L’autore nasce a Sant’Agata del Bianco, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, il 16 agosto 1924. Fa prima il muratore, poi si dedica agli studi conseguendo la maturità classica a Catanzaro e infine si iscrive alla Facoltà di Lettere presso l’università di Messina, dove sarà decisivo per il suo avvenire l’incontro con il critico letterario Giacomo Debenedetti, il quale gli farà pubblicare da Mondadori, nel 1956, il suo primo lavoro, una raccolta di dodici racconti intitolata “La Marchesina“. L’anno dopo uscirà il suo primo romanzo “La Teda“. Sarà l’avvio di una carriera lunga e costellata da vari riconoscimenti. “La Marchesina” riceve il premio Villa San Giovanni, nel 1956; “Gente in viaggio” il premio Sila nel 1966; “Noi lazzaroni”, del 1972, il premio Napoli nello stesso anno; “Il selvaggio di Santa Venere”, 1977, il premio Campiello. Trasferitosi a Firenze nel 1953 vi resterà fino al 1958 quando, sposata una ragazza svizzera, si trasferirà in Svizzera fino al 1964 allorché ritornerà a Firenze, e più precisamente a Scandicci. Collabora alle migliori riviste letterarie italiane: Paragone, Il Ponte e al quotidiano Nuovo Corriere di Romano Bilenchi (cui dedica il racconto “Per una manciata di more”).
Un contadino, Emilio Barca, che vende la quercia per racimolare un po’ di soldi per sfamare la famiglia, dice al mugnaio a proposito del confino a cui venivano destinati i dissidenti politici al tempo del fascismo: “Forse è meglio lì! Ti pagano e ti passano la spesa. Io conosco uno che, quando non ha da fare, va al municipio con un pennello e sporca il duce e il re. Lo arrestano e lo sbattono al confino; almeno ci guadagna la spesa.” L’ambientazione di questo libro si muove tra Reggio Calabria, Bianco, Brancaleone, Bovalino, Locri e altre piccole località.
Nel primo racconto ci troviamo a Bovalino, ma tutti i ritratti che incontreremo disegnano una condizione di vita diffusa. Strati ha uno stile piacevole, nitido; pur non facendo uso del dialetto (in qualche caso appena accennato) i dialoghi sono vividi. Nella prima parte del libro (diviso in tre, ciascuna con finalità proprie), la scrittura riesce a rappresentare l’umiliazione e il dolore della sua gente grazie al contrasto tra lo stile quieto, mai violento, quasi dolce e l’amarezza del suo contenuto. Come in Verga la roba segna l’asprezza dell’ingordigia, così in Strati la conquista del pane segna il fine dei poveri. La mancanza del pane è il loro tormento. Trovare di che sfamarsi è quanto di meglio desiderano avere. Il loro mondo resta limitato a questa esigenza primaria: “non ci siamo mai mangiato un pezzo di pane in santa pace. Tutto per il signor padrone era.”, dice un contadino, Stefano, alla moglie disperata. Ma la moglie non la pensa allo stesso modo: per soddisfare la fame, meglio subire le angherie dei padroni, anche se ci lasciano misere cose: “I figlioli anche con olive, con erbe, anche andando in cerca di nidi campavano.” Di solito è la moglie a rassegnarsi, mentre l’uomo soffre l’impotenza e la rabbia e sogna una affrancazione che lo renda libero: “Perlomeno lavoro con soddisfazione. Faccio quello che mi piace, e se il grano va male va male per volontà della natura e mi rassegno. Ma lì morivo di fame per lui, e mi veniva d’impazzire.” Stefano s’è messo a zappare e seminare un arido terreno appartenente al Comune: “Se le cose ci andranno bene, l’anno venturo ci sazieremo di pane.” Le imprecazioni sono sempre rivolte agli uomini che sfruttano gli altri uomini (“Questi sono i veri peccati: approfittare della miseria dei poveri.”), ma non a Dio, a cui la famiglia contadina si affida. Nei dialoghi di Strati si avverte questa fede presente nella miseria e confortatrice: “Dio, aiutami tu, oggi!” Le rare imprecazioni contro Dio sono subito rintuzzate dagli altri della famiglia come se da esse potesse sprigionare una più dura punizione.
