti della psicologia e dell’antropologia storica.
Gli anni del carcere e del confino a Ventotene e Ponza non fiaccano lo spirito combattivo dei due muggesani, come testimonia una toccante quanto irriducibile lettera di Kolarič alla madre riportata nel volume (pp. 95-96). Spirito indomito che si offre al comitato centrale del partito come sicura risorsa, allorché, prima col 25 luglio 1943, e poi con le vicende seguite all’armistizio di Cassibile, il quadro politico si rimette in movimento.
Vinte le avvilenti diffidenze delle nuove autorità badogliane, anche a Frausin e Kolarič è consentito lasciare il domicilio coatto, e rientrare, tra la fine di settembre e l’inizio di Ottobre, nella Venezia Giulia.
L’orologio degli esuli si ferma nel giorno e nell’ora del loro esilio: questo adagio mazziniano da Luciano Canfora ascritto all’esule Lev Trockji, può essere esteso anche a chi, invece dell’esilio, ha conosciuto galere e confino, e rientra nella piccola patria dopo decenni di assenza?
Seguendo la ricostruzione di Karlsen, il dubbio, nel caso di Luigi Frausin, gravato delle maggiori responsabilità dirigenziali, sembra proporsi con giustificata pertinenza e attualità, laddove si tratti di affrontare uno dei nodi più scottanti per il futuro della regione.
Nel quadro dei nuovi rapporti di forza tra antifascisti italiani e sloveni, con i tedeschi implacabili convitati di pietra pronti a giocare subdolamente le proprie carte, il tema della questione nazionale si pone con un’urgenza e con modalità alle quali le Tesi di Lione del ’26 innalzate da Frausin (autodeterminazione dei popoli, solidarietà internazionale, ecc.), solo in parte possono corrispondere con successo. Per altro, rispetto al mandato ricevuto dalla direzione di procedere ad una rifondazione del partito, rilanciando la centralità delle fabbriche e dei lavoratori industriali (p. 128), gli ostacoli che si pongono sono molti. Il caso Marcon Davilla è tra questi uno dei più famosi, rivelando, en passant, la fermezza di Frausin anche a fronte di scelte divisive e dolorose per i compagni. Non di meno i conflitti maggiori sorgono allorquando le tendenze egemoniche degli apparati resistenziali sloveni entrano in conflitto con la necessità dei comunisti italiani di rivendicare la propria presenza ed i propri obiettivi nel territorio, elaborando una politica originale e autonoma anche in merito alla futura appartenenza statuale della Venezia Giulia.
Si tratta di problematiche in progress, sottoposte a breve termine a variabili politiche e militari, che sul medio periodo minacciano di limitare fortemente la libertà d’azione dei comunisti italiani. Situazioni difficili destinate ad incancrenirsi col susseguirsi delle sconfitte nazi-fasciste e l’approssimarsi della fine del conflitto; e sulle quali Kolarič, fondatore e comandante dei GAP di zona, probabilmente in virtù della doppia ascendenza culturale italo-slovena, sembra mostrare uno sguardo più perspicace rispetto a Frausin, avendo chiaro che le frizioni tra resistenti italiani e sloveni non si circoscrivono a questioni di gretta prevalenza organizzativa (p. 152).
D’altro canto, visto dal lato opposto della barricata antifascista, il netto rifiuto espresso da Frausin a Mario Maovaz a Ventotene di cooperare alla fondazione di uno Stato indipendente dell’alto Adriatico (p. 73), preludio al distacco della Venezia Giulia dall’Italia, pur nella disponibilità a rettifiche di confine da concordare su un piano di parità tra le controparti, è posizione imperdonabilmente equivoca per i leader della resistenza slovena dopo due decenni di politiche italiane antislave.
Mi sembra questo uno dei punti decisivi della ricostruzione, essenziale per perimetrare in tutta la sua tragica, ingrata ed esasperante impotenza, il cul de sac di (in)agibilità propositiva nel quale Frausin è condannato ad operare. Per quante mediazioni e passi indietro si possano tentare, le soluzioni proposte per superare le frizioni emerse tra le forze resistenziali sono destinate ad infrangersi contro gli interessi e le opposte sensibilità nazionalistiche degli attori in gioco.
Schiacciato dalle circostanze e dagli equilibri militari sul campo, scoraggiato dalle pretese monopolistiche del KPS (il partito comunista sloveno, p. 164), e disarmato nell’azione dagli alleati nel CLN della Democrazia Cristiana e del Partito d’Azione, fermi alla difesa dei confini stabiliti col Trattato di Rapallo, e attardati, a loro modo con preveggente realismo, a denunciare il rischio di una predominanza titina orientata a distruggere «le possibilità assimilatrici della coltura [sic] italiana (…)» (p. 159), Frausin non trova sostegno nemmeno nelle istruzioni che riceve dalla direzione Nord della lotta partigiana. Istruzioni avulse dal singolare contesto locale, «prive di senso – come sottolinea Karlsen – quando si trattava di applicarle nella Venezia Giulia» (p. 139).
