Nell’antica Serenissima i matrimoni tra membri del patriziato, cioè la classe nobiliare che deteneva il potere, seguivano rigide procedure dettate soprattutto dalla tradizione, uno schema codificato nel tempo, sebbene suscettibile di qualche variante.
Più che il convolo degli sposi al nido d’amore, le nozze patrizie erano avvenimenti con i quali le famiglie stringevano alleanze economiche e politiche. In esse risaltava nettamente il ruolo privilegiato dei capifamiglia che si accordavano più negli interessi dei rispettivi nuclei famigliari che in quello degli sposi.
I preliminari del contratto
Tutto era definito con lago anticipo in abboccamenti preliminari a partire dalla dote che, sebbene consegnata e gestita dal marito insieme ai propri beni, restava giuridicamente proprietà della moglie. Solo un terzo, il cosiddetto “corredum”, era destinato a rimanere in possesso del marito.
In assenza di volontà testamentarie alla morte della sposa, le sue sostanze passavano agli eredi legittimi individuati nei figli o nella famiglia d’origine e solo in mancanza d’altri eredi al marito. Tuttavia nel testamento la donna poteva disporre anche a favore di quest’ultimo.
Rapida la restituzione della dote nel caso fosse rimasta vedova. Raramente gli eredi del defunto riuscivano a mettere le mani su quel terzo, un diritto più teorico che pratico. Il tutto ammesso che il capitale non fosse stato dissipato in investimenti sbagliati, in vizi come il gioco, o sperperi in lussi esagerati dai quali la società veneziana, in particolare nella fase più avanzata della repubblica, non era indenne. Le norme tutelavano la donna anche nel caso che il matrimonio combinato dalla famiglia le avesse appioppato un marito scialacquatore: coniuge vivente, poteva avviare una procedura giuridica atta a preservare la sua dote dall’assalto dei creditori.
Qualcuno aveva scritto come l’accordo di matrimonio avvenisse “senza veder la fanciulla” e Cesare Vecellio (1521-1601), nel disegnare e descrivere gli abiti dei veneziani nell’opera “De gli Habiti antichi et moderni …”, aveva appuntato: “Di somma et notabile honestà l’uso et l’instituto d’allevar le donzelle Nobili in Venetia; perché sono così ben guardate et custodite nelle case paterne, che bene spesso né anche i più stretti parenti le veggono, se non quando elle si maritano”. Praticamente ci si sarebbe sposati al buio, difficile da credere come dimostrato da quanto segue.
La promessa di matrimonio e il “dar della man”
Dopo il contratto di matrimonio avveniva il cosiddetto “dar della man” tra i due fidanzati, rito che talvolta prevedeva anche l’anticipo di una parte della dote. Già ai tempi del diarista Marin Sanudo (1466-1536), si dava per scontato che i due fidanzati fossero autorizzati a intrattenere rapporti e quindi cessava la segregazione della ragazza, se mai di segregazione si fosse trattato. I più rigoristi non ammettevano tali rapporti, che avrebbero potuto degenerare nella consumazione del matrimonio prima dello “sponsalicio” ufficiale che non necessariamente avveniva in chiesa. Il fidanzamento durava di norma alcuni mesi, ma talvolta anche solo pochi giorni, senza problemi se le esigenze l’avessero imposto.
Prima di tutto ciò, all’accordo di matrimonio seguiva un rigoroso rituale a partire dalla promessa del padre della giovane al futuro marito se maggiorenne, o al di lui padre in caso contrario. Scontato che nessuno si preoccupasse di chiedere il parere degli interessati: un’educazione improntata al massimo rispetto per l’autorità paterna faceva in modo che i giovani si assoggettassero senza colpi di testa a unioni combinate. D’altronde, l’intrinseco legame tra aristocrazia e istituzioni metteva al muro chi vagheggiava di scavalcare la tradizione e i casi erano stati davvero pochi anche se ridondanti. Esemplare quello di Bianca Cappello (1548 -1587), fuggita di casa insieme a un individuo di dubbia reputazione, assunta al ruolo di avventuriera, sradicata dalla famiglia e bandita dalla Serenissima, infine perdonata quando si era assoggettata al matrimonio con il Granduca di Toscana, un caso dove politica e ragion di stato si erano messe di mezzo.
