Questo racconto è liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, in particolare allo scontro tra fascisti e partigiani avvenuto a Manciano, un piccolo centro della Maremma toscana. Un monumento ai caduti, all’ingresso del paese per chi proviene da Roma, ricorda la fucilazione per rappresaglia di alcuni civili tra cui un ragazzo di 14 anni.
Lo chiamavano Rucio, che nel dialetto del suo paese significa granellino di polvere, perché era piccolo di statura e magro come un uscio. “Rucio uscio” gli dicevano i suoi compagni per prenderlo in giro, scherzando.
Scherzando naturalmente, perché a Rucio tutti volevano bene e poi lui era un ragazzino risoluto, che sapeva farsi rispettare. Se capiva che qualcuno voleva prenderlo in giro sul serio ci metteva poco a usare le mani in maniera svelta.
La famiglia di Rucio era abbastanza numerosa, aveva due fratelli più grandi e una sorella anche lei più grande, Matelda. Era una famiglia di contadini in Maremma, poveri, con i genitori che avevano spesso le febbre di malaria.
I fratelli di Rucio erano alla macchia, erano partigiani e quell’inverno del 1944 erano impegnati in una dura battaglia contro i tedeschi che invadevano tutta la zona, compresa quella del monte Amiata. Qui, a qualche chilometro dal monte, era il villaggio di Rucio, sul cucuzzolo di una collina.
Una mattina si alzò tardi e ancora assonnato uscì sulla piazza. Teneva le orecchie tese perché se avesse sentito il rombo di un aereo c’era il rischio di bombardamento o di mitragliamenti e doveva correre al rifugio.
Gli vennero incontro due persone in camicia nera che lo salutarono con il saluto fascista. Rucio rispose al saluto e stava per andarsene per i fatti suoi ma uno dei due uomini urlò un “Ehi tu” tutt’altro che gentile, che non ammetteva discussioni.
Rucio si fermò. L’uomo che l’aveva chiamato pareva un gigante. Alto, grasso, con la testa grande, con naso, occhi e bocca sproporzionati. L’altro era più normale di statura, ma sulla guancia sinistra aveva la cicatrice di una ferita che doveva essersi rimarginata da poco.
I due uomini si fermarono di fronte al ragazzino e il gigante gli chiese come si chiamasse. Rucio glielo disse e il gigante si lasciò sfuggire una risata grassa.
– Vuol dire che conti poco se ti chiamano con questo nome. A me mi chiamano Catone perché sono un capo camerata. Questo che sta con me si chiama Anicio, è il mio vice, insieme comandiamo una squadra di sei uomini!
– Tanto piacere! – disse Rucio che non sapeva che altro dire.
– E tu sei un bravo Balilla?
Rucio che conosceva quella parola riferita a un tipo di automobile si lasciò sfuggire: – Ma Balilla è la macchina dei fratelli Ivo a Paride.
Spiazzati dalla risposta i due fascisti si scambiarono un’occhiata.
– Lasciamo perdere – fece Catone – a noi interessa che tu ci dica dove sono i partigiani. Li conosci?
– No! – rispose con troppa risolutezza Rucio.
– Non è possibile. Tutti in paese sanno qualcosa dei partigiani!
– Mai saputo di partigiani in vita mia!
– Eh, questa è una bugia! Però puoi rimediare. Guarda da domani noi alloggeremo in quella casa lassù – disse Catone indicando l’edificio scolastico.
– Nella scuola? Lei è un maestro?
Altra risata, più grassa della prima.
– Maestro? La scuola è chiusa, c’è la guerra. Ma scommetto che tu sei contento di non andarci. Però ti diamo un incarico di grande fiducia. Tu informati sui partigiani, chi sono, dove sono, qualsiasi cosa. E vieni riferircelo, ti daremo un bel premio.
Rucio capì che la conversazione poteva finire lì, si affrettò a fare il saluto fascista e non appena i due risposero si girò e fece per correre via. Ma quelli lo richiamarono.
– Siamo a gennaio e scommetto che in famiglia avete già ammazzato il maiale…
– No – rispose sempre risoluto il ragazzo – Ha detto mio padre che il nostro maiale deve ingrassare ancora un po’. Lo ammazzerà tra un po’ di giorni!