I racconti sono rappresentazioni vivide di stenti e soprusi dai quali il cafone sembra non potersi mai riscattare. Non c’è futuro, non c’è speranza. Una forza nemica, malignamente avversa, frusta ogni fatica, soffoca il sorriso e la speranza ogni qualvolta affiorino sul volto e nell’anima del miserabile. Egli non sembra un uomo, e nemmeno uno schiavo né una bestia; è qualcosa di ancora peggiore: è la vittima di una sopraffazione sadica che si spinge fino alle soglie della consunzione e della morte, senza mai superarle, ma perpetuandole con un moltiplicatore che gira all’infinito, e marca con lame taglienti il proprio potere: “Zappavo e mi davano cinque lire al giorno, quando me le davano; e quelle cinque lire non bastavano nemmeno a lavare la mia stessa camicia lorda di terra e di sudore.”
Per chi ha ascendenze meridionali nelle vene, per chi ha conosciuto quei luoghi bruciati e aridi, ogni parola dei racconti è viva, ha una propria voce, e nella sua denuncia una fulgida bellezza. Difficile trovare una scrittura così solare e quieta che sia al contempo espressione di una vocazione tanto tragica.
La povertà e la fatica rendono aspri e sordi perfino i rapporti in famiglia. Si resta chiusi nel dolore. I figli sono sentiti come un peso e mal tollerati. Solo se faticano accanto ai padri e si massacrano le ossa zappando la terra non gli si contano le briciole di pane che mangiano. Si possono fare un po’ di soldi solo se si va volontari alla guerra, in Spagna o in Abissinia, a rischiare la vita: “Me ne sarei andato in Spagna e a quest’ora i soldi fioccavano.” La Storia passa nei racconti come una febbre, una vanità, un’occasione, un delirio. I giovani avvertono la necessità di cambiare le cose, ma spesso sono i genitori a frenarli: “Sapete quando stiamo bene noialtri? Quando comandiamo noi: quando voialtri padri non ci potete comandare.” E il vecchio: “Vediamo che riuscirete a combinare voialtri che avete queste belle idee in testa. Sapete che vi dico, io? Che noialtri una casa siamo riusciti a farcela, con sudore, con stenti. Ora vediamo cosa sarete capaci di fare voialtri. Alle prove vi aspettiamo: ché, parlare, è molto facile.”
Naturalmente scarpe o zoccoli sono un lusso. Difficile comprarsi abiti nuovi e si è fortunati se si riesce a vendere un po’ di frutta. Ma per fare questo si deve camminare per chilometri, farsi prestare, a pagamento, un mulo, e portare il resto delle ceste in spalla o sul capo, come fa la giovane Rosa: “Povera figlia mia! S’ammazza, s’ammazza! Non abbiamo mai pace, noi, mai! Eccola là, scalza, mal vestita, ma cammina come una mula! Quaranta chili in testa, per chilometri e chilometri.” E poi, una volta fatta tanta fatica, si hanno da sopportare le speculazioni dei bottegai che vogliono approfittarsi sul prezzo: “Ché chi non zappa si passa tutti i lussi, in questo mondo, mentre chi zappa crepa di fame e va nudo e crudo.”
Non c’è dubbio che Strati è un elegante raccontatore; riesce a dare luminosità alle sue storie, sì che esse possono bene accompagnarsi a quelle scritte da illustri predecessori come Verga e Pirandello. Anche il senso del burlesco non difetta a Strati, come nel racconto “Le pesche”, allorché la miseria fa fare dei brutti scherzi e ci si illude che la fortuna sia venuta a bussare alla nostra porta, e invece ci ha menato per il naso.
Come in Rocco Scotellaro, non mancano riferimenti all’occupazione delle terre che infervorò il Sud del dopoguerra ed ebbe gravi conseguenze per la povera gente. Polizia e carabinieri aprirono il fuoco, per esempio a Melissa di Catanzaro, uccidendo “tre compagni nostri sparati dalla polizia.” Alcuni furono costretti a fuggire all’estero, dove “Ci guardano come sporchi animali, come ladri e bestie da lavoro…”; “Credono che tutti gli italiani sono comunisti.” Il sogno dell’emigrante è quello di ritornare al paese e vivere su di un pezzo di terra che sia suo, e di non dipendere, così, da nessuno: “La storia di ogni terrone è un po’ uguale per tutti.”
È la parte più aspra e dolorosa del libro, la più intensa. Con “Per una manciata di more” comincia la seconda parte, in cui ogni racconto è dedicato a qualcuno. Il primo, come già si è scritto, a Romano Bilenchi, poi a Elio Vittorini, Silvio Loffredo, Giorgio Settala; quest’ultimo racconto è il più lungo, quasi un breve romanzo di X capitoli.
Don Uccio, figlio di un signore del luogo, “è scappato di scuola”; si unisce ad una masnada di ragazzi figli di contadini, divertendosi con loro. Grazie alla sua presenza, il gruppo può scorrazzare in lungo e in largo, senza attirarsi le ire di nessuno, anzi la presenza di don Uccio consente di ricevere doni e smancerie, ché altrimenti sarebbero state bòtte. Presta le sue scarpe a Pietro che “Non desiderava altro. S’infilò le scarpe, ma non ci sapeva camminare; e noi ridevamo di lui, che sembrava un gallo impastoiato.” Don Uccio è un’eccezione. Giocare coi cafoni non è cosa da signori, è come “Correre in un altro mondo, come un figlio di villani, insieme a quegli sforcati!”
In questa seconda parte non si avverte più il graffiare del dolore, esso si è lenito (qua e là si accenna alla vergogna di appartenere ad una condizione miserabile: “Ero certo che mi disprezzavano per i miei piedi nudi.”), giacché essa è riservata alle scoperte, al desiderio del viaggio, alla conoscenza. Lo spazio diventa libero, gli accadimenti, se hanno il sapore del quotidiano che continua a portare i suoi affanni (“aveva una spina in cuore, perché ancora non mi aveva potuto comprare le scarpe.”), esprimono anche lo stupore della scoperta e della novità. La scrittura si fa indagatrice, entra nei pertugi della vita, ne sminuzza le fragilità e le occasioni, talvolta si fa frenetica. Un padre porta per la prima volta il figlio undicenne, Pasquale, appena uscito dalle elementari, al lavoro, ad imparare il suo stesso mestiere di muratore: “Era la prima volta che uscivo dal paese e che vedevo tante cose nuove. Per me erano bellissime, mi lasciavano a bocca aperta; e mi pareva di essere già un altro.” Siamo in provincia di Reggio Calabria, a Castelforte: “Dalla porta di casa nostra si vedeva benissimo la Sicilia. Dove prima c’erano le montagne, ora c’erano dei gruppi di luci; e più in là un mare di luci.” È la città di Catania. Si coglie la meraviglia del ragazzo, nel veder schiudere davanti a sé un mondo sconosciuto e tanto vasto. Dormono in affitto presso una bella signora, Maria, che ha due figli, uno dei quali ancora in fasce. Il ragazzo la spia dalla serratura, è una scoperta: “Era assai bella, la signora Maria. A me piaceva guardarle il petto colmo e gli occhi che le sfavillavano.” La spia anche mentre si spoglia per “vedere la signora Maria nuda.” Conosce Antonietta, una coetanea figlia di un ricco signore. È la prima ragazzina che non bada alla sua condizione sociale. Sono cose belle, troppo belle per lui e gli arrecano, dopo la momentanea gioia, tristezza e dolore.
Gregorio, invece, viene lasciato solo dal padre sul cantiere: “Era la prima volta che rimaneva senza padre e si sentiva come smarrito tra gente sconosciuta, lontano dalla nonna, e la madre neanche se la ricordava. Morta quando lui era di due anni, l’aveva allevato la nonna, la madre di sua madre.” È la prima sfida con se stesso, il momento del primo distacco dagli affetti. Si pensa che nessuno dei cari ci voglia più bene: “neppure suo padre che l’aveva piantato là per due lire al giorno!”; “Ma non piangeva: gli s’induriva il cuore.” Deve resistere anche agli scherzi degli altri ragazzi, già avvezzi alle fatiche. Il racconto s’intitola “I calzoni di Gregorio” e, nella sua brevità, è tra i migliori, misurato e denso di dolore. La descrizione del ritorno a casa di Gregorio nel momento in cui si leva la luna, è di rara bellezza. Si avverte il fermento della vita sotto quel chiarore che attenua l’oscurità e le paure della notte.
