Ultime di una nobile schiera

Si apre il sipario. Siamo a teatro. Ma il teatro che vi racconto forse non è quello che siete abituate a vedere da spettatrici. È il teatro di chi ci lavora, e delle tante donne invisibili che ci lavorano. (Eleonora)

Il dibattito sull’interazione tra teatro e politica è lungo e irrisolto. O meglio: è irrisolto se non si accetta il valore politico che il lavoro artistico comunque ha, sia che questo valore venga impresso con consapevolezza o volontà, sia che si tratti del semplice (si fa per dire) riflesso del pensiero dell’autore. Se invece si accetta il pericolo di schierarsi con la propria parola o i propri gesti, con la scelta di un tema o con una domanda, i frutti saranno molti e diversi. Non sono pochi a fare questa scelta, chi con un gesto, scegliendo di fare teatro nelle carceri, nelle scuole, con i rifugiati politici; chi trattando esplicitamente tematiche d’attualità all’interno dei propri spettacoli. La fortunata esperienza del teatro di narrazione non è che la forma più esplicita di questa scelta. E non è da meno chi, restando apparentemente nei canoni, per così dire, di una libera espressione artistica – che parta da un’idea figurativa, realistica o da un percorso “sperimentale” – mette in campo un lavoro sulla forma e sul linguaggio, e dunque anche una nuova o comunque problematica idea di mondo. C’è, poi, il percorso inverso: quello che va non dall’artista al sociale, ma dalla società all’arte. Si tratta evidentemente di distinzioni già abbattute da tempo, almeno a partire dalle avanguardie, ma che nel linguaggio quotidiano ci concediamo di usare ancora per meglio orientarci. Gli esempi sono numerosi e spaziano nei mezzi, dalle arti figurative a quelle performative, e nel livello di critica sociale, dalla street art al teatro d’impresa. Il concetto stesso di performance nasce dalla volontaria confusione tra spazio pubblico e spazio della rappresentazione. E questa confusione può nascere sia dalla volontà di mettere alla prova l’arte, sia da quella di mettere alla prova un’idea o, meglio, un discorso.

Perché un’azione

La cultura è quel complesso sistema di valori morali ed estetici che è alla base dell’identità e dell’autorappresentazione di un popolo. E noi donne, come potremo mai riconoscerci, affermarci e fortificare la nostra identità all’interno di un sistema culturale dalla cui costruzione siamo escluse? (Eleonora)

Proprio dall’esigenza di sottoporre alla prova del linguaggio artistico un discorso sociale e politico nasce E sei anche fortunata, spettacolo-non spettacolo prossimo al debutto scritto e interpretato da undici donne di cui due attrici professioniste, Irene Guadagnini e Donatella Allegro, che ne ha curato anche la regia. Il sottotitolo Azione di resistenza artistica esplicita il paradosso sopra accennato: non uno spettacolo, ma un’azione; non un’azione lineare, ma il percorso destabilizzante della performance. Sia detto tra parentesi: anche in questa direzione non v’è nulla di particolarmente “originale”, non c’è nessuna ingenua fiducia nell’effetto provocatorio e tantomeno catartico. Persino la formula “non-spettacolo” ha precedenti noti e fortunati, si pensi, per limitarsi solo all’ambito teatrale, alla non-scuola del Teatro delle Albe e prima ancora all’esperienza, a tutti nota almeno per sentito dire, dell’uscita dai teatri del Living Theatre o, per restare vicini a noi, al teatro popolare di Giuliano Scabia. Più in generale, l’idea che “azione” sia la parola chiave dell’arte performativa e che nella presenza reale di questa azione sia il nucleo primitivo del teatro – con le relative derive ideologiche e “archeologiche” – è un’idea, che ci piaccia o no, definitivamente acquisita sia dalla critica, sia dalla pratica del teatro contemporaneo. Ma non è di questo che vogliamo parlare quando chiamiamo azione questo lavoro teatrale, tanto più che E sei anche fortunata è uno spettacolo essenzialmente di parola. Con azione di resistenza artistica vogliamo indicare qualcosa di molto più semplice: intendiamo un’azione politica, come lo sono una manifestazione, un discorso, un voto o un non voto. In questo senso la direzione non è quella dell’artista che sceglie un aspetto della società come oggetto del suo discorso ma quello del gruppo politico, in questo caso femminista, che sceglie come mezzo del suo discorso un linguaggio performativo. Del resto, la genesi della azione di E sei anche fortunata è del tutto contingente, nel senso nobile della nascita da una necessità e da alcune circostanze fortunate.