– Bravo! E tu faccelo sapere quando lo ammazzano, che veniamo a mangiare i fegatelli, ci piacciono tanto!
Rimasto solo Rucio fu invaso dalla paura. Quei due si aspettavano che lui portasse informazioni sui partigiani. Come avrebbe mai potuto? Aveva due fratelli tra i partigiani e non poteva certo fare la spia. E poi anche se non avesse avuto i fratelli tra i partigiani si sarebbe guardato bene dal farlo, sapeva che tutta la sua famiglia, anche se non lo diceva apertamente in giro, era contro i fascisti e anche contro i tedeschi che invadevano l’Italia e sembrava non volessero andarsene a casa loro.
Con il cuore che gli batteva forte giunse a casa, un casolare di campagna situato a un paio di chilometri del paese. I suoi genitori non c’erano, c’era Matelda, la sorella. Meglio così, lui con Matelda aveva un buon rapporto e non esitò a raccontarle il fatto e le paure che l’avevano angosciato.
– Tu devi restare lontano da Catone e i suoi sgherri, ci penserò io a mantenere i contatti con loro – gli disse Matelda in tono rassicurante – A noi conviene non metterci apertamente contro fascisti e tedeschi. Anche se sarebbe bene starne il più possibile alla larga!
– Ma sono loro che mi si sono appiccicati!
– Sì, hai ragione. I fascisti hanno dei sospetti, sanno dell’esistenza dei nostri fratelli e quando ci chiedono notizie diciamo che sono partiti per la guerra e non sono più tornati. Loro non ci credono! Bene, ma noi faremo così. Per domani babbo ha chiamato il norcino che macellerà il maiale. E domani io mi recherò in paese per comprare il sale. Cercherò di incontrare Catone e Anicio e di invitarli a mangiare i fegatelli, magari per dopodomani.
– Ma quelli l’hanno chiesto a me di…
– Tu hai solo 14 anni e non sei obbligato mantenere alcuna promessa. Non si vergognano quei due a chiedere la collaborazione di un ragazzo?
– Non mi sembra che mostrassero vergogna! – ribadì Rucio – E poi anche tu hai solo 18 anni, anche tu non puoi collaborare e sei anche una donna…
Matelda scosse la testa e sorrise al fratello.
– Quanti anche! Ascoltami bene Rucio, tu domani non sarai qui così eviti di incontrare Catone. Per te insieme a babbo e a mamma abbiamo pensato di affidarti un compito. Mamma oggi ha fatto il pane, tornerà dal forno con le pagnotte fresche. Domani stesso prenderai il gregge di pecore e lo porterai a Campo Grande…
– Che c’entra il pane con le pecore e il gregge?
– C’entra. Perché chi ti vedrà penserà che vai a pascolare le pecore. Invece avrai uno zaino con le pagnotte fresche. Tu aspetterai e prima del tramonto del sole verrai contattato da uno o due partigiani. Verranno a prendere il pane che in montagna sembra che scarseggi!
– Devo aspettare il tramonto del sole? Ma rischierò di perdere le pecore… Come tornerò a casa con il buio?
– Domani c’è la luna piena e puoi tornare anche dopo calato il sole. Portati con te Tala, ti farà compagnia.
Tala era il nome di un cane pastore che Rucio amava portare con sé. Il ragazzo non replicò. L’idea di dover fare il pastore non gli piaceva molto, ma il fatto di non dover incontrare di nuovo Catone lo fece sentire sollevato. Accettò la proposta della sorella e uscì di casa più tranquillo per farsi un passeggiata per i campi.
Al mattino Matelda si preparò per andare a comprare il sale in paese. Abbandonò i pantaloni che in genere portava in campagna, si mise gonna e camicetta e, poiché spirava un leggero vento di tramontana, indossò anche il suo solito cappottino di lana. Era abbastanza presto e sembrava una buona giornata di sole. L’ultima nevicata seria risaliva a più di una settimana e la neve si era sciolta quasi completamente. Da qualche giorno nel paese sembrava regnare anche un po’ di tranquillità, i bombardamenti aerei degli alleati si erano diradati, immaginò che forse gli americani l’avevano capita che quando gettavano bombe contro i tedeschi morivano tanti italiani.