Il fallimento nei cantieri e nelle fabbriche di Trieste, Muggia e Monfalcone, dei grandi scioperi che si registrano, invece, nei principali insediamenti industriali dell’Italia settentrionale nel marzo del 1944, e la presenza di una classe lavoratrice addestrata da almeno tre decenni a diffidare della componente slava, ancorata in alcune sue schegge ad illusorie nostalgie asburgiche venate di anacronistico municipalismo, e pronta a prestarsi egoisticamente alle lusinghe materiali di un potere tedesco il cui unico obiettivo è la prosecuzione della produzione (pp. 134-35) – avvisaglie non equivocabili per dei navigati dirigenti di partito – amareggiano gli ultimi mesi di militanza dei due muggesani.
La terribile estate del 1944 metterà la parola fine al loro lavoro politico. Seguendo di pochi mesi la sorte di Kolarič, catturato nel maggio, Frausin è arrestato complice il tradimento di un compagno nell’agosto, torturato ed assassinato.
Si leggono qui alcune delle pagine più drammatiche e avvincenti del volume.
Mettendo ordine, con analisi dense quanto cristalline nell’ordito esplicativo, in decenni di voci, allusioni, ipotesi più o meno attendibili e congetture suffragate da fonti contestabili, Karlsen chiarisce avvenimenti capitali della storia giuliana dell’epoca.
Oltre al già rammentato episodio Marcon Davilla, del quale «sembra possibile concludere con sicurezza che l’uccisione (…) non fu decretata per la sua condiscendenza verso la politica del Kps» (p. 121), affronta l’incresciosa questione del Battaglione “Giovanni Zol”, e della fucilazione del suo comandante Darko Pezza da parte dei partigiani sloveni comandati da Karlo Maslo – fucilazione che avrebbe scosso nell’intimo (p. 101) il coriaceo Natale Kolarič.
Illustra e precisa la portata di quelle passate alla memoria collettiva come le propensioni antislave di Frausin, chiarendo, in subordine, la fondatezza delle notizie – insinuazioni è scritto – relative all’esistenza di frizioni tra i due dirigenti muggesani in merito al contegno da mantenere nei riguardi della guerriglia slovena (p. 110).
Passa in rassegna e smonta la controversa questione della delazione slava (p. 187); la calunnia, mai completamente disinnescata e ripresa nella motivazione ufficiale per la concessione della Medaglia d’Oro a Frausin da parte della Repubblica Italiana, che vorrebbe elementi slavi all’origine delle soffiate che portano le forze repressive dell’Adriatisches Küstenland a decapitare il vertice pro-ciellenista del partito comunista.
Ancora, individua in Bruno Kos/Cossi, già responsabile dell’intendenza e dell’economato della federazione comunista giuliana, l’indiziato principale (p. 172) reo di aver venduto Frausin agli uomini dell’Ispettorato speciale di polizia del commissario Gaetano Collotti.
Con Kos/Cossi, verosimilmente morto nei combattimenti intorno a Trieste nel 1944, i paragrafi finali ci mettono a confronto con tutta una gamma di personaggi dal profilo equivoco ma dal ruolo funesto nell’abbattere il vecchio gruppo dirigente del proletariato giuliano.
Personaggi come Boris Vidrih, impiegato del cantiere monfalconese e infiltrato della Gestapo e della polizia repubblichina; Mariuccia Laurenti, staffetta e confidente del dirigente comunista Vincenzo Bianco, con un cugino nell’Ispettorato speciale ed un fratello commissario politico partigiano; Slavko Zovič, agente doppio al servizio del governo monarchico jugoslavo in esilio e dei tedeschi; infine, Enzo Marsi, ufficiale di collegamento fra il comitato federale del PCI e la brigata Garibaldi “Trieste”, in contatto con Zovič fin dall’ottobre/novembre 1943.
Informatori, delatori, complici, traditori, doppio o triplo-giochisti. Ma per conto di chi e, soprattutto, perché e con quali finalità?
Tocchiamo qui con mano quel grado zero dell’indagine storica che, scontrandosi con le ragioni più intime, profonde e sfuggenti dell’esistenza individuale, obbliga lo studioso a deporre le armi analitiche, tacitandosi e lasciando in sospeso interrogativi ai quali la sensibilità e l’intelligenza di ogni lettore può provare, in via ipotetica, a rispondere.
In conclusione, tornando alla voce degli autori, «guardati sotto la luce della ricerca storica, Luigi Frausin e Natale Kolarič ci appaiono soprattutto come due combattenti visionari e intransigenti (…) fino all’estremo sacrificio della vita» (p. 9). Sacrificio che non avrebbe garantito loro la meritata pace, consegnandoli, per sempre e soltanto, alla commemorazione pubblica e alla storiografia. Nei veementi scontri politici del dopoguerra tra comunisti e fronte atlantista, e tra titoisti e cominformisti, proprio la loro vita e militanza sarebbe stata l’occasione di accuse e controaccuse, imputazioni, recriminazioni e biasimi contrapposti.
Dopo che in vita, anche in morte due vicende biografiche ancora al servizio della politica (p. 187).