La tradizione del raccontatore di storie rivive per un attimo nella figura di Carmine, un vecchio sordo che va di casa in casa a raccontare del terremoto del 1908 e dei bombardamenti dell’ultima guerra (“Il gatto, grosso e grigio, sonnecchiava accanto alla cenere calda.”); è un personaggio del racconto più lungo, diviso in dieci capitoli, “Avventure in città”. Questa volta siamo in casa di un massaro, di colui cioè che, grazie alle sue terre e al suo bestiame, dà lavoro ai contadini. Carmine fa lo spazzino, ma si è arricchito. A Reggio possiede tante cose che può barattare con il vino e il pane del massaro: soprattutto scarpe, camicie, giacche, calzoni americani, che in quei tempi di guerra scarseggiano dappertutto. È sufficiente che il massaro mandi il figlio Benedetto con lui a prenderle. Siamo nei mesi subito dopo l’8 settembre 1943. Gli Alleati avanzano lentamente nella Penisola. Mussolini ha costituito la Repubblica di Salò.
Qui, il tema del viaggio, delle scoperte, della conoscenza si fa più esplicito: “Lo ripetevo sempre a loro che io, presto o tardi, me ne sarei andato per il mondo.” La scrittura insistente, e tuttavia sempre delicata, di Strati vi si esalta con qualche malìa: “Si diceva che rubavano le valigie, specialmente se fiutavano che si portava della roba da mangiare. Si diceva che erano capaci anche di ammazzare.”
Vivide, quasi pirandelliane, le scene dell’attesa del treno che deve venire da Catanzaro e non arriva mai. Siamo nella stazioncina di Bianco, in inverno, e immersi nel freddo della notte. Nel buio fitto della saletta i personaggi parlano e non riescono a vedersi. Si scorge solo la brace di una sigaretta accesa. Benedetto ascolta: “Venivo a scoprire tante cose.” In realtà – ci fa capire Strati – va scoprendo la società con le sue magagne vecchie di secoli. Nulla è cambiato, anche se i suoi occhi si aprono per la prima volta sul mondo. Quando nella saletta si riesce ad accendere un fuoco per riscaldarsi, ecco che anche i volti s’illuminano e si offrono alla conoscenza del ragazzo. Seguono altre pagine molto suggestive, come quelle del viaggio in treno, una volta che finalmente è arrivato in stazione (ben alle sei del mattino!). Il treno è pieno di gente, ammassata alla meglio: “C’era un tale che pisciava dallo sportello, come se fosse in un deserto.”; “C’erano quelli attaccati fuori, agli sportelli. Ti dava l’idea di una serpe morta assalita dalle formiche, il treno.” Il ragazzo dal finestrino guarda intorno a sé: “Osservavo le case lungo la linea, i paesi appollaiati sulle colline, le case di campagna. Molte case lungo la ferrovia erano rovinate dai bombardamenti.”
Treni distrutti, aerei bruciati (“Alcuni erano col becco infilato nella terra e mi davano l’impressione di uccellacci morti per sete.”), bastimenti affondati sono lo spettacolo che si presenta agli occhi del giovane, che avverte la tristezza dei luoghi, pur sentendosi felice della realtà che va scoprendo. Reggio gli si rivela, sebbene ferita dalla guerra, come una grande città, tanto diversa dal suo paese: “Mi nasceva un grande desiderio di girare il mondo. Era tanto bello il mondo.” Viene in mente “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain, del 1884, e anche, in qualche modo, il viaggio in treno di Vittorini in “Conversazione in Sicilia”, del 1941.
A Reggio accadono scene tra soldati e ragazzi che ricordano “Sciuscià“, del 1946, di Vittorio De Sica. Nino, infatti, altro non è che un esemplare sciuscià.
Il racconto ha molti riferimenti impliciti, dunque, letterari e non; di ampio respiro tali da descrivere un ritratto compiuto ed esaustivo dell’epoca rappresentata.
La scrittura, ancor più che nei precedenti racconti, annota i movimenti che accadono, perfino i piccoli gesti, con una cronologia puntigliosa, come a penetrare persone e cose. La conversazione tra Benedetto e Rosmunda, la figlia della padrona della trattoria, e tra Benedetto e la giovane prostituta, registra sguardi e sentimenti secondo la loro progressione e alternanza reali. La fantasia li asseconda calandosi e trasformandosi in essi, e il risultato è ancora una volta lo stupore per le nuove conoscenze e le nuove scoperte: “Incominciavo ad aprire gli occhi, a vedere il mondo; e il mondo mi pareva grande, tanto grande ed era anche molto bello. Non l’avevo mai immaginato tanto bello.” E anche: “Pensavo che la cosa più bella di questo mondo è coricarsi con una bella donna, avere una bella donna per moglie.”