Mediatori e annuncio pubblico
Per mettere in contatto le famiglie l’intervento di un mediatore, o “sensale”, detto anche “golo” dal nome di una nassa da pesca per acchiappare i pesciolini, non era indispensabile, ma ricordato dalla legge, accettato se saltava fuori e retribuito in proporzione all’ammontare della dote. Nessuna percentuale nel caso la mediazione fosse stata portata avanti da amici di famiglia.
La promessa formale di matrimonio veniva resa nota con un pubblico annuncio nella corte di Palazzo Ducale, luogo privilegiato dove si palesava la decisione delle famiglie quale atto evidente della stretta connessione tra vita pubblica e privata del patriziato. Poi tutto un mondo di gentiluomini si precipitava a congratularsi con lo sposo, venuto a ricevere gli auguri in quella parte di piazza San Marco detta “brolo”, termine mutuato dal latino “brolus”, vale a dire orto, giardino, retaggio di secoli passati quando la zona era occupata dagli orti delle suore del convento di San Zaccaria. Qui si presentavano anche i candidati alle cariche di governo e qui i nobili decaduti, detti “barnabotti” perché risiedenti in gran parte nella contrada di Santa Barnaba in casette messe a loro disposizione dallo stato, alla ricerca di mezzi di sussistenza praticavano il mercimonio del proprio voto in sede del Maggior Consiglio. Da “brolo” è poi derivato l’attuale termine di “broglio”, uno dei tanti che abbiamo ereditato dall’antica Serenissima, nel senso di manipolazione, raggiro, broglio elettorale.
La dote
Il contratto di matrimonio firmato solennemente fissava ogni dettaglio, dalla dote al corredo del quale si stendeva minuzioso inventario.
Sull’entità delle doti il governo, nel tentativo di evitare sperperi, era intervenuto più volte con norme limitative, severissime, ma che erano rimaste quasi sempre lettera morta. L’esorbitanza delle doti era anche la causa di forzate rinunce ai matrimoni perché non tutte le famiglie patrizie godevano di adeguate sostanze per farvi fronte. Un tetto massimo di milleseicento ducati era stato stabilito nel 1420; poi all’inizio del secolo successivo le leggi suntuarie lo avevano alzato a tremila, ma sotto sotto se ne erano spesso sborsati anche il doppio. Già prima Marin Sanudo aveva scritto chiaro e tondo come l’opinione corrente non avrebbe considerato “dote bona” quella al di sotto dei quattromila. A questa cifra era stata elevata legalmente la dote nel 1535, ma la riforma non era bastata ancora, tanto che meno di trent’anni dopo si era dovuto intervenire di nuovo per portare il massimo consentito a cinquemila zecchini.
Tuttavia, le norme erano rimaste ben lontana dalla realtà, tanto che i rialzi sottobanco erano stati frequenti e ciascuno aveva fatto a modo suo. In pratica, una ricca famiglia per maritare la figliola avrebbe sborsato tra i 20 e i 25 mila ducati, mentre il più mal ridotto dei patrizi non sarebbe potuto scendere sotto i quattromila.
Siccome i patrizi, mercanti per vocazione oltre che per necessità, i conti li sapevano fare bene, qualcuno si era impegnato a tirare due somme. Risultato: invece che fuoriuscite a cinque cifre si sarebbero spesi solo mille ducati collocando la figliola in convento, più altri cinquecento di mobili e arredi, più un bel corredo, perché le buone patrizie anche nella più stretta clausura non si erano mai fatte mancare nulla, tanto meno le vesti lussuose e le pratiche di cosmesi che continuavano a indossare e praticare pure in monastero.
Nell’ultimo scorcio del XIV secolo una dote era schizzata a 80 mila ducati: quella di Marina Bragadin, nipote del doge Da Ponte, ma non ce l’aveva fatta a tenere lesta ai 100 mila di Caterina Cornaro, prescelta nel 1468 a soli quattordici anni come sposa del re di Cipro, Giacomo II di Lusignano. Alla morte del sovrano l’isola era passata in eredità alla moglie, che a sua volta l’aveva donata alla città natale, e così Cipro era stata veneziana per circa un secolo. Un altro caso dove si era messa di mezzo la politica e i Provveditori alle Pompe, delegati al controllo delle norme suntuarie, di fronte all’esborso abnorme si erano bendati gli occhi e cucite le bocche.