Matelda era contenta che con la scusa del sale potesse recarsi in paese ed evitare così di assistere all’uccisione del maiale, la macellazione degli animali l’aveva sempre turbata. Si incamminò per la strada e giunta alle prime case del paese, proprio oltre una curva, si trovò di fronte un posto di blocco tedesco. Fece per tornare indietro ma si rese conto che era troppo tardi. Cinque tedeschi armati di fucili mitragliatori fermavano sia chi cercava di uscire sia di entrare nel paese e se lei fosse tornata indietro le avrebbero sicuramente intimato l’alt, forse le avrebbero addirittura sparato. Si fece coraggio e andò avanti. Una ventina di persone erano già state fatte disporre lungo il muro di una casa disabitata e, senza alcuna spiegazione, un tedesco indicò con la punta del fucile che anche lei doveva raggiungere gli altri. Un altro le intimò di non parlare.
Lei aveva una gran voglia di capire quello che stava succedendo e stava per chiedere spiegazioni a qualcuno del gruppo, ma notò che un uomo che provò a rivolgersi a un altro fu raggiunto da un tedesco e colpito alla testa con il calcio del fucile. Di fatto si trovava prigioniera e nel divieto assoluto di parlare.
Passò il tempo, una donna che aveva con sé un bambino cominciò a piangere. Il bambino, disse, aveva fame. I tedeschi ignorarono la richiesta. Un vecchio chiese di potersi allontanare per fare un bisognino, gli risposero con una risata che avrebbe potuto pisciare lì, davanti a tutti. Il povero vecchio se la fece addosso.
Passarono le ore e qualche sussurro tra i prigionieri cominciò a circolare e così Matelda apprese la grande notizia: al mattino i partigiani erano entrati nel paese e, sotto gli occhi dei tedeschi, avevano avuto uno scontro a fuoco con i fascisti. Catone era rimasto ucciso. Un partigiano ferito a una gamba era stato preso prigioniero dai tedeschi. Nessuno dei tedeschi, che erano intervenuti in ritardo nel conflitto, era rimasto ucciso.
Matelda fu comunque presa dal terrore. Temeva non solo che il partigiano ferito fosse uno dei fratelli, ma anche una rappresaglia dei tedeschi.
Le cose sembrarono andare meglio del previsto. Dopo quasi quattro ore di fermo alcuni prigionieri furono liberati, per primi le donne e i bambini. A Matelda fu comunque vietato di entrare in paese e dovette tornare senza sale.
– Lasciate stare i fegatelli – disse ai genitori non appena entrata in casa – Catone è stato ucciso stamattina all’alba.
Nel frattempo Rucio era partito di buon mattino per Campo Grande spingendo dinnanzi a sé il gregge. Tala era alta e bianca e si confondeva tra le pecore, ma era lei a guidarle e a mordicchiarne qualcuna se si attardava o se deviava dal percorso.
A Campo Grande Rucio accese il fuoco, arrostì qualche salsiccia che mangiò con il pane ancora fresco. Per bere si accontentò dell’acqua del ruscello. Tala guardava il gregge e il ragazzo si mise al riparo dal vento dietro una roccia. C’era un sole caldo e il ragazzo si addormentò tranquillo.
Al suo risveglio il sole era ormai basso sull’orizzonte. Nessun partigiano si era visto. Rucio aspettò ancora fin quando il sole non scomparve dietro la montagna e pensò che forse, siccome i partigiani non si erano visti, era ora di tornare a casa. Radunate le pecore, si rimise lo zaino in spalla e fece per mettersi in cammino. Ma qualcuno dietro di lui gridò:
– Alto là ragazzo, mani in alto e voltare lentamente.
Rucio ubbidì e si trovò davanti due tedeschi, uno dei quali aveva il mitra puntato contro di lui. Tutto avvenne in pochi secondi, i tedeschi gli imposero di mettere a terra lo zaino, lo aprirono e sorpresi del contenuto gli domandarono per chi erano quelle pagnotte di pane. Il ragazzo disse che erano per il suo pranzo e per la sua cena ma i due tedeschi si misero a ridere.
– Tu avere molto appetito vero, ragazzo? – disse uno dei due ironicamente.
