Pipi, lo scimmiottino color di rosa.

di
Carlo Collodi

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Cap. I. Il ritratto di Pipì.

Era una piccola famigliola composta di sette scimmie: il babbo, la mamma e cinque scimmiottini alti quanto un soldo di cacio.

Questa famigliola abitava fra i rami di un albero gigantesco, in mezzo a una foresta, e pagava quindici susine l’anno di pigione a un vecchio gorilla prepotente, che si era messo in capo di essere il padrone di casa.

Dei cinque scimmiottini, quattro avevano il pelame di un colore scuro come la cioccolata; ma il quinto, invece, ossia il più piccolo di loro, fosse scherzo di natura o altro, fatto sta che era tutto ricoperto, salvo il musino, da una finissima lanugine di color vermiglio carnicino, come le foglie della rosa maggese. Ed è per questa ragione che in casa e fuori di casa lo chiamavano tutti in canzonatura col soprannome di Pipì, parola che nella lingua parlata delle scimmie, vuol dire precisamente color-di-rosa.

Pipì non somigliava punto né a’ suoi fratelli né agli altri scimmiottini del vicinato.

Aveva un musino vispo e intelligente; un par di occhietti furbi, che non stavano fermi un minuto: una bocchina che rideva sempre, e un personalino asciutto e flessibile, come un gambo di giunco. Era, insomma, come suol dirsi, uno scimmiottino fatto proprio col pennello.

Vedendolo così di prim’acchito, si poteva quasi scambiarlo per un ragazzino di otto o nove anni. Di fatti Pipì faceva tutto il giorno il chiasso e i balocchi, come un ragazzo: correva dietro alle farfalle e andava in cerca di nidi, come i ragazzi: era ghiottissimo delle frutta acerbe, come i ragazzi: mangiava ogni cosa e mangiava sempre, come i ragazzi: e dopo aver mangiato ben bene, si ripuliva la bocca con le mani, come fanno i ragazzi, e segnatamente i ragazzi poco puliti.

La più gran passione di Pipì volete sapere qual era?

Era quella di scimmiottare tutto quello che vedeva fare agli uomini.

Un giorno, fra gli altri, mentre andava per la foresta a caccia di cicale e di grilli, vide a poca distanza un giovanetto seduto a piè d’un albero, che se ne stava tranquillamente fumando la sua pipa.

A quella vista, Pipì spalancò tanto d’occhi e rimase come incantato.

— Oh! — diceva dentro di sé — se potessi avere una pipa anch’io!… Oh! se potessi anch’io farmi uscire que’ bei nuvoli di fumo dalla bocca!… Oh! se potessi tornarmene a casa, fumando come un camminetto acceso! Chi lo sa con che occhi d’invidia mi guarderebbero i miei quattro fratelli!…

Mentre allo scimmiottino frullavano per il capo queste bellissime cose, ecco che il giovanetto, un po’ per la stanchezza e un po’ per il gran bollore della giornata, lasciò andare due sonori sbadigli, e posata la sua pipa sull’erba, si addormentò come un ghiro.

Che cosa fece allora quel birichino di Pipì?

Si avvicinò pian pianino, in punta di piedi, al giovinetto che dormiva: e rattenendo perfino il fiato… allungò adagino adagino una zampa… prese con una velocità incredibile la pipa che era posata sull’erba… e poi, via a gambe come il vento.

Appena arrivato a casa, chiamò subito, tutt’allegro, il babbo, la mamma e i fratelli; e in presenza a loro, infilatosi quel pipone fra i labbri, cominciò a fumare con lo stesso garbo e con la stessa disinvoltura, come avrebbe fatto un vecchio marinaio.

La mamma e i fratelli, a vedergli uscir di bocca quelle nuvole di fumo, ridevano come matti: ma il suo babbo che era uno scimmione pieno di giudizio e di esperienza di mondo, gli disse in tono di avvertimento salutare:

— Bada, Pipì! A furia di scimmiottare gli uomini, finirai un giorno o l’altro col diventare un uomo anche tu… e allora? Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi!

Impensierito da queste parole, Pipì gettò via la pipa di bocca e da quel giorno in poi non fumò più.

Eppure quella pipa rubata portò la disgrazia e la desolazione in quella povera famigliola. Difatti, pochi giorni dopo, Pipì fu colpito da un orribile infortunio! Lo sciagurato perdé per sempre la sua bellissima coda: una coda così bella, che bastava averla vista una volta, per non potersela mai più dimenticare.