Il rito del “parentà”
Seguiva poi il cosiddetto “parentà”, riunione di parenti e amici a casa della promessa sposa. Il futuro marito, vestito di scarlatto e con codazzo di parenti al seguito, si presentava a casa di costei che lo attendeva in pompa magna, gioielli a profusione nonostante le disposizioni suntuarie che avrebbero preteso di porre limiti al lusso degli abiti, intromettersi perfino sul tipo e costo delle vivande, sul numero degli invitati e sul valore dei doni. Ricchi sì, ma con moderata ostentazione, avrebbe voluto imporre lo stato per arginare spese folli, ma come per l’ammontare delle doti queste leggi non avevano sortito i risultati che si erano ripromesse e numerosi esempi di cerimonie fastose lo stavano a testimoniare.
I futuri sposi comparivano nella sala più grande del palazzo della “novizza”, cioè della promessa sposa. Costei, accompagnata dal “maestro di danzar”, salutava e ringraziava tutti, si produceva in qualche modesto salterello e subito si ritirava. Per quel giorno poteva bastare.
Il giorno dopo riceveva i rallegramenti delle gentildonne, poi saltava in gondola, si accomodava su una panchetta all’aperto perché tutti la potessero vedere e se ne andava a far visita a parenti e amiche rinchiuse nei monasteri. Il solito Marin Sanudo aveva annotato come già ai tempi suoi questa usanza fosse antiquata.
Prima del 1501 era invalso pure l’uso per le spose patrizie di andare a “toccar la mano” al doge. Poi si era deciso per la soppressione di questa consuetudine, considerata eccessivamente principesca per quella che era pur sempre una repubblica sebbene oligarchica e sebbene con un principe a capo dello stato. La Serenissima nel doge, principe eletto e non per discendenza, vedeva la personificazione dello stato, mai un sovrano, anche se nel fasto che lo circondava si rifletteva la maestà propria dei sovrani. Peraltro costui esercitava il suo magistero sotto stretto controllo della classe aristocratica. Esperienze lontane di dogi che avevano complottato per trasformare Venezia in un principato ereditario erano rimaste ben presenti e da questo pericolo ci si era guardati, magari a colpi di mannaia quando non erano bastate le leggi, come nel caso del doge Marin Falier.
Dopo il 1501 le visite al Serenissimo da parte delle spose patrizie furono tollerate solo per la parentela stretta. Era rimasto in vigore il permesso al doge di mettere a disposizione il palazzo ducale per i festeggiamenti e il Bucintoro per il trasporto del corteo, ma solo nel caso che uno degli sposi fosse appartenuto alla sua famiglia.
Il matrimonio e il banchetto nuziale
Finalmente ecco il giorno del destino che poi, in quanto attentamente pianificato dalle famiglie, era tutt’altro che un destino. Sveglia all’alba e la coppia andava in chiesa al suono di trombe e pifferi dove era attesa da parenti e invitati che debordavano allegramente in lusso alla faccia delle limitazioni. Sbrigata la funzione, tutti ospiti a palazzo della sposa addobbato con profusione di tappezzerie e arazzi esposti sulla facciata. Qui i festeggiamenti si protraevano per giorni interi con buona pace dei Provveditori alle Pompe, impotenti perfino a impedire che pure i domestici indossassero abiti intessuti d’oro e d’argento. Nessun problema per i matrimoni eclatanti con centinaia di invitati che non avrebbero trovato posto tutti insieme neppure nei palazzi più grandi: si banchettava a turno.
I testimoni e i doni
I testimoni anticamente erano stati solo due, i “compari d’anello”, ma nel corso degli anni insieme alle doti anche il loro numero era aumentato vertiginosamente, fino a quaranta. Costoro sarebbero stati tenuti a donare alla sposa oggetti di valore fino a un massimo di duecento ducati, ma anche in questo caso molti non si curavano del limite.
Il giorno dopo le nozze, allo sposo venivano donate banali uova fresche e paste a base di pinoli dette “pignocade”. Nel contempo i testimoni accompagnavano la sposa a casa sua con altri doni di modesto valore posti in un paniere d’argento.
