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Ilaria Bonuccelli, caposervizio Regione del quotidiano “Il Tirreno” è referente per la stessa testata della campagna contro la violenza di genere. Ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui il Premio Piero Passetti-Cronista per la migliore inchiesta giornalistica per la carta stampata (1996), il Premio assegnato da Unione Nazionale Cronisti italiani, Presidenza della Repubblica, Presidenza del Senato, Corte Costituzionale, Forze dell’Ordine e Fnsi e il Premio Giustolisi, targa del Senato, per l’incisiva opera svolta nella campagna che ha portato all’approvazione della legge contro il telemarketing selvaggio (2017). È anche autrice di alcune pubblicazioni per l’infanzia. È appena uscito in libreria, per l’editore Lucia Pugliese-Il pozzo di Micene, il suo libro dedicato al tema del femminicidio: Per ammazzarti meglio.
Femminicidio: se ne parla molto e da molto, ma sembra che il fenomeno non sia ancora abbastanza chiaro, soprattutto a giudicare dai risultati. Che cos’è il femminicidio? In cosa è diverso dall’omicidio? E perché è importante continuare a parlarne?
In realtà questo concetto – l’assassinio di una donna per motivi di genere – dovrebbe essere definito “femmicidio”, traducendo il modo letterale il termine inglese “femicide” usato per la prima volta nel 1992 dalla criminologa femminista Diane Russell. Parlando di questo crimine, la Russell si esprime in questi termini: “Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”. Il termine “femminicidio” viene, invece, utilizzato nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde e ha un significato più ampio. Nasce per descrivere la situazione (senza protezione) delle donne vittime di violenza in Messico. È un termine, quindi, relativamente giovane (ha appena 15 anni) che viene coniato per indicare “la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato”. È importante continuare a parlarne perché ancora non esiste una vera cultura di contrasto alla violenza di genere. Non pensiamo e non agiamo per contrastare la violenza di genere. Ce lo dimostrano nella quotidianità medici, infermieri, giudici, membri delle forze dell’ordine. I nostri vicini che ascoltano e vedono la violenza e continuano ad avere comportamenti omertosi. Citiamo qualche esempio concreto, di questi mesi. Esempi che cito per esperienza diretta, di donne vittime di violenza con le quali mi relaziono. Entrano in una caserma o in una questura, per denunciare maltrattamenti e violenze e si sentono rispondere: “Signora, ma se ha sopportato le botte per 40 anni, non poteva avere ancora un po’ di pazienza?”; oppure: “Chi l’ha stuprata? Il suo compagno? Ma allora sono affari di famiglia”. Ci sono medici che vogliono credere ancora ai lividi delle porte sbattute o alle cadute accidentali dalle scale. Fino a quando distoglieremo lo sguardo o crederemo al raptus, alla gelosia come movente della violenza ci sarà bisogno, più che bisogno di parlare di femminicidio.
Il femminicidio si inquadra nella cornice più ampia della violenza di genere, “sulle donne”: si tratta di un fenomeno italiano (ovvero, occidentale) moderno, o di una matrice trasversale alle epoche e alle culture?
Non ne parlerei come di un fenomeno occidentale. Neppure lo liquiderei come un fenomeno che appartiene soprattutto alle “altre” culture: a quella musulmana o a quella asiatica. La nostra, e per nostra, intendo sia quella occidentale che, nello specifico quella italiana, ha ancora molto da lavorare su se stessa. Non solo per abbattere gli schemi patriarcali dai quali discendono forme drammatiche di violenza e sopraffazione, ma anche per scrollarsi di dosso stereotipi di genere. Con radici molto profonde.
Di fronte a un fenomeno di quest’ampiezza, la legge si mostra impotente, o semplicemente inadeguata? Come immaginare strumenti normativi realmente all’altezza?
Per rispondere a questa domanda sono più adatti i giuristi. Io posso rispondere rispetto alle incongruenze nelle quali mi sono imbattuta in concreto. E che sto cercando di modificare, a livello culturale oltre che normativo, insieme alle docenti, colleghe, amiche di Carta di Viareggio, associazione di contrasto alla violenza di genere. Fra le emergenze ci sono: 1) rendere più efficaci le misure di prevenzione e contrasto alla violenza; 2) eliminare il listino della vergogna: il ristoro riconosciuto dallo Stato alle donne vittime di stupro, violenza e femminicidio: per lo Stato – come denunciato proprio da Carta di Viareggio – queste donne valgono da 3.000 a 7.200 euro, quando le vittime di altri reati intenzionali violenti (ad esempio le vittime di mafia, di terrorismo o della Uno Bianca) valgono almeno 200mila euro. Un ristoro che è incostituzionale oltre che indecoroso. Infatti la questione è in discussione ora davanti alla Corte Europea di Giustizia. Questa è una nostra battaglia. Non l’unica. Dobbiamo garantire alle donne vittime di violenza anche la sicurezza di non essere più aggredite anche una volta che i loro persecutori, maltrattanti abbiano scontato la pena. Per questo stiamo ragionando sulla necessità dei percorsi di recupero dei maltrattanti. Un ragionamento complesso, considerando che nessun trattamento sanitario (per un giusto principio costituzionale) può essere imposto. La questione è complessa, come si vede. Comunque, grazie alle accademiche, alle giuriste della Scuola Sant’Anna di Pisa e dell’università di Pisa siamo riuscite intanto a far cambiare la legge sui braccialetti elettronici anti-stalker: siