Romanzo apparso nel 1919 e mai ripubblicato, l’opera fu citata dalla Serao come uno dei più significativi esempi di incisivo realismo centrato sui problemi sociali delle donne. La letteratura femminile nel secondo decennio del Novecento godette di rinnovate energie, nel mentre le donne italiane dedicavano la loro forza e coraggio all’assistenza dei combattenti, travolti dalla Grande Guerra. Nello stesso anno la Deledda pubblica infatti L’incendio nell’uliveto, l’anno prima Maria Messina la raccolta di novelle Le briciole del destino, e poco dopo comparirà Andando e stando di Sibilla Aleramo, che contiene l’Apologia dello spirito femminile.

La donna protagonista del racconto è la giovane, bella e ricca Ilaria, dolce e mitissima sposa diciottenne di Ippolito, ingegnere altrettanto bello e ricco, ma preda di una terribile gelosia. Li conosciamo una mattina di Capodanno, in cui Ilaria prova i primi malesseri per la gravidanza appena iniziata, e non riesce a informarne il marito, che ha costruito un intreccio di sospetti sopra questa circostanza insolita, allontanandosi corrucciato prima di ogni spiegazione.

La gelosia di Ippolito dapprima costringe i coniugi a vivere separati, per evitare ad Ippolito continui irragionevoli tormenti: egli va all’estero, mentre Ilaria resta a Roma col padre. Ilaria soffre in silenzio per l’abbandono, per venti lunghi anni, fino a quando Ippolito la rivuole accanto a sé trasferendosi a Terni in una nuova impresa industriale. E nella descrizione della moderna fabbrica di Ippolito, sentiamo l’eco del futurismo trasfigurato dalla fantasia di Ilaria:

Pale flessuose, a collo di cigno, si piegavano dai carriponti a sollevar masselli; cesoie immani, di cui le due lame si aprivano, si chiudevano becchi di fantastici uccelli da preda; cavalletti a quattro zampe, simili a mostruosi quadrupedi antidiluviani, formidabili nella loro poderosità appena abbozzata; catene dagli anelli fatti per ciondolar dai polsi dei giganti; e il maglio sovrano, già orgoglio e principe delle officine, vinto da forze più snelle, più giovani, titano circondato di melanconia nella immobilità della sua forza inerte.

Non basterà il lavoro, e nemmeno l’incessante scroscio del Velino che precipita dalle Marmore fino alla Nera, per evitare quell’esito fatale che fin dall’inizio del romanzo si preannuncia per i due protagonisti.

Sinossi a cura di Gabriella Dodero

Dall’incipit del libro:

Mentre il nuovo anno, trascinato da Oriente, sopra un carro di nuvole accese, entrava nella stanza dei giovani sposi, portando loro in dono lo stormire delle foglie, sempre vive sui colli del Gianicolo, e il canto impetuoso della fontana Paolina, Ilaria, uscita allora dal sonno, aveva guardato Vaga, in piedi presso il letto, poi aveva guardato Ippolito, puntato di fianco col gomito sui guanciali, e ad entrambi aveva rivolto in silenzio la domanda medesima con la espressione esultante dello sguardo azzurro:
— Oggi è il primo giorno del primo anno che io passo qui, non è vero, Vaga? È il primo giorno del primo anno che io ti appartengo, non è vero, Ippolito?
Vaga, di una lucentezza bruna nel viso scarno, le aveva risposto con auguri di perpetua felicità, riannodandole affettuosa, sollecita, una ciocca dei capelli biondi; lo sposo aveva risposto esclamando:
— Dopo sette mesi ancora mi pare un sogno! — e, irrequieto, aveva accennato a Vaga di consegnargli un astuccio di raso, che le aveva di nascosto affidato la sera prima, e ne aveva fatto scattare la molla sotto gli occhi sbalorditi d’Ilaria.
— Sei pazzo, sei pazzo! Ha ragione papà quando lo dice! Mio Dio, che prodigio di turchesi! — aveva poi mormorato con voce assorta, quasi la gioia le facesse émpito per l’orgoglio di riconoscere una volta di più che il marito era pazzo davvero, pazzo di lei.

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