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(voce di Luca Grandelis)Giandonato De Luca (detto Gianluca) è allenatore federale Fidal-Federazione Italiana di Atletica Leggera e insegna atletica leggera a Portici (NA) con l’A.S.D. Budokan Portici. È autore di L’allenamento della Velocità (ed. Ateneapoli, al cui riguardo lo intervistammo l’anno scorso). Lo intervistiamo oggi a proposito del suo ultimo libro, 10-21-42 km. Come preparare le gare su strada (scritto a quattro mani con Luciano Pappa), anche questo per i tipi di Ateneapoli.
Un libro scritto per coloro che intendano cimentarsi nelle gare su strada. Di che si tratta? Perché se ne parla tanto?
La corsa su strada è una delle attività sportive più praticate, soprattutto a livello amatoriale. Parliamo di gare podistiche che generalmente si svolgono su tre distanze (appunto 10, 21 e 42 chilometri, quest’ultima è un’approssimazione della distanza della maratona) e benché ne esistano di ogni misura quelle del titolo sono ampiamente le più diffuse. Negli ultimi dieci anni l’incremento di podisti è stato molto significativo, non credo sia immediato ricercarne le ragioni, peraltro sicuramente molteplici. Provo ad elencare qualche «buon motivo». La corsa è un’attività poco costosa: non si paga nulla per praticarla (tranne il costo di pantaloncini e scarpette); non è legata agli orari dei corsi (come la palestra o altri sport tenuti da un istruttore) lasciando così maggior libertà al praticante; regala in fretta parecchie soddisfazioni e può diventare un vero e proprio piacere quotidiano.
Gare su strada: una moda effimera, o una tendenza culturale significativa per la nostra epoca?
Entrambe le risposte che ipotizzi sono plausibili, sebbene scarterei l’aggettivo «effimero» considerato il fatto che ormai la tradizione delle corse su strada è di lunga data, e che il numero di partecipanti è costantemente in crescita. Ciononostante l’ipotesi della moda (che peraltro è a tutti gli effetti essa stessa una «tendenza culturale») è tutt’altro che infondata. D’altra parte è lecito sospettare che in una società comunque più attenta alla salute, e soprattutto all’immagine, la corsa abbia buon gioco nell’assecondare entrambi gli obiettivi. Volendo provare ad approfondire l’argomento (col rischio di sconfinare nel campo della sociologia, che non mi appartiene) posso riportare la mia esperienza. La corsa è uno sport tutt’altro che d’elite: è economico, ed è praticato (non ho statistiche al riguardo né credo che esistano, parlo di sensazioni personali) in misura maggiore da appartenenti alle fasce di reddito medio/basse. Similmente, anche l’estrazione culturale dei podisti non è -generalizzando, è ovvio – elevata. La corsa diventa così vettore d’aggregazione, elemento comune nel quale confrontarsi e consigliarsi, e soprattutto potente motivo di soddisfazione individuale: come dicevo, i progressi (soprattutto nei principianti) sono sensibili, e danno l’impressione -spesso fondata – di un nuovo vigore fisico e mentale. Infine, ma quest’ultima ipotesi vale solo per i podisti che cominciano a correre da adulti (per i più giovani vale esattamente l’opposto) ravvedo un’altra sensazione del tutto peculiare: la corsa dà l’illusione di non invecchiare! Mi spiego: nelle gare e negli allenamenti ci si confronta, giocoforza, col cronometro. È del tutto naturale che un podista cinquantenne concluda una gara di dieci chilometri in un tempo migliore rispetto a quando era un principiante di cinque anni più giovane. Ecco, realizzare che a 50 anni si va più forte che a 45 può dare la sensazione di frenare il declino fisico (e in buona sostanza, passami l’iperbole, di allontanare la morte).
In apertura mettete in guardia dagli «estremismi sportivi». Perché?