– Tu ora – aggiunse l’altro – venire con noi al comando e spiegare per chi essere tutto questo pane. I partigiani hanno fame, vero?
Costrinsero il ragazzo a ricaricarsi lo zaino sulle spalle e poi lo presero uno per un braccio e uno per l’altro braccio. In mezzo ai due tedeschi, alti il doppio di lui, Rucio si sentiva impotente come un granello di polvere in mezzo a due pietre. Tuttavia l’idea di tentare la fuga, di tentare di liberarsi gli passò per la testa. Ma uno dei tedeschi sembrò avergli letto nel pensiero perché disse:
– Se tu tentare fuga noi sparare te. Pum! Pum!
A casa di Rucio era intanto arrivata la notizia che confermava l’uccisione di Catone e del ferimento del partigiano. Era circolata la voce che il partigiano ferito era uno sconosciuto, un russo aveva detto qualcuno. C’era dispiacere, ma il fatto che non si trattasse di un paesano o di un familiare fece tirare un sospiro di sollievo alla famiglia.
Matelda aveva passato la giornata a riordinare la casa. La macellazione del maiale aveva creato un certo disordine. Ma tramontato il sole, visto che Rucio non tornava, disse ai genitori:
– Vado incontro a Rucio. Il cielo si è rannuvolato e ha coperto la luna, potrebbe avere qualche problema con questo buio.
Matelda giunse a Campo grande dopo oltre mezz’ora di buon cammino. Non aveva incontrato Rucio, trovò invece le pecore che brucavano adunate in un angolo del campo e sorvegliate da Tala, che abbaiò di gioia quando vide arrivare la padrona. Ma Rucio non c’era. Lo chiamò, ma nessuno rispose al suo richiamo.
Per fortuna le nuvole dal cielo erano state spazzate via dal vento di tramontana e la luna illuminava tutto con la sua luce fredda. Che era successo a Rucio?
Mentre si faceva queste domande udì il suono di un campano proveniente da una stradetta che, dal bosco, sbucava in Campo grande. Comparvero alcune capre e un pastore, Matelda lo vide bene perché il pastore fumava un sigaro.
– Voi Berto? – esclamò Matelda dopo che lo ebbe riconosciuto.
– Io, sì – rispose l’uomo. Non era giovanissimo, forse aveva superato la sessantina.
– Portate di notte le capre al pascolo?
– Hum – fece l’uomo a spirò profondamente il sigaro – Di notte purtroppo. Molte delle mie capre hanno i capretti e i capretti piacciono ai mangiapatate. L’altra settimana me ne hanno rubati due quei ladroni! Cerchi Rucio, per caso?
– Certo, era venuto qui questa mattina e stasera non è tornato. Deve essergli successo qualcosa.
Berto aspirò ancora un’altra boccata di fumo.
– So io quello che gli è successo…
– Ditemi, si è sentito male? È stato portato all’ospedale? Parlate, non fatemi stare in pena!
– Lo hanno preso i mangiapatate purtroppo. E lo hanno portato al comando. Ho visto tutto da lontano e non ho potuto farci niente.
– Al comando? E perché?
– Questo non lo so, ho visto che gli hanno sequestrato uno zaino…
Matelda capì al volo. Dopo la guerriglia della mattina, i tedeschi si erano mobilitati anche sulle campagne, i partigiani avevano trovato rischioso scendere dalla montagna e avevano rinunciato al pane.
Ma ora i tedeschi avevano arrestato Rucio per interrogarlo.
– Dov’è il comando? – incalzò Matelda – Ci vado subito e faccio rilasciare mio fratello con la forza! Sono pazzi? Che vogliono da un ragazzo?
– Calmati – gli disse l’uomo – Se ti presenti al comando rischi di essere arrestata anche te. Invece ti do un suggerimento.
Berto tacque per qualche istante, stava riflettendo. Infine soggiunse:
– I prigionieri vengono portati al comando che è in una palazzina ai margini del paese. Dopo la registrazione, vengono portati alle prigioni dove poi saranno interrogati e anche torturati. Le prigioni distano almeno trecento metri dal comando e i prigionieri sono accompagnati di regola da un solo tedesco… Se sei furba forse riesci a liberare Rucio. Hai un’arma con te?
– No – confessò la ragazza.
Ci fu un altro silenzio dell’uomo. Che alla fine fece con decisone mettendo una mano nella bisaccia:
– Te ne do una io e… È facile da usare, sai? È carica e basta premere il grilletto. Buona fortuna.
Ciò detto tirò fuori una pistola e la porse alla ragazza.
Poco dopo Matelda, con la pistola nella borsa, correva seguendo le indicazioni di Berto verso la palazzina del comando tedesco. Si accorse che Tala la stava seguendo ma non ci fece caso, il cane le avrebbe fatto compagnia.
Non tutto si svolse come previsto. Individuata la palazzina del comando e le prigioni Matelda si nascose in un cespuglio a metà tragitto. Dovette aspettare un bel po’, ma poi avvenne quello che Berto aveva detto, dalla palazzina uscì un tedesco che quasi trascinava Rucio verso le prigioni. Il povero ragazzo camminava a fatica, era evidente che al comando lo avevano picchiato e maltrattato. Mentre i due si avvicinavano la ragazza puntò la pistola e prese la mira. Non appena il tedesco fosse stato abbastanza vicino lei gli avrebbe sparato al petto, poi avrebbe liberato Rucio e i due sarebbero fuggiti. Tala si era accovacciata accanto a lei e tutto sembrava andare bene.
Ma a un certo punto Tala, visto Rucio prigioniero e strattonato, lanciò un guaito. Allarmato il tedesco vide il cane, si volse verso il cespuglio e vide Matelda. E vide, se non la pistola, il brillare di un’arma alla luce della luna. Con una spinta il soldato gettò a terra Rucio e si gettò a terra lui stesso, sfoderò la pistola e la puntò verso la ragazza.
Troppo tardi, con un balzo Tala fu sull’uomo e lo azzannò alla gola. Nessun grido uscì dal petto del tedesco.
Non appena Matelda si rese conto della situazione corse verso Rucio, lo sollevò da terra, avrebbe voluto abbracciarlo ma sapeva che a quel punto bisognava solo muoversi in fretta. Fece in tempo però a dirgli:
– Corriamo via Rucio e non guardare. È orribile, Tala a squarciato la gola al tedesco.
Matelda prese per mano il fratello e tirandolo forte cominciò a correre. Qualcuno tra i tedeschi doveva essersi accorto dell’accaduto, perché i due ragazzi sentivano dietro di loro urla e parole urlate in tedesco.
Si diressero istintivamente verso la montagna. Sapevano che i tedeschi avrebbero avuto difficoltà a inseguirli da quella parte, perché i loro autoveicoli non potevano muoversi sui sentieri di montagna.
Matelda si accorse che Rucio aveva un labbro spaccato da cui perdeva un po’ di sangue. E zoppicava anche un po’. Ma non la smise mai di incitare il fratello e trovare le forze. Dopo aver camminato tutta la notte, all’alba i due si fermarono a riprendere fiato. Si accorsero che Tala era con loro.
La luna era ormai tramontata ma ormai c’era la luce del sole. Matelda accarezzò il fratello e notò che aveva anche dei lividi al volto.
– Ti hanno picchiato?
– Beh, volevano sapere dove si trovavano i partigiani e i loro nomi. Io ho dato un calcio all’ufficiale e…
Mentre Rucio raccontava il suo incontro con i tedeschi, i due continuavano a salire. Furono fermati da una sentinella vestita con abiti borghesi.
– Finalmente eccoli i partigiani! – disse Rucio. Poi rivolgendosi alla sorella esclamò: – Le pagnotte di pane di mamma se le sono trattenute al comando tedesco. E non c’è nemmeno speranza che quel pane faccia loro venire il mal di pancia.
La Maremma venne liberata dagli alleati nel giugno del 1944. Fino a quel momento Rucio e Matelda dovettero restare nascosti in montagna, assegnati a una banda partigiana, perché i tedeschi avevano messo una taglia sulla loro testa.
Quando poterono scendere al paese, seppero che non tutto era andato bene. Per la morte del tedesco ucciso da Tala c’erano state rappresaglie e alcuni innocenti erano stati fucilati dai tedeschi. Tra questi anche un ragazzo di 14 anni, dell’età di Rucio il bandito precisarono i tedeschi, e un cane.
Fine.