“Caterì tu non sei una creatura, tu sei un ciucccio”:la mamma glielo ripeteva in continuazione e a sei anni Caterina era seriamente convinta di non essere una bambina come le altre. Più resistente, forse, certamente più scatenata. In famiglia il rosario delle sue imprese veniva sfilato in continuazione. A un anno si era buttata a mare sfuggendo alla sorveglianza dei genitori e correndo a quattro zampe verso la riva. A due già parlava e nel bus l’avevano scambiata per una nana. A tre aveva colorato con la cacca le pareti del bagno. A quattro si era lanciata dall’armadio sul letto di fronte. A cinque aveva ripetuto la stessa prodezza tra la vasca da bagno e il gabinetto sfondandone la tavoletta e tagliandosi il ginocchio. E immancabilmente a ogni incontro della sua numerosa famiglia ripercorreva le tappe per nulla gloriose di quella travagliata infanzia. “Ti ricordi quando Caterina…”iniziava la nonna e il ti ricordi rimbalzava dall’una all’altra zia in un crescendo pericoloso per la creatura. O meglio per il ciuccio.
Caterina se ne fregava: cadeva e si rialzava, precipitava dalle scale e non batteva ciglio, saltava tra mobili e sedie senza riportare un graffio. E se qualche volta si feriva non aspettava neanche che le applicassero il miracoloso cerotto prima di lanciarsi in una nuova spericolata impresa. Delle punizioni quasi non si accorgeva.
Il fatto era che Caterina si annoiava. Abituata a stare sola, in famiglia non c’erano fratelli né sorelle, e nemmeno una cugina, si faceva compagnia correndo, saltando, inseguendo la palla tra le mura di casa. La televisione ogni tanto la placava, ma solo per poco. I giochini sul cellulare che ammaliavano i suoi coetanei, solitamente l’annoiavano: cose da bambini piccoli, non adatte a un ciuccio come lei.
La scuola, invece, quando finalmente ci arrivò, le piaceva. Certo, continuava a sfilarsi le scarpe sotto al banco e prima di alzarsi per le interrogazioni si lanciava a recuperarle tra le risate dei compagni, e ogni volta che si muoveva trascinava con sé banchi e sedie, ma la sua allegria e le risposte pronte divertivano gli altri bambini che generalmente le volevano bene. Ma durava poco, presto la riportavano a casa dove tornava a essere il solito ciuccio. Anche i compiti li sbrigava troppo in fretta per restare occupata a lungo. I libri le piacevano, ma in casa si leggeva solo quello che compariva sul cellulare. Cosa di un minuto.
Non che mamma e papà non le volessero bene, per carità. Solo che non capivano quella figlia scatenata che era toccata loro in sorte e soprattutto, presi dalla necessità di lavorare e mandare avanti la casa, non trovavano mai il modo giusto di placarla. O almeno di farle compagnia. Caterina era un povero ciuccio solitario che viveva in un mondo diverso da quello abitato dagli adulti che la circondavano: lei viaggiava lontano, sempre più lontano, immaginando mari infiniti, spiagge immense dove correre e saltare, e la casa, il cortile dove solo raramente le era permesso di giocare, le andavano stretti, troppo stretti. I discorsi degli adulti, poi, l’annoiavano. Il quotidiano non faceva per lei che sognava alla grande e non sapeva dare un nome a quella sensazione di freddo che a volte la pigliava lasciandola senza fiato. Caterina aveva un mondo da riempire e non sapeva come farlo.