Pur in mezzo alla povertà, alle macerie e ai morti provocati dalla guerra, la scoperta del mondo prevale sul dolore e arreca gioia e speranza. Scopre anche il cinema, vi entra e guarda il film “due volte e mezzo.” Quando esce, si sente pedinato da un uomo nero, e a noi viene in mente, chi sa perché, Pinocchio inseguito dal Gatto e dalla Volpe incappucciati.
Il vento che proviene dallo stretto, la Sicilia che si scorge dall’altra parte del mare, Messina, Catania, fanno di Reggio una città di frontiera, come i luoghi della Liguria cara a Biamonti. Essi accendono la fantasia e smuovono i sogni: “Guardavo anche la Sicilia e pensavo di andarci anche lì, un giorno. Pensavo di girare il mondo, un giorno, se mi era possibile.” L’Etna è “bianca di neve.”; “Le nubi sui monti di Sicilia si allargarono un’altra volta per il cielo e l’oscurarono. Dal mare spirava un freddo secco, penetrante.”
La guerra, oltre che dalle macerie, è resa dai treni ridotti a ferraglia e con ritardi spaventosi. Essi sono assaliti dalla gente che viaggia soprattutto per procurasi qualcosa da mangiare e spesso invece non ha nemmeno i soldi per pagare il biglietto al controllore.
Quando Benedetto fa ritorno al proprio paese si trova di nuovo su uno di questi treni, dopo averlo atteso per ore alla stazioncina di S. Gregorio.
I suoi occhi guardano, studiano, scoprono, come già era accaduto all’andata. Alle varie fermate la gente sale e scende, e nel volto ha segnato il proprio passato di sofferenza. Benedetto è anche così che conosce il mondo: il suo stupore per le novità e le bellezze incontrate si amalgama con il dolore. Avvertirà ancora una volta il desiderio della donna quando si siederà accanto a lui Rachele, una ventenne che si prostituisce agli americani e che gli riserva molte attenzioni: “non desideravo altro che coricarmi con una ragazza.”
Il racconto procede con lo stesso ritmo lento del treno che porta il suo carico di umanità: sembra trasfigurarsi nel treno, nei suoi vagoni, nel suo “carro” merci, carico di pietrame dove sono ammassati i viaggiatori su sedili fatti di sassi: “Ma su queste pietre un individuo si rovina le ossa!” Sono seduti allo scoperto e si mette perfino a piovere: “Si udiva il rotolare del treno sui binari e l’ansimare della vaporiera. Si udiva il rumore della pioggia cadere sui nostri panni, sui nostri corpi.”
Arrivato a casa, troverà il modo di fuggire e ritornare a Reggio, poiché Reggio gli si era presentata come il paradiso del piacere e della libertà, ma non sarà più come la prima volta. Contrariamente, ossia, a quanto accade a Huckleberry Finn, il cui entusiasmo rimarrà sempre intatto e inviolabile.
Nella terza parte lo stile delicato di Strati assume una coloritura più intensa, da novella della migliore tradizione, qualunque argomento tocchi, finanche la tragedia. Vi si annotano accenti che vanno dal Boccaccio, a Chaucer, a brani del film “Il settimo sigillo” di Bergman, e perché no?, perfino alle tragicommedie shakespeariane. Così è in particolare nel racconto “Una fine brutta”. Anche “Don Michelino il barbiere” e “Limitri” esprimono la furbizia popolare tesa a schernire e ad approfittare del prossimo bonaccione e ingenuo. Per non parlare dell’ultimo delizioso racconto, che dà il titolo al libro, “Gente in viaggio”, in cui, su di un traghetto che fa la linea Messina – Reggio, e poi anche sul treno, una “littorina”, che prenderà a Reggio per tornare al paese, un ragazzo si diverte alle spalle di un cafone, “un povero ignorante”, e la loro conversazione nonché il cicaleggio sul treno, mescolano alla frivolezza del gioco la severità di una costumanza e di una mentalità rimaste immobili nel tempo. È una scrittura saporosa, quest’ultima, che corona una scelta antologica rivelatrice di uno Strati in grado, sempre assistito da uno stile semplice e pulito, di offrirci una narrazione sapientemente modulata su più registri.