Perché resistenza

Come se lavorare senza retribuzione fosse normale. Come se noi dipendenti fossimo soci, tenuti a condividere il rischio di impresa. Come se fosse inconcepibile che credessimo di avere veramente dei diritti. (Maddalena)

RosaRosae è il nome di un gruppo di donne tra i venticinque e i trentacinque anni che si riunisce a Bologna dall’estate 2011. Alcune non esitano a definirsi femministe, altre non si sono mai poste il problema; tutte hanno alle spalle un percorso personale di consapevolezza o di studi di genere condotto non di rado in solitudine, come è tipico, spesso si dice, di una generazione senza partiti, senza grandi scuole di pensiero, una generazione di studi all’estero e di iperattivismo onnivoro. Nel gruppo non mancano, tuttavia, donne con un percorso di studi specifico e accademico, il cui contributo critico si rivela fondamentale. Nel panorama, spesso in ombra, ma ancora brulicante, di collettivi e associazioni di donne, sono ancora le circostanze materiali che hanno dato il via a questa esperienza. Donne con storie molto diverse si incontrano, si notano e si coinvolgono con un effetto “a catena”, riconoscendo nelle altre uno stesso desiderio: avviare un percorso di genere che non rinneghi il femminismo storico ma neppure lo ricalchi, che non accomuni nelle risposte ma, almeno per ora, nelle domande che pone. Nasce da questa contingenza e da questa urgenza un discorso femminista a partire dalle circostanze materiali della vita, prime tra tutte le condizioni di lavoro. La scelta del primo tema al centro del percorso esistenziale e politico di RosaRosae è inevitabilmente frutto dell’attualità. In Italia, per alcuni aspetti, non sono ancora neppure complete le lotte per i diritti avviate nel dopoguerra: le donne italiane si trovano ancora a rivendicare un salario pari a quello degli uomini, una reale condivisione del lavoro domestico e di cura, un sistema di welfare, che anzi arretra rapidamente davanti ai nostri occhi. Il cammino sembra essersi interrotto, e sui temi della rappresentazione della donna nei media si è addirittura in uno stato d’emergenza. Restando sui temi del lavoro, l’allargarsi di disoccupazione, inoccupazione e precarietà è sotto gli occhi di tutti, donne e uomini. E, se è vero che chi non ha salario è ricattabile, è senza voce, in tempi come questi le donne, vittime predilette delle epoche di crisi come delle guerre, pagano un prezzo particolarmente alto. Il punto di partenza di un discorso femminista contemporaneo e generazionale, allora, non poteva che essere quello del lavoro delle donne.

Perché un linguaggio artistico

Una laurea, anzi due. Cosa importa. Non so. Vai in Francia, prima laurea. Parlez vous francais: no. Il francese. Non parlo il francese. Impara il francese. DELF DALF. Delf dalf WOLF. Fai l’Erasmus, divertiti in Spagna. Calimocho in Spagna. Impara lo spagnolo. Fai un’altra esperienza. Lo ami? È lo stesso, vai in Spagna. Sei giovane. Storia dell’arte. A cosa serve? (Caterina)

Centrato il cuore del discorso, si è dunque posto il tema/problema della voce: quale tono, quali note usare per portare avanti la riflessione evitando le solite formule? Chi scrive ha proposto di utilizzare il mezzo teatrale, a partire da una scrittura collettiva. È un teatro, quello che qui si tenta, in cui la scrittura è quasi tutto. Non poteva essere altrimenti, e la vocazione militante di questa esperienza ci scagionerà dalle accuse di passatismo che inevitabilmente gravano su ogni esperienza che possa definirsi testocentrica. Ogni donna ha elaborato un suo breve testo utilizzando liberamente modalità e suggestioni care alla propria formazione e alla propria esperienza, poi integrato in una drammaturgia originale, labirintica e tutt’ora provvisoria. Il risultato è la mise en éspace di un montaggio drammaturgico, un mosaico inaspettatamente organico a partire non da una ma da più esperienze: un procedimento ben collaudato in teatro e tutt’ora molto produttivo, specie negli studi che partono dall’improvvisazione o da laboratori, non solo di professionisti. È evidente allora che il problema non è quello dell’originalità ma quello della fecondità: la fecondità di un discorso. Il tema del dialogo, aperto e imprevedibile, è già presente nel titolo. E sei anche fortunata cita la frase che tutte le donne si sono sentite rivolgere nel momento in cui raccontavano una propria esperienza: una frase che tradisce rassegnazione, che suona offensiva anche se involontariamente, esito paradossale di un istinto positivo verso il racconto, il confronto, la ricerca dell’altra/o. Non accettiamo di essere sole, rivendichiamo il potere di un’azione collettiva – e il parallelo con il livello contrattuale è evidente -: facciamo resistenza. E la facciamo con una scrittura non saggistica incarnata in un atto performativo: per sfuggire per un attimo dai percorsi del parlare politico, per forzare un dialogo con chi ascolta e forse non ha il tempo di partecipare, per complicarci allegramente la vita. Cerchiamo aiuto nel linguaggio che crea, e con esso tentiamo di toccare altre e altri, oggi a partire la scrittura e dal teatro, domani, forse, complicandoci la vita in altro modo.