Come andò che Pipì perdé la sua magnifica coda?

È una storia crudele e dolorosa, che fa venire le lacrime agli occhi soltanto a pensarvi; e io ve la racconterò in quest’ altro capitolo.

(Continua)

Cap. II. Come andò che Pipì perdé la sua bella coda

Bisogna dunque sapere che appena usciti fuori di quella foresta, dove stavano di casa Pipì e la sua famigliola, si trovava subito un gran lago abitato da un vecchissimo coccodrillo, che contava oramai circa duemil’anni di vita.

Arabà-Babbà (così chiamavasi il vecchio coccodrillo), divenuto cieco degli occhi a cagione dell’età decrepita, e non potendo più guadagnarsi un boccon di pane col sudore della sua fronte, era condannato a starsene dalla mattina alla sera rasente alla riva del lago, con la testa fuori dell’acqua e con la bocca sempre spalancata, aspettando che tutti quelli che passavano di là, uomini o bestie che fossero, mossi a compassione di lui, gli gettassero in bocca qualche cosa di masticabile, tanto da non morir di fame e di tirarsi avanti almeno per un altro migliaio d’anni.

E tutti i passanti, uomini o bestie che fossero, bisogna dir la verità, non mancavano mai di fare un po’ di elemosina al povero vecchio.

E anche Pipì lo soccorreva frequentemente: ma quella birba spesso e volentieri, invece di dargli o una frutta o un pesciolino morto, si divertiva a mettergli in bocca ora una manciata di sassolini, ora un fastello di stecchi e di ortica, ora un chiodo o un arpione arrugginito trovati per caso lungo la strada.

Ma il vecchio coccodrillo non si arrabbiava per questi scherzi sguaiati. Tutt’altro.

Risputava tranquillamente i sassolini, gli stecchi, le ortiche e i chiodi, e soltanto scoteva leggermente il capo, come per dire:

— Bada, monello! O prima o poi, una le paga tutte!…

Un giorno Pipì, quasi impermalito di vedere che i

suoi scherzi non facevano né caldo né freddo, domandò al coccodrillo, atteggiandosi a ingenuo e a innocentino:

— Dite, Arabà: dacché siete al mondo, ne avete trovati mai degl’impertinenti, che vi abbiano fatto qualche dispetto o qualche burla sgarbata?

— Se ne ho trovati scimmiottino mio! Nel mondo, per tua regola, c’è più impertinenti che mosche.

— Dite, Arabà: e quando i monelli vi fanno qualche dispetto, voi non vi risentite mai?

— Caro mio! In tanti anni di vita ho imparato che la più gran virtù dei vecchi è quella di saper sopportare i giovani con pazienza e rassegnazione.

— Dunque, dacché siete al mondo, non vi siete arrabbiato mai, mai, mai?

Il coccodrillo, prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse:

— Una volta sola. E sai chi fu che mi fece andare su tutte le furie? Fu uno scimmiottino, su per giù, della tua età…

— E che cosa vi fece questo scimmiottino? — domandò Pipì, con una curiosità vivissima.

— Questo monellaccio, non saprei dirti come, era venuto a sapere che io curavo moltissimo il solletico sulla punta del naso. Allora che cosa inventò per darmi noia? Salì sopra uno di questi alberi, che circondano il lago, e calandosi di ramo in ramo, arrivò con la punta della sua coda a farmi il pizzicorino sul naso. Figurati io! Mi trovai attaccato da tale convulsione di risa, che durai a ridere e a ballare nell’acqua per una settimana intera! Credevo di morire!

— Davvero?… Oh! povero Arabà!… — disse Pipì con falsa compassione.

E dopo se ne andò di corsa: e a quante scimmie e scimmiottini incontrava per la strada, ripeteva a tutti queste parole:

— Volete veder ballare il vecchio Arabà? Venite domattina sul lago e io vi farò assistere a questo bellissimo spettacolo.

La mattina dopo, come potete immaginarvelo, c’era sulla riva del lago una folla immensa.

Tutti aspettavano che Arabà ballasse il trescone.

Quand’ecco Pipì che, salito sopra un albero sporgente sull’acqua, cominciò a calarsi giù di ramo in ramo, e tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese tanto, da poter toccare con la punta della sua coda il naso del coccodrillo.