Per alcuni corridori, la corsa è come la droga: crea dipendenza e non si riesce più a farne a meno. Buona parte degli amatori è incapace di smettere di allenarsi, e solo un infortunio serio può fermarli. Ho da poco scoperto il conio di un neologismo, «vigoressia», ancora introvabile nei dizionari, che descrive più o meno quanto dicevo poc’anzi. La vigoressia è l’esigenza di allenarsi sempre, una patologia che mette l’allenamento al centro di tutte le proprie attenzioni, e che finisce per sacrificare tutti gli aspetti della vita quotidiana (dal lavoro alla famiglia). In sostanza, ci si riduce a vivere per allenarsi. A tanti lettori «seri» sembrerà impossibile l’esistenza di una simile aberrazione. Non lo è, e personalmente conosco diversi «malati»… Ecco perciò il «mettere in guardia» della domanda: la corsa, lo sport in genere, va vissuto e praticato con leggerezza, a maggior ragione se si è amatori e non professionisti che ne traggono sostentamento.
Allo stesso modo, invitate ad essere razionali e moderati, criticando coloro che fanno dell’immagine del proprio corpo l’unica controprova della loro capacità sportiva; voi sottolineate, al contrario, che l’abito non fa… l’atleta. Ma non è forse una cosa ovvia?
Hai colto un passaggio del libro oltremodo specifico, che cerco di sintetizzare nella maniera più veloce e fruibile. Molti sportivi (o sedicenti tali) in particolare tra i body-builders (i culturisti, per intenderci) arrivano talvolta a dileggiare i podisti per il fisico minuto e – apparentemente – gracile. Di rimando il podista ribatte che probabilmente il palestrato non riuscirebbe a correre nemmeno dietro al tram che sta perdendo… Si tratta di beghe tra «fazioni», entrambe un po’ miopi. Il corpo va curato sotto tutti i punti di vista, soprattutto per assicurarci una vecchiaia dignitosa. Nel libro invito i maratoneti (amatori, devo ribadirlo, i professionisti lo fanno sistematicamente) ad allenare anche la forza, non foss’altro che per essere in grado di sollevare il nipotino sulle spalle e salire le scale di casa con le buste della spesa senza correre il rischio di ritrovarsi bloccati nel letto dal «colpo della strega»!
Prima di tanti suggerimenti tecnici, ci tenete a chiarire che «la corsa è per tutti ma non tutti sono per la corsa». D’altro canto, si sente spesso ripetere che «dovremmo correre di più»: ma è veramente possibile (e auspicabile) correre «per dovere»?
No, non è possibile correre per dovere! Nonostante l’incremento di podisti di cui parlavo in apertura, la corsa è un’attività oltremodo faticosa ed impegnativa. Abbozzo una statistica anche qui del tutto personale: nella società d’atletica in cui lavoro ho visto passare migliaia di aspiranti podisti. Ogni dieci persone che cominciano a correre, nove abbandonano dopo un mese! La corsa è passione, c’è poco da dire. Se non la si ha, non varranno niente i consigli del medico o le imposizioni culturali: un mese, e si ritorna sul divano.
La quantità di tabelle e di illustrazioni presenti nel libro la dice lunga sul vostro atteggiamento riguardo all’allenamento: poche chiacchiere e molta pratica. Eppure rimarcate spesso che la consapevolezza ha un ruolo importante nella preparazione (in questo senso, è come se proponeste di arrivare alla comprensione della teoria tramite la prassi sportiva). Quale consiglio dare a un aspirante atleta che desideri cominciare oggi la sua corsa contro il vento?
La tua domanda mi fa pensare a quegli assurdi libri sulle arti marziali, trattate peraltro non dal punto di vista teorico ma pratico! Insomma, al famoso «corso di karate per corrispondenza»! Lo sport va prima praticato, poi studiato. Nello specifico la corsa si distacca leggermente da questo teorema poiché, bene o male, per imparare il karate il maestro è indispensabile, mentre correre resta un gesto innato. Proprio per questo ognuno può improvvisarsi maestro solo perché corre da una vita, ma il più delle volte è un cattivo maestro. All’aspirante atleta (ancora, adulto e amatore, per i giovani esistono le scuole d’atletica) che voglia cimentarsi consiglio di provare a correre e di verificare se la scintilla della passione scocca: la corsa non ha vie di mezzo, o si ama o no. Se nasce l’amore è tutto già scritto: il fuoco sacro all’inizio, la ragione più tardi…