Partire dal colloquio, inaugurare un dialogo

Ed in questi tempi di crisi, a chi mi chiede ora cosa faccio, non so cosa rispondere.(Francesca)

Un pezzo di carta con la parola “a progetto” in grassetto. Tre mesi, poi sei, poi dodici. E mi viene quasi da ridere a pensare che mi hai chiesto l’impossibile: la stabilità […] (Elvira)

Lavorare è stare nelle cose che succedono, essere pronta, preparata, competente con responsabilità e desiderio.(Federica)

Poiché per la generazione di cui le donne di RosaRosae fanno parte la questione occupazionale è più che mai drammatica nella fase dell’ingresso nel mondo del lavoro, ciascuna co-autrice ha elaborato il proprio testo a partire dal tema del colloquio, esperienza vissuta molte volte o nessuna, con successo o con umiliazione, comunque rappresentativa di un’emergenza sociale. Il testo è potenzialmente aperto a ulteriori contributi. Se lo spettacolo-non spettacolo avrà vita, infatti, potrà allargarsi a comprendere altri testi, altre storie di donne disposte a raccontare come sono fortunate; ognuna col suo stile, perché come i femminismi sono molti, molte sono le scritture: già nel testo attuale momenti informativi si alternano a toni diaristici, coloriture ironiche a riflessioni filosofiche. Lo spettatore possiede già la chiave per capire cos’hanno in comune le donne che parlano (ogni autrice è anche attrice), perché questa chiave è nei fatti raccontati. In questo senso si offre a chi è presente all’azione un discorso in fin dei conti brechtiano: una semplice esposizione di dati ed eventi mescolati alle riflessioni di chi oggi sopravvive – magari allegramente, magari anche con fortuna – a un mondo del lavoro spietato, in cui a chi è rimasto il privilegio di un lavoro retribuito, si può dire: e sei anche fortunata! Sempre brechtianamente, non c’è immedesimazione possibile: ognuna e ognuno deve immedesimarsi in se stesso e chiedersi: io cosa farei? Io cosa faccio? Per cominciare, inauguriamo un dialogo con le altre donne, senza risparmiare tempo e spazio, mettendoci a nudo con il racconto di un’esperienza personale e mostrandoci pronte ad ascoltare quelle delle altre.

Il debutto

È tempo, ADESSO, che il mondo prenda in prestito gli occhi delle donne per allargare il suo sguardo. (Irene)

I movimenti delle donne in Italia hanno trovato una nuova visibilità un anno fa nell’esperienza, particolarmente felice perché ben condotta mediaticamente e dal forte impatto emotivo, della rete Se non ora quando?, e dietro questa sigla molti gruppi di donne – sebbene non tutti – hanno accettato di accantonare divisioni e differenze per mostrarsi unite contro le iniquità più evidenti e più urgenti da sanare. È su questa linea che si inserisce l’esperienza del seminario Vite, lavoro, non lavoro delle donne previsto per i giorni 3-4 marzo 2012 a Bologna, una due giorni in cui si alterneranno testimonianze, relazioni di esperte e discussioni condotte con modalità partecipate, con l’obiettivo di arrivare a elaborare proposte concrete e condivise per creare un’agenda politica nazionale delle donne. RosaRosae ha seguito la genesi di questo convegno e ha proposto di debuttare al suo interno con E sei anche fortunata, non per offrire una pausa di intrattenimento all’interno del seminario, ma come parte integrante dei lavori. Per dirla con le parole di Elena Buffagni, una delle autrici-attrici del testo, per formulare una domanda:

Fermiamoci un attimo. Fermarsi a volte significa imbroccare la strada giusta. E stavolta è importante poter decidere in che modo guardare, parlare al mondo. Partire da una domanda sentita, non da esigenze dettate dal mercato: perché il mercato pretende, non domanda. Domandare significa entrare in una relazione, essere disposti a lasciarsi attraversare dalla risposta, da una risposta imprevista e in questo modo trasformarsi.

Tratto da: http://www.inchiestaonline.it/femminismi-e-movimenti/per-complicarci-allegramente-la-vita-note-su-un’azione-di-resistenza-artistica/