Non è facile, guardandosi indietro nel tempo, rintracciare in quale momento cominciò ad emergere la prima consapevolezza del genocidio nazista; i primi bagliori di informazione che si intersecavano con le notizie riguardanti la possibile fine del conflitto giungono nel 1944-45.
Primo Levi parla, nel suo Il sistema periodico, di come si vivesse in Italia la ricezione di notizie (elenca cinque possibili “fonti”) immergendosi in uno stato di “cecità volontaria”, cercando di afferrare e nello stesso tempo di ignorare i segnali di ciò che stava accadendo agli ebrei (e poi a ogni forma di “oppositori” o di “diversi”). In realtà la lacunosa raccolta di informazioni si applica facilmente anche agli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto. Le immagini mostruose che in seguito hanno ossessionato il mondo post-Olocausto erano spesso sovrastate dalle notizie sulle vittorie alleate e la capitolazione di Berlino. Ne consegue che la liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945 – oggi assurta a solenne giornata commemorativa – erano una notizia di dettaglio paragonata alla conferenza di Yalta che è di alcuni giorni dopo.
In Italia la situazione era complicata dalla lunga fase di transizione che va dal 1943 al 1948, anno delle prime elezioni del dopoguerra. Fase di transizione che procedeva dalla propria guerra civile, la repubblica di Salò, la progressiva avanzata degli alleati e l’occupazione tedesca. Le notizie sui campi di pre-deportazione (Fossoli e Bolzano) e su Mauthausen, dove prevalentemente venivano avviati i deportati della Resistenza, provenivano quasi esclusivamente dalla stampa dell’antifascismo militante, “L’Avanti!” e “L’Unità”. I tentennamenti erano frequenti; Benedetto Croce, simbolo e icona dell’antifascismo liberale, scivolò a giustificare e difendere degli scritti squallidamente antisemitici di Cesare Merzagora (che in anni successivi divenne presidente del Senato). Il problema del “ritorno” che preoccupava entrambi riguardava quasi due milioni di prigionieri italiani provenienti da campi dell’Asse e anche da quelli degli Alleati. Il rientro fu lungo e difficoltoso non solo per ragioni logistiche ma anche per ragioni politiche che vedevano l’Italia stretta dal retaggio della partecipazione all’Asse da una parte e dalle fragili alleanze post-armistizio.
Le precocissime risposte letterarie, per esempio di Debenedetti e di Curzio Malaparte, passarono quindi in gran parte inosservate. Alcuni dei superstiti sentivano però l’esigenza di fissare in uno scritto l’orrore al quale avevano assistito e che avevano subito. Ma pubblico ed editori non erano disposti ad ascoltare. Primo Levi si vide rifiutare il proprio manoscritto di Se questo è un uomo da Einaudi (su indicazione di Natalia Ginzburg e Cesare Pavese) e solo Franco Antonicelli con la sua piccola casa editrice De Silva accettò di pubblicarlo nel 1947. Primo Levi dichiarò poi di comprendere il rifiuto di Natalia Ginzburg; lo stesso Primo Levi commenta così la vicenda;
«Bisogna pensare che allora Natalia usciva da un periodo tremendo, era la vedova di Leone Ginzburg e quindi capisco bene il suo rifiuto, che esprimeva un rifiuto più ampio collettivo […] A quel tempo la gente aveva altro da fare. Aveva da costruire le case, aveva da trovare un lavoro. C’era ancora il razionamento; le città erano piene di rovine; c’erano ancora gli Alleati che occupavano l’Italia. La gente non aveva voglia di questo [di sentir parlare dei campi di concentramento], aveva voglia di altro, di ballare per esempio, di fare feste, di mettere al mondo dei figli. Un libro come questo mio e come molti altri che sono nati dopo, era quasi uno sgarbo, una festa guastata.» [M. Belpoliti Primo Levi, di fronte e di profilo, Guanda, Mi, 2015; Guri Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista**, Laterza Roma-Bari 2004].
Ovviamente Primo Levi non fu solo in queste peripezie editoriali. Voglio ricordare ancora tra gli altri Ettore Siegrist, genovese e dirigente all’Ansaldo, che spiega nella prefazione al suo testo Dimenticare sarebbe una colpa, come quel libretto che narra della sua deportazione a Dachau fosse stato rifiutato da numerose case editrici e stampato infine da una piccola tipografia di Genova Sampierdarena. Nel 1946 il primo resoconto che scrive Aldo Bizzarri, Mauthausen città ermetica, non ha sorte diversa e passa quasi inosservato, pubblicato in poche copie da una piccola casa editrice di Roma, OET-Polilibraria. Diversa sorte tocca invece a Proibito vivere, del 1947 e pubblicato da Mondadori, che adesso presentiamo in questo e-book. Mentre il primo era un resoconto fattuale della propria deportazione, questo Proibito vivere, definito “romanzo” in frontespizio, è una sorta di ibrido narrativo, nel quale la vicenda concentrazionaria è la cornice delle narrazioni (e delle poesie) che otto prigionieri, intellettuali di opposizione provenienti da nazioni diverse – ogni domenica, a turno, svolgono come unico strumento messo in atto per sfuggire all’abbrutimento e alla spersonalizzazione imposta dalla brutale crudeltà della situazione che sono costretti e vivere. Ogni incontro è precario, all’insegna della dignitosa disperazione dei superstiti, poiché ogni settimana il gruppo è sempre più piccolo, perdendo gli uccisi o i trasferiti in altri campi.
Il campo di sterminio fa da sottofondo alle narrazioni che solo apparentemente provengono dal mondo esterno, impossibilitati come sono i narratori a trascendere dalla loro situazione disperata nel campo nazista. Impossibile, leggendo questo romanzo, non far giungere alla mente gli echi del Decameron o delle Mille e una notte.
Non è un tentativo semplice quello di Bizzarri di contenere la realtà dei campi nazisti in una forma narrativa, che sia in grado di fornire il senso della loro enormità di barbarie. Ma in questo caso si può dire che sia un tentativo pienamente riuscito. Senza essere un diario o un breviario – ma neppure un vero e proprio romanzo, naturalmente – e partendo dalla atroce realtà, giunge al fantastico, terminando con la trasfigurazione allucinata che culmina con l’apparizione del demonio Alichino. La diversità dei piani non fa tuttavia di questo testo un’opera frammentaria e poco organica; riesce invece ad assumere i connotati di un’esperienza che potrebbe definirsi medianica, forse utile per giungere a una liberazione interiore, sia psichica che artistica, da quel carico di memorie che perpetua le atroci crudeltà vissute.
L’architettura del testo risulta quindi perfettamente funzionale a lasciare in chi legge i pressanti interrogativi sui problemi morali che propone, e, a distanza di quasi ottant’anni, la sensazione di ripugnanza verso i crimini nazisti resta fortissima.
C’è da aggiungere che il decennio successivo fa riscontrare una sopravveniente indifferenza e un quasi totale silenzio in relazione al sistema concentrazionario, con l’eccezione della vasta eco internazionale dovuta alla diffusione, non solo in forma di libro, ma di cinema e di teatro, del Diario di Anna Frank. Solo negli anni sessanta si ripropone in tutte le forme possibili la più vasta riflessione sulla “Soluzione finale”. E in questa riscoperta la scrittura e la letteratura ha una parte importante ed esplode come fenomeno significativo tra il 1958 e il 1963, ma a dare il via era stato il libro del socialista suzzarese Piero Caleffi Si fa presto a dire fame.
Testi cruciali per la letteratura italiana sull’Olocausto diverranno anche opere che a metà degli anni quaranta erano passate inosservate, come quelli, per esempio sulla specificità della condizione delle donne nei lager tramite le testimonianze di Liana Millu, Frida Misul, Luciana Nissim, Giuliana Tedeschi e Alba Valech Capozzi.
Siamo di fronte anche ad una ricerca linguistica importante che si interseca con questi resoconti. Voglio terminare infatti questa breve e lacunosa presentazione del testo di Aldo Bizzarri con le parole di Enea Fergnani:
«Lavoro, fame, freddo, malattia, morte. Non sono più per noi quelle medesime parole che ripetevamo prima di venire in Germania. Qui lavoro fame freddo malattia morte significano supplizio, strazio, tortura; peggio ancora, significano odio, crudeltà, ferocia.» [Un uomo e tre numeri]
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
In una domenica di fine estate dell’anno millenovecentoquarantaquattro Pietro, Jean, Frantisek e Manuel seduti in terra, il dorso appoggiato al terrapieno della baracca, stavano tutti assorti nel piacere di non muoversi. La baracca non era di quelle sulla piazza, tuttavia anche di lí si poteva vedere il camino del forno crematorio.
«Escono fumo e anime invisibili» disse Pietro.
«Non pensare alle anime» disse Frantisek.
«Non sono le anime che mi preoccupano» rispose Pietro «ma proprio il fumo. Questi corpi che se ne vanno via volando, anche loro, e si disperdono per l’aria. E poi? Mi domando come si farà il giorno del giudizio: dico della resurrezione della carne, quando ogni anima dovrà riprendere il proprio corpo.»
«Ma tu credi ancora a queste cose?»
«Non ancora: ci comincio a credere adesso, da quando sto qui.»
«Io credo solo nel diavolo e nell’amicizia» intervenne Manuel.
Arrivarono Valdemar, Zarko e Maurice; si misero anche loro a sedere per terra. Ultimo, e un po’ stralunato, giunse Costantino e parlò:
«Ne hanno uccisi trentasei stamane alla cava.»
Scarica gratis: Proibito vivere di Aldo Bizzarri.