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(voce di SopraPensiero)
“Mamma, papà, non piangete se sono consumata, è stata la risaia che mi ha rovinata” (il canto di una mondina)
Dato che erano solo loro a farlo, non si sorprenda il lettore se quello delle mondine che lavoravano stagionalmente nelle risaie del Nord Italia per molto tempo sia stato considerato per antonomasia un lavoro da femmine.
Dai primi del 900 e fino agli anni ’60 nelle campagne tra Pavia, Vercelli e Novara ogni anno si riversavano migliaia di donne di ogni età provenienti da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per affiancare il lavoro delle abitanti del posto nei campi di riso.
Quella delle mondine è stata principalmente una storia di sfruttamento e malattia, costrette a turni massacranti e giornate intere con le gambe immerse nell’acqua fino alle ginocchia, a piedi nudi e con la schiena curva. E tutto avveniva nella totale assenza di diritti sindacali. Fu proprio da queste instancabili lavoratrici che partì uno dei primi movimenti femministi che scaturì in aspre battaglie sindacali che neppure il fascismo riuscì a smorzare, e che si concretizzò – prime in Italia – nel diritto alle 8 ore lavorative giornaliere contro le 12 del passato.
Le mondine erano quasi tutte ragazzine, alcune avevano appena tredici anni. Partivano spensierate, come si fa quando si va ad affrontare una nuova avventura. Provenivano da famiglie povere, di bassa estrazione sociale, e lasciavano il tetto paterno tra l’abbraccio della mamma e il pianto delle sorelle più piccole. Tra loro ce n’erano anche di più grandi, perfino signore di 70 e passa anni, che erano costrette a lavorare per mantenersi.
Arrivato il giorno della partenza le lavoratrici si mettevano in cammino che era ancora buio per raggiungere la stazione. Aspettavano un vecchio treno, lo stesso che normalmente trasportava bestiame, che le lasciava nelle campagne del Nord che era già sera inoltrata. Qui si attendeva un carretto che caricava gruppetti di 6/7 per portarle in una delle tante cascine disseminate tra campi e risaie. Si dormiva tutte in grandi magazzini svuotati dal grano, dentro a grossi stanzoni dai soffitti altissimi, con i letti incasellati uno accanto all’altro ricavati mettendo assieme qualche asse in legno e un pò di paglia. I capannoni arrivavano a contenere fino a 60 ragazze. Tutto intorno al letto si stendevano fili di corda ai quali si appoggiavano i vestiti per creare una parvenza di intimità.
Il padrone, prima di sistemarle in cascina, si accertava che le ragazze non si conoscessero tra loro e non arrivassero dallo stesso luogo: in questo modo, formando gruppi di estranee, si illudeva di scongiurare scioperi o rappresaglie, ignorando che in realtà le sofferenze accomunano più di qualunque altra cosa.
Alle 4:30 il caposquadra dava la sveglia. Seguiva una rapida lavata nella fredda acqua della roggia, il fosso vicino alla cascina dove si sarebbero lavate anche le stoviglie. Gli uomini, direttamente impegnati nella monda del riso, erano pochi: si trattava soprattutto di “cavallanti”, al massimo quattro o cinque ogni cinquanta donne.
Mezz’ora di cammino e le mondine raggiungevano i campi di riso allagati. Alcune di loro venivano caricate su trattori, ma dato che il padrone poi decurtava le spese del viaggio dalla paga, si preferiva andare a piedi. Qui iniziava la giornata di lavoro che durava dodici ore, con una pausa di mezz’ora per il pasto.
Le risaie venivano suddivise in “quadre” e le lavoranti si disponevano in file parallele: una sottana oppure dei pantaloni tagliati e arrotolati sopra il ginocchio, delle calze a coprire un pezzo di gamba. Le braccia venivano avvolte da una camicia che veniva fermata con del filo di spago per proteggere la pelle dagli animali d’acqua e dal riso stesso, che con la sua spiga raspava e tagliava. I piedi erano nudi. Così, a testa in giù, in mezzo all’acqua fino al ginocchio, per 12 ore a mondare il riso, cioé ad estirpare le piante infestanti che, raccolte in mazzetti, venivano passate di mano in mano dal centro di ogni fila fino alle estremità, e poi gettati nei canaletti di scolo laterali, al grido di “erba, erba”. Alcune erbe erano grosse e taglienti, difficili da strappare, e allora a volte bisognava chiedere l’intervento degli uomini con un apposito attrezzo. Poi c’era il trapianto delle nuove piantine che venivano lanciate dai cavallanti.
Nell’acqua c’era di tutto: sanguisughe che si attaccavano alla pelle facendola sanguinare, bisce, che le più coraggiose afferravano per la testa per lanciarle lontano, topi d’acqua; e soprattutto zanzare, che si accanivano sulla pelle delicata e già martoriata e talvolta portavano la febbre. E poi le rane, che qualcuna si metteva in tasca e la sera, quando i morsi della fame si facevano sentire, si facevano cuocere sul fuoco.
Alcune donne venivano colpite da quella che venne chiamata “la febbre del riso”, una malattia infettiva acuta causata da un parassita presente nell’acqua. Le malate venivano portate a casa del padrone e curate alla meglio peggio.
Non era mai permesso interrompere il lavoro, per i bisogni fisiologici si faceva un passo indietro e poi lateralmente.
Le mondine portavano grossi cappelli di paglia per proteggersi dalle calde giornate e si spalmavano un pesantissimo unguento sulla pelle che faceva sudare ma che almeno impediva al viso di bruciare sotto al sole.
Ogni tanto il padrone passava tra le file a controllare e il caposquadra distribuiva un mestolo di acqua. Mezz’ora di pausa per mangiare, sempre lo stesso pasto: riso e fagioli. Il riso veniva anche integrato alla paga, se i soldi non bastavano, e lo si portava a casa alle famiglie.
Le mondine alleviavano il peso delle lunghe giornate intonando canti che riecheggiavano lungo tutta la pianura e che sono stati tramandati fino ai giorni nostri, a testimoniare una vita fatta di sacrifici.
Al termine delle lunghe giornate di lavoro le donne tornavano ai casolari, si strofinavano con il sapone e usavano le spighe del riso per eliminare dalla pelle il verde rilasciato da concime e acqua stagnante. Quelle che non crollavano dal sonno la sera ballavano davanti al fuoco o nelle osterie vicine. Essendo forestiere lontane da casa le mondine erano oggetto di scherno e gelosie da parte degli abitanti del luogo, che le consideravano libere e poco di buono.
Il giorno della paga rincuorava almeno in parte le sofferenze del duro lavoro. Ognuna aveva un sacchettino in stoffa dove depositava i soldi guadagnati che avrebbe consegnato alle famiglie. Il salario era di molto inferiore a quello degli uomini.
C’era solidarietà tra le mondine, che si dividevano il pane e i segreti. E se a una sparivano i soldi subito partiva una colletta. La nostalgia da casa e il dolore fisico le aveva legate, nel lavoro, nel canto, nella vita.
Non fosse stato per il film “Riso amaro” interpretato dalla splendida Silvana Mangano, in pochi si sarebbero ricordati delle nostre mondine. E oggi che il ruolo delle mondine è stato sostituito da sofisticati macchinari e diserbanti, sono rimasti i musei, memoria storica dove è possibile ripercorrere le tracce di un’epoca che fu.
(di Agatha Orrico)
IL CANTO DELLE MONDINE:
Son la mondina, son la sfruttata,
son la proletaria che giammai tremò:
mi hanno uccisa, incatenata,
carcere e violenza, nulla mi fermò,
Coi nostri corpi sulle rotaie,
noi abbiam fermato i nostri sfruttator;
c’è molto fango sulle risaie,
ma non porta macchia il simbol del lavor,
E lotteremo per il lavoro,
per la pace, il pane e per la libertà,
e creeremo un mondo nuovo
di giustizia e di nuova civiltà.
Questa bandiera gloriosa e bella
noi l’abbiam raccolta e la portiam più in su
dal Vercellese a Molinella,
alla testa della nostra gioventù.
E se qualcuno vuol far la guerra,
tutti uniti insieme noi lo fermerem:
vogliam la pace sulla terra
e più forti dei cannoni noi sarem.