Il ruolo sociale della donna sposata
Con il matrimonio le donne patrizie acquisivano un rilievo sociale in assoluto contrasto con la supposta invisibilità nella quale avrebbero vissuto da nubili tra le pareti domestiche. Circa la presunta clausura il solito Vecellio, buon xilografo come buon pittore era il suo parente, il grande Tiziano, aveva insistito: “Et non è da tacere, che molte di loro fino à quel tempo del maritarsi, confermandosi con riverente ubbidienza alla volontà de’ genitori, se ne stanno senza ornamento veruno”. Educate in convento o in casa, le ragazze del patriziato avrebbero trovato la porta aperta solo per certe occasioni, al contrario delle coetanee dei ceti popolari che “… andavano col petto e con le spalle scoperte… Un busto assai corto che a pena le copre la più bella parte del petto, fuor del quale escono i merli della camicia…”: questa per il Vecellio era la “donzella da maritare”.
Il ruolo della nobildonna bella e sposata e ormai uscita dalle stanze paterne si palesava nella partecipazione a feste pubbliche e private e nello straordinario lusso con il quale tendeva a circondarsi. Le immancabili leggi suntuarie contenevano a stento gli sfoggi e l’estrema libertà della moda veneziana, esternata nell’ostentazione di gioielli costosissimi, diluvi di cosmetici, la pratica d’imbiondirsi i capelli, vesti preziose a profusione e singolari usanze delle quali faceva parte integrante l’andarsene a seno scoperto. Quest’ultima stravaganza era stata poco e tardivamente combattuta dalle leggi, preoccupate più di arginare la dissipazione di patrimoni che non di castigare i costumi. D’altronde si trattava di una aristocrazia che doveva le sue fortune al commercio, quindi ai soldi, e a questi si badava prima di tutto.
La moglie patrizia transitava poi dal trionfo della maternità. Anche in questa occasione non mancava di addobbare lussuosamente la dimora per ricevere stuoli di gentildonne che si recavano dalla puerpera per congratularsi. Perfino il Senato si era prodigato in altre norme restrittive, ignorate anche stavolta.
Infine, la nobildonna acquisiva il massimo grado d’autonomia in occasione della vedovanza, soprattutto con il sostegno di un solido patrimonio e della dote ritornata in suo possesso. Cosicché, proprio negli anni nei quali Cesare Vecellio aveva scritto le note sulle ragazze veneziane a corredo dei suoi disegni, ricche vedove procedevano a proficui investimenti, come quelli sul mercato dei prestiti a garanzia fondiaria.
I matrimoni nelle altre classi sociali
Simili a quelli dei patrizi erano i matrimoni nella classe immediatamente subalterna dei “Cittadini Originarij”, o “de intus e de extra”, vale a dire veneziani doc in patria e all’estero. Questi cosiddetti “annobiliti”, tra i quali si traevano anche i ranghi della burocrazia a partire dal “Cancelier Grando”, erano di fatto un patriziato senza potere politico, ma che godeva di privilegi sostanziali e concreti e gestiva patrimoni che spesso surclassavano quelli dei patrizi meno abbienti. Anche nel loro caso le nozze erano quasi sempre concordate tra i capifamiglia e ubbidivano a logiche di alleanza tra i loro casati.
Via via scendendo agli altri strati sociali, fino a quelli popolari, le nozze erano comunque grandi feste e i banchetti finivano invariabilmente con un ballo.
I matrimoni del popolo non avevano nulla a che vedere con quelli delle classi più agiate quanto a manifestazioni di lusso, pur seguendo i rispettivi rituali. Si aprivano con la richiesta della benedizione paterna da parte della sposa, un’usanza antichissima.
Il giorno delle nozze la ragazza, seguita dai parenti, arrivava in chiesa vestita di trine, pizzi, calze bianche, pianelle ricamate e anche ori, se ne aveva i mezzi. All’altare l’aspettava lo sposo vestito di velluto insieme al compare. A costui toccava provvedere alla mancia per il sacrestano e a dodici bottiglie di vino. Poi doveva donare alla sposa un bouquet di fiori, una scatola di confetti e un oggetto d’oro. Faceva ridacchiare la malignità secondo la quale per i più poveri trovare un compare sarebbe stato un miracolo!
Gustavo Vitali
Nella foto in evidenza: un disegno di Cesare Vecellio tratto dal volume “De Gli Habiti Antichi, et Moderni di Diverse Parti del Mondo, libri due, fatti da Cesare Vecellio, et con Discorsi da lui Dichiarati, con privilegio. Stampato in Venetia, M.D.XC, presso Damian Zapalo” seconda edizione, 1598, conservto presso la Biblioteca Marciana di Venezia
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