Questa raccolta, pubblicata nel 1923, è successiva di un anno alla raccolta di Novelle cinesi, sempre curata da Paolo Bellezza e presente qui in Liber Liber. L’intento del curatore è quello di far conoscere il pensiero giapponese come si manifesta nella sua ricca e diversificata produzione letteraria. Sono quindi presentati novelle, apologhi, brani teatrali, poesie ma anche brevi saggi di storia, letteratura, morale, concezione ed organizzazione della vita nel paese del Sol Levante.

Pur denunciando i limiti rispetto ad un così ambizioso progetto, Bellezza si immerge con grande attenzione nell’ampia letteratura giapponese, spesso frutto del genio di importanti scrittrici, e distilla da essa una crestomazia dei brani più celebri, delle opere più diffuse, dei brevi saggi più significativi. Nell’Introduzione egli cita le sue fonti letterarie, ma molte altre sono riportate nelle note. Si è ritenuto quindi opportuno allegare all’opera una bibliografia, in ordine cronologico, non solo di tutte le fonti da cui sono tratti i brani presenti in questa raccolta, ma anche dei saggi citati e dunque consultati dal curatore nel suo lavoro.

Le precedenti pubblicazioni nei confronti delle quali Bellezza dichiara il suo debito sono in particolare quelle dell’orientalista Antelmo Severini (1828 – 1909), che fu il primo docente di cinese e giapponese nelle università italiane e che tradusse alcune delle novelle qui citate, e il saggio di Pacifico Arcangeli (1) (1888 – 1918) Letteratura e crestomazia giapponese (1915), ricco di testi giapponesi tradotti.

Emerge un mondo, lontanissimo dal nostro occidentale, di gusti, comportamenti, credenze, nei quali ha grande rilevanza il sentimento religioso, derivato dal buddismo e dal confucianesimo, religioni che al Giappone arrivarono dalla Cina. In particolare il confucianesimo dà forte enfasi ai legami familiari e all’armonia sociale. Dal 1868 viene poi proclamato religione ufficiale lo shintoismo. Proprio questa ricchezza religiosa rende spesso per noi difficoltosa una comprensione approfondita della mentalità giapponese.

Altro grande ostacolo per noi occidentali è la lingua, il Kotodama, lo “spirito della parola”:

«“la lingua meravigliosa” per eccellenza: […] a noi essa riesce “estremamente vaga, e dà spesso luogo, in una sola frase, alle interpretazioni le più diverse» (cit. di P. Bellezza da W. S. Aston. Anthologie de la litterature japonaise. Paris, 1910, p. 4.)

Sempre dalla Cina, attraverso la Corea, giunsero la scrittura e il disegno. Scrive Bellezza:

«Il Celeste Impero fu per l’Impero del Sol Levante quello che Roma e la Grecia furono per l’Europa.»

La civiltà giapponese è sommariamente divisa in tre periodi: quello della cultura indigena, fino al secolo V d.C.; quello cinese; quello iniziato coll’introduzione della civiltà europea intorno alla metà del XIX secolo. Ricordiamo che per buona parte dell’epoca Edo (1600 – 1868, periodo caratterizzato dall’ininterrotto potere della famiglia Tokugawa) il Giappone visse un intervallo di più di 200 anni (dal 1635 al 1853) di quasi totale isolamento con il resto del mondo.

Il più antico dei testi da cui Bellezza trae alcuni brani è il Kojiki, traducibile con Vecchie cose scritte, conosciuto anche come Furukotofumi, dei primi anni del secolo VIII (711–712), opera di Ō no Yasumaro (660 – 723). È la più antica cronaca del Giappone ed il primo testo pervenuto in occidente. L’ultima fonte di Bellezza in ordine cronologico è Nikudan. Proiettili umani : Episodi dal vero dell’assedio di Port Arthur, di Tadayoshi Sakurai nella traduzione di Bartolomeo Balbi (1913), con testimonianze dalla battaglia iniziale (febbraio 1904) della guerra russo-giapponese.

Grande merito di questa opera di Bellezza è quello di fornirci un assaggio, un punto di partenza, per approfondire la conoscenza di questa ricca letteratura di cui in generale sappiamo poco.

Da questi brani, riportati per esteso o a volte riassunti, emerge una considerazione del mondo da parte del popolo giapponese come un insieme unico ed organico, in cui tutti gli elementi convivono armoniosamente fra loro: esseri umani, animali, rocce e piante, montagne, sole e luna, brezze e tempeste, edifici, oggetti della quotidianità. Senza scale di valori, tutti con la stessa dignità. In tempi in cui la natura viene sempre più sottomessa all’uomo con risultati, ormai si è capito, catastrofici, sembra un insegnamento prezioso.

Nel Tsuré Zuré Guça o Varietà dei momenti di noia, il bonzo Kenkô (1283 – 1350) scrive:

«Non c’è maggior piacere che quello di essere soli, alla luce d’una lampada, con un libro aperto, in compagnia di uomini del mondo invisibile»

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS


(1) Si ringrazia vivamente il prof. A. Zuppante per le informazioni su P. Arcangeli.

Dall’incipit del primo racconto Un cacciatore prodigioso:

Era sul finire della mietitura, e Tamontara Cadzuiosi, governatore della provincia di Cuanto, ritornando da una caccia muoveva verso il castello più vicino. Lo precedeva la scolta, e numeroso seguito gli cavalcava dietro. Attraversati alcuni boschi, giunsero ad una palude, intorno alla quale svolazzavano molti uccelli.
Il governatore li disse beccacce; ma due del seguito, udito ciò, tenendo un’altra opinione, pretesero che fossero pernici. Tale disparità suscitò una contesa così animata, che sarebbe finita male senza l’intervento di un ardito giovine di quattordici anni, Scimano Suke. Costui, che era ottimo arciere, pregò tutti di acquietarsi, perchè avrebbe troncata la lite, decidendo a chi spettasse la ragione. E teso l’arco e presa la mira, lanciò la freccia, la quale colpì un uccello all’ala strappandogli una penna senza ferirlo.

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