Ma il coccodrillo, appena sentì la coda di Pipì, chiuse la bocca e zaff… con un semplice morso gliela staccò di netto fin dal primo nodello.

Lo scimmiottino cacciò un grido acutissimo di dolore: e buttandosi di sotto all’albero, si dette a scappare verso la foresta.

Arrivato vicino a casa, vi lascio pensare come rimase, quando portandosi una mano di dietro, si accorse che la coda non c’era più.

La coda era rimasta in bocca al coccodrillo, che a quell’ora l’aveva bell’e digerita.

Preso dalla disperazione e vergognandosi a farsi vedere dalla sua famiglia in quello stato compassionevole di scimmiottino scodato, Pipì infilò per una viottola solitaria, camminando all’impazzata fino a notte chiusa, senza sapere neanche lui dove andasse a battere il capo.

Finalmente non potendone più dalla stanchezza e dal sonno, si sdraiò sopra un monticello di frasche secche per riposarsi un poco.

In quel mentre, però, che era lì lì per appisolarsi, sentì negli orecchi una voce minacciosa, che gli gridò imperiosamente:

— Rendimi la mia pipa!…

Lo scimmiottino, svegliandosi tutto spaventato, voleva fuggire; ma non poté: perché in men che non si dice, si trovò preso, rinchiuso in un sacco e caricato sulla groppa di una bestia con quattro zampe, che cominciò a correre di gran carriera.

— Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga? — pensava lo scimmiottino tremando dalla paura. — Se per caso è un leone, sono bell’e perduto!..— Se per disgrazia è una tigre, peggio che mai!… Se è una iena o un leopardo, non c’è più scampo per me!… Oh! me disgraziato! Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?…

Per buona fortuna, la bestia ragliò… e allora Pipì sentì allargarsi il cuore dalla contentezza.

Quel raglio fu l’unica consolazione che avesse il povero Pipì durante il suo misterioso viaggio, rinchiuso in un sacco!

(Continua)

Cap. III.

Dopo aver camminato tre giorni e tre notti, senza prendere un minuto di riposo, finalmente la bestia che portava in groppa il sacco, con lo scimmiottino dentro, si fermò tutt’a un tratto, e data una gropponata, scaricò il sacco in mezzo a una solitaria campagna.

E la gropponata fu così brusca e violenta, che il sacco, cadendo a terra, seguitò a ruzzolare sull’erba per un mezzo chilometro. Figuratevi quante capriole dové fare, al buio, il povero scimmiottino.

Ma il momento più brutto per lui fu quando si provò a rompere il sacco per uscir fuori.

Adoperò gli unghioli, e non concluse nulla: adoperò i denti e nulla. Rifinito allora dallo strapazzo e dalla fame, cominciò a piangere come un bambino.

— Chi è che piange? — domandò un grosso topo, che passava per caso da quella parte.

— Sono io!… sono un povero scimmiottino che muore di fam…

Ma non poté finire la parola, perché gli fu troncata a mezzo da un lunghissimo e sonoro sbadiglio.

— Esci fuori, e mangerai.

— Si fa presto a dire esci fuori: ma lo vuoi intendere che non posso uscire?

— Perché?

— Perché non mi riesce di rompere il sacco.

— Lascia fare: il sacco lo romperò io.

Detto fatto, il topo si distese lungo sull’erba, e cominciò a rosicchiare con quanta forza aveva ne’ denti.

Ma il sacco non cedeva, perché era più duro del cuoio.

— Quanto tempo ti ci vorrà per bucarlo? — domandò lo scimmiottino.

— Il sacco resiste: ma in quattro o cinque mesi spero di averlo bucato!

— Cinque mesi? — strillò di dentro il povero Pipì — ma dopo cinque mesi troverai nel sacco appena i miei ossi e i miei unghioli!…

E ricominciò a piangere più forte che mai.

— Chi è che piange? — domandò un vitello, che pascolava lì vicino.

— È un disgraziato scimmiottino, che non può uscire di dentro da quel sacco — rispose il topo.

— Perché non può uscire?

— Perché il sacco è così duro, che non c’è verso di romperlo.

— Lascia fare a me, che con un cozzo delle mie corna, lo sfonderò, come se fosse fatto di foglie di lattuga.

E il vitello, senza stare a dir altro, si tirò indietro: e presa la rincorsa, andò a testa bassa a battere una terribile cornata nel sacco.

— Ohi! son morto!… — gridò di dentro il povero Pipì: e non disse altro.

Intanto il sacco, a quell’urto screanzato, riprese di nuovo a ruzzolare per terra, come una vescica piena d’aria: e il topo e il vitello a corrergli dietro per fermarlo: e il sacco, via… ruzzolava sempre più lesto… e il topo e il vitello a rincorrerlo ansanti e con la lingua fuori.

E, dopo aver corso una giornata intera, e, quando erano proprio lì lì per raggiungerlo, il sacco fece altri duo ruzzoloni e giù… cadde in un fiume così profondo e così largo, che non si vedevano le sponde da una parte all’altra.

La mattina dopo alcuni pescatori bussarono alla porta di un bel palazzo, e al servitore che veniva ad aprire, chiesero premurosamente:

— È alzato il padroncino Adolfo?

— Il padroncino — rispose il portiere — è nella sala terrena, che prende il caffè e latte.

— Avvisatelo, che stamani all’alba, abbiamo pescato nel fiume il famoso sacco…

— Che cos’è mai questo sacco?

— Gli è quello che il padroncino aspetta da parecchi giorni.

Appena il portiere ebbe fatta l’imbasciata, tornò in un attimo sulla porta e disse ai pescatori:

— Passate subito.

I pescatori entrarono col sacco sulle spalle, e giunti alla presenza del padrone, lo posarono delicatamente sul pavimento.

— Apritelo! — disse il giovinetto Adolfo.

— È impossibile, signor padrone. Ci siamo provati a sfondarlo con gli scalpelli, con le scuri e co’ trapani… ma il sacco è più duro del macigno.

— Prendete questo spillo, e bucatelo.

E nel dir così, il giovinetto Adolfo si levò dal fazzoletto da collo uno spillo d’oro, sormontato da una grossa perla, sulla quale (cosa singolarissima!) si vedeva dipinta la testa di una bella bambina coi capelli turchini.

I pescatori presero lo spillo in mano, e guardandosi fra loro stupefatti, pareva che volessero dire: — “Com’è possibile che con questo spilluccio d’oro si possa forare un sacco, che ha resistito ai trapani e agli scalpelli?

— Bucate subito quel sacco — ripeté Adolfo, con voce di comando.

I pescatori, per atto di ubbidienza, si chinarono, provandosi a infilare la punta dello spillo: e immaginatevi quale fu la loro meraviglia, quando si accorsero che lo spillo entrava con tanta facilità, come se il sacco fosse stato di polenta o di panna montata.

Appena bucato leggermente, il sacco si aprì in due parti, e lasciò vedere un povero scimmiottino, tutto malconcio, che dava appena gli ultimi segni di vita.

Adolfo prese lo scimmiottino in collo, e gli bagnò la bocca con un po’ di latte tiepido.

A poco per volta Pipì si riebbe ed aprì la bocca. Allora Adolfo gli pose in bocca una pallina di zucchero e un crostino imburrato.

Pipì inghiottì il crostino e lo zucchero, senza far nemmeno l’atto di masticarli.

Poi aprì gli occhi e gli fissò negli occhi di quel simpatico giovinetto, che aveva per lui tante cure e tante attenzioni: e pareva quasi che volesse ringraziarlo.

Alla fine, quando a furia di latte, di crostini e di palline di zucchero, Pipì ebbe ripreso tutte le sue forze, allora saltò in terra, e stando ritto sulle gambe di dietro, cominciò a cuoprir di baci la mano del suo piccolo benefattore.

I pescatori, tutta gente d’ottimo cuore, commossi a questa scena, facevano i luccioloni e si rasciugavano gli occhi: ma il padroncino Adolfo disse loro:

— Andate alle vostre faccende e chiudete la porta di sala: ho grandissimo desiderio di parlare a quattr’occhi con questo scimmiottino.

Cap. IV.

Quando Adolfo e Pipì si trovarono soli, cominciarono a guardarsi l’uno con l’altro, senza fiatare e senza fare il più piccolo gesto.

E si guardarono per un pezzo.

Alla fine Adolfo, non potendo più star serio, dette in una gran risata: e lo scimmiottino fece altrettanto.

E risero tutt’e due sgangheratamente, senza sapere il perché, come ridono i ragazzi un po’ giuccherelli, quando si lasciano prendere dalle convulsioni del riso.

Sfogati che si furono, Adolfo disse allo scimmiottino:

— Come ti chiami di nome?

— Pipì.

— E il tuo casato?

Lo scimmiottino ci pensò un poco; e poi, grattandosi lesto lesto il capo, rispose:

— Pipì senza casato.

— Quanti anni hai?

— Sono il più piccino de’ miei fratelli.

— E i tuoi fratelli che età hanno?

— Sono più giovani del babbo e della mamma.

— Ho capito tutto — disse Adolfo ridendo. Poi gli domandò:

— E la coda dove l’hai messa?

— Non lo so.

— Come non lo sai?

— L’avrò perduta per la strada! Sono così scapato!…

— Eh via! Ti par possibile che uno scimmiottino possa perdere la coda per la strada?

— Allora vuol dire che l’avrò lasciata a casa. Sono partito con tanta fretta, che non ho avuto il tempo di vedere se avevo preso con me tutto il bisognevole.

— Dimmi Pipì; le dici mai le bugie?

— Qualche volta… specialmente quando mi vergogno a dire la verità…

— Ti fa torto: le bugie non vanno dette mai.

— Non le dirò più.

— Raccontami dunque la verità. Com’è che hai perduta la coda?

Pipì, invece di rispondere, cominciò a strofinarsi gli occhi: poi disse piangendo:

— Me… l’hanno… mangiata!…

— E chi te l’ha mangiata?

— Arabì-Babbù, un coccodrillaccio, che mangerebbe anche il fuoco!…

— E come andò che te la mangiò?

— Io volevo fare il chiasso… e lui fece per davvero.

— Oh povero Pipì!

— E che bella coda! Una coda, lo creda signore… Come si chiama lei?

— Adolfo.

— E il casato?

— Adolfo senza casato.

— Lo creda, signor Adolfo senza casato, una coda che faceva gola soltanto a vederla. Quella coda era tutto il mio patrimonio.

— E perché sei scappato di casa?

— Non sono scappato… mi hanno chiuso in un sacco e mi hanno portato via.

— E ora che cosa pensi di fare?

— Qualche cosa farò. Io mi accomodo a tutto.

— Per esempio?

— Io mi contento di poco. A me mi basta di mangiare, di bere e di andare a spasso. Non domando nulla di più.

— Sei discreto davvero! Ma chi ti darà da mangiare?

— Io confido in lei.

— Perché no? Io son pronto a darti da mangiare: a patto però che tu sappia guadagnartelo. Sei avvezzo a lavorare?

— Se debbo dir la verità, invece di stare a lavorare mi diverto molto più a vedere lavorare gli altri.

— Vuoi prendere il posto del mio cameriere?

— Si figuri! — rispose Pipì, stropicciandosi insieme le due zampine davanti per la grande allegrezza.

— Fra pochi giorni — riprese il giovinetto Adolfo — io partirò, per fare un lungo viaggio. Durante questo viaggio, vuoi tu essere il mio cameriere, il mio compagno di avventure?

— Si figuri!…

— A colazione ti darò ogni mattina cinque pere, cinque albicocche e un bel cantuccio di pan fresco: ti piace il pan fresco?

— Si figuri!

— A desinare mangerai alla mia tavola, e ti farò portare un piatto di pesche, di susine e di albicocche: ti piacciono le albicocche?

— Si figuri!

— A cena mangerai otto noci e quattro fichi dottati: ti piacciono i fichi dottati?

— Si figuri!

— Tutte le volte poi che farai qualche balordaggine o qualche cattiveria, allora con questo frustino ti affibbierò una carezza sulle gambe: ti piacciono le carezze fatto col frustino?

— Mi piacciono più i fichi dottati — mugolò Pipì, grattandosi il capo con tutte e due le zampe.

— Accetti dunque i miei patti? — domandò Adolfo.

— Accetto tutto… fuori però che quelle carezze…

— Anche le carezze col frustino: se no, vattene!…

— Ma le carezze… me le affibbierà adagino… senza farmi male… non è vero?

— Te le affibbierò secondo i tuoi meriti. Dunque?…

— Dunque fin da questo momento, io sono il suo cameriere, il suo segretario e il suo compagno di viaggio.

Allora Adolfo andò verso la tavola e suonò un campanello d’argento.

A quella chiamata si presentò il solito servo sulla porta.

— Fate passare subito il sarto, con la paniera di tutto il vestiario.

Il servo uscì: e dopo due minuti entrò il sarto con la paniera.

— Vestitemi quello scimmiottino con la livrea di mio cameriere — disse Adolfo.

Il sarto, senza farselo ripetere, prese dalla paniera due scarpine scollate, di pelle lustra, con un bel fiocchetto di seta sul davanti, e le calzò in piedi a Pipì.

Poi gl’infilò un paio di calzoncini rossi da legarsi al ginocchio: e dal ginocchio in giù gli abbottonò un paio di ghette colore di uliva fradicia.

Poi gli avvolse intorno al collo un fazzolettino bianco, inamidato e stirato a uso cravatta: lo aiutò a infilarsi una sottoveste di panno giallo e una giubbettina a coda di rondine, di panno nero, che gli tornava una pittura: e finalmente gli accomodò in testa un cappellino a cilindro, col suo bravo brigidino da una parte, come hanno tutti i camerieri dei grandi signori.

Quando Pipì fu vestito tutto da capo ai piedi, Adolfo gli disse:

— Su, da bravo, vieni qua da me e va’ a guardarti in quello specchio.

Lo scimmiottino si mosse franco e spedito; ma non essendo avvezzo a portare le scarpe cominciò a inciampare e fatti pochi altri passi finì col fare un bellissimo sdrucciolone e cadde lungo disteso sul pavimento.

Figuratevi le risate di Adolfo e del sarto.

Il povero Pipì faceva di tutto per rizzarsi, ma non gli riusciva. Puntava con sforzi inauditi i piedi in terra, ma i piedi scivolavano sui mattoni inverniciati: ed era subito un’altra musata battuta in terra.

Alla fine si rizzò: e toccandosi il naso che era tutto sbucciato, disse piangendo al padroncino:

— Io… con le scarpe non so camminare… Io voglio andare scalzo.

— Fatti coraggio — disse Adolfo — con un po’ di pazienza ti avvezzerai anche alle scarpe. In questo mondo ci si avvezza a tutto.

— Ma io ci patisco troppo.

— Pazienza! In questo mondo ci si avvezza anche a patire, diceva il mio babbo. Su, su: vieni a guardarti allo specchio.

Lo scimmiottino si mosse una seconda volta: ma camminava a sentita, con passo di formica, pianino pianino, come se avesse camminato sulle uova.

Giunto dinanzi allo specchio, diè una prima occhiata a volo: e tiratosi indietro spaventato, cominciò a strillare disperatamente:

— Oh! come son brutto!… Oh! mamma mia, come hanno sciupato il tuo povero scimmiottino!… Non sono più io!… Non sono più Pipì!… Mi hanno vestito da uomo… e sono diventato un mostro da far paura. Non voglio più star qui: voglio andarmene… voglio tornarmene a casa mia. Non voglio più questi vestitacci; no, no, no!…

E, gridando e avvoltolandosi per terra, si levò le scarpe e le buttò nel camminetto: tirò il cappello sul viso al sarto, si strappò il fazzoletto bianco dal collo: e spiccato un gran salto, uscì fuori dalla finestra e si dette a correre per i campi.

Povero Pipì: correva e correva: ma non aveva ancora fatto cento passi, che sentì afferrarsi per i calzoncini, dalla parte di dietro, e si trovò sollevato da terra; in bocca a un grosso cane di Terranova.

(Continua)

Cap. V.

Il cane di Terranova era uno di quei cani pasticcioni, intelligenti, amorosi, che si affezionano al padrone, come l’amico all’amico.

Non gli mancava altro che la parola per essere quasi un uomo. Di soprannome lo chiamavano Filiggine, a causa del suo pelame nero morato, come la cappa del camino.

Quando Adolfo si accorse che Pipì tirava a scappare, fece un fischio a Filiggine: e Filiggine, in quattro salti, raggiunse lo scimmiottino, e presolo, come già s’è detto, per i calzoncini dalla parte di dietro, lo riportò pari pari in casa del padrone.

— Perché mi volevi scappare? — gli domandò Adolfo in tono di rimprovero.

— Perché… perché…

— Su, su! Rispondi con franchezza.

— Perché io voglio tornare a far lo scimmiottino insieme col mio babbo, con la mia mamma e coi miei fratelli… e non voglio mascherarmi da uomo…

— E allora perché, poco fa, hai accettato di essere il mio compagno di viaggio?

— Perché credevo che fosse una cosa… e invece è un’altra.

— Vuoi, dunque, proprio andartene?

— Anche subito… ma lei mi faccia il piacere di non mandarmi dietro quel solito canaccio nero… perché se no, Filiggine, dopo cinque minuti, mi riporta di peso in questa stanza.

— Non aver paura. Filiggine, senza un mio comando, non si muove di qui. E quanto sei lontano da casa tua?

— Dimolti, ma dimolti chilometri.

— E prima di metterti in viaggio, non ti senti bisogno di mangiare qualche cosa?

A dir la verità, lo scimmiottino non aveva l’ombra della fame: ma tentato dalla sua gran ghiottoneria, rispose abbassando gli occhi e facendo finta di vergognarsi:

— Un bocconcino lo mangerei volentieri!…

Adolfo suonò il campanello d’argento, e il servo portò in tavola un cestino pieno ricolmo di bellissime pesche.

Come potete immaginarvelo, lo scimmiottino non le mangiò, ma le divorò in un baleno.

Dopo le pesche, vide presentarsi un canestro di ciliege così grosse, così mature e così rilucenti, che facevano venire l’acquolina in bocca soltanto a guardarle.

Pipì se le sgranocchiò tutte, a tre e quattro per volta: ma non volendo passare per uno scimmiottino villano e ineducato, lasciò nel canestro i nòccioli, le foglie e i gambi.

Quando si sentì pieno fino agli occhi, allora si alzò da tavola, e fatta una bella riverenza, disse al padroncino di casa:

— Arrivedella signor Adolfo: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua cortesia.

— Addio, Pipì. Fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.

Lo scimmiottino si avviò per andarsene: ma in quel mentre vide entrare il cameriere con un paniere di frutte, che mandavano un odorino da far resuscitare un morto.

— E quelle che frutta sono? — domandò, tornando due passi indietro.

— Quello son nespole del Giappone — rispose Adolfo. — Le avevo fatte preparare per la tua cena di stasera.

Pipì rimase un po’ pensieroso: ma poi disse:

— Pazienza! — E fattosi un animo risoluto, si avviò di nuovo per partire.

Giunto però sulla porta di sala, si trattenne alcuni minuti. Quindi, volgendosi al giovinetto, gli chiese:

— Scusi, signor Adolfo, che ore sono?

— Mezzogiorno preciso.

— Mezzogiorno?… A dir la verità, mi pare un po’ tardi per mettersi in viaggio.

— Tutt’altro che tardi. Ti restano ancora sette ore di giorno chiaro, e in sette ore si fa dimolta strada.

— Ha ragione e dice bene. Dunque arrivedella signor Adolfo, scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua cortesia.

E questa volta partì davvero. Ma dopo un quarto d’ora Adolfo se lo vide ricomparire in sala, tutto ansante e trafelato.

— Che cosa c’è di nuovo? — gli domandò il giovinetto.

— C’è di nuovo — rispose Pipì — che questo sole sfasciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?

— Volentieri.

Adolfo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi.

Pipì prese l’ombrellino, l’aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi.

— Amico mio — disse allora Adolfo — se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio.

— Io di giorno non so camminare — rispose Pipì. — O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?

— Padronissimo di fare come credi meglio.

E nel dir così, Adolfo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dire: “Caro il mi’ ghiottone! Ho bell’e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!”

Quando fu l’ora della cena, Pipì, senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedersi alla tavola dov’era seduto Adolfo: ma questi pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse:

— Che cosa fate costì?

— Vengo a cena anch’io.

— Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba.

— Io… con la giubba… non so mangiare. La giubba non me la metto.

— Allora ritiratevi là, in fondo alla sala e contentatevi di assistere alla mia cena.

Quando Pipì si accorse che Adolfo diceva sul serio, si dette a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma dopo poco tornò.

Quando rientrò nella stanza, aveva la sua giubbettina infilata e tutta abbottonata, come un piccolo milorde.

— Così va bene — disse Adolfo. — Mettetevi ora a sedere, e buon appetito!

Il canestro delle nespole fu portato in tavola.

Inutile starvi a dire che, dopo un quarto d’ora, il canestro era vuoto, e lo scimmiottino era pieno, da non poterne più.

— Ora, poi me ne vado davvero — disse alzandosi da tavola con grandissima fretta.

Ma nel mentre che stava armeggiando per levarsi di dosso la giubbettina, il cameriere si presentò in sala con un magnifico vassoio di melagrane.

— Che odorino! — gridò Pipì, annusando e lasciando gli occhi sul vassoio delle frutta. — O quelle melagrane per chi sono?

— Erano per la tua colazione di domani. Ma oramai tu parti, e le mangerò io.

— Io… partirei volentieri, ma di notte non so camminare. O non sarebbe meglio che partissi domattina, dopo fatto colazione?

— La tua camerina è già preparata. Buona notte. La mattina dopo, all’ora di colazione, lo scimmiottino si presentò puntualmente vestito con la sua giubba di panno nero: ma il signor Adolfo, dopo averlo squadrato da capo ai piedi, gli disse con accento vivace e risentito:

— Chi vi ha insegnato a presentarvi alla tavola di un gentiluomo, senza scarpe in piedi e senza fazzoletto al collo? Andate subito a mettervi le scarpe e la cravatta.

Pipì, confuso e mortificato, cominciò a grattarsi la testa e il naso, e piagnucolando disse:

— Ih… ih… ih… le scarpe mi fanno male… e il fazzoletto mi serra la gola. Piuttosto voglio andar via subito… voglio tornarmene a casa mia.

— Levatevi dunque dalla mia presenza.

Pipì si avviò mogio mogio verso la porta della sala: ma prima di uscire, si voltò per dare un’ultima occhiata al vassoio delle melagrane. Poi se ne andò.

— Questa volta è partito davvero — disse Adolfo tutto afflitto — e me ne dispiace. Gli volevo bene a quello scimmiottino. Che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l’ho scacciato? Eppure, era lei che me l’aveva fatto ospitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio!… Ma oramai quel che è fatto, è fatto, e ci vuol pazienza.

Mentre Adolfo parlava in questo modo fra sé e sé, gli parve che fosse bussato alla porta della sala e nel tempo stesso una vocina di fuori che disse:

— Signor Adolfo, che mi ha chiamato?

— Chi è? — gridò il giovinetto rizzandosi in piedi.

— Sono io.

La porta si aprì e comparve lo scimmiottino.

Aveva in piedi le sue scarpettine scollate e portava la testa ritta e impalata, perché il fazzoletto da collo, moltissimo inamidato, gli segava terribilmente la gola.

A quella vista inaspettata, è impossibile immaginarsi l’allegrezza di Adolfo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbero a un carissimo amico, dopo vent’anni di lontananza.

Giurarono di non lasciarsi mai più e di fare insieme questo gran viaggio intorno alla terra.

Il bastimento sul quale dovevano imbarcarsi, era aspettato di giorno in giorno.

Finalmente il bastimento arrivò.

La sera della partenza, Adolfo e Pipì pranzarono insieme, come erano soliti di fare. E durante il pranzo parlavano di mille cose, dissero un visibilio di barzellette, e risero e stettero allegrissimi come due ragazzi alla vigilia delle vacanze autunnali.

Alzatisi da tavola, Adolfo disse guardando l’orologio:

— Il bastimento parte a mezzanotte. Dunque abbiamo appena un’ora di tempo per dare un’occhiata ai bauli e per vestirci tutti e due in abito da viaggio.

— In cinque minuti io son pronto — disse Pipì, e ballando e saltando entrò nella sua camerina.

E quando fu lì, cominciò subito a levarsi la giubbettina di panno nero per infilare una piccola giacca di tela bianca: invece delle scarpine calzò un paio di stivaletti a doppio suolo, e invece del solito cappello si ficcò in testa un elegante berrettino di seta celeste.

Poi andò a guardarsi allo specchio: ma nel mentre che se ne stava tutto contento, pavoneggiandosi e facendo con la bocca e con gli occhi mille versacci grotteschi, sentì un piccolo rumore, come se qualcuno di fuori si arrampicasse per salire fino alla sua finestra di camera.

Da principio ebbe una gran paura: ma, fattosi coraggio, aprì la finestra e vide… vide due zampe che lo abbracciarono stretto stretto intorno al collo e intese una voce soffocata dalla consolazione e dalla gioia, che mugolava teneramente:

— Oh! mio povero Pipì!… Finalmente ti ho ritrovato.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Pipi, lo scimmiottino color di rosa
AUTORE: Carlo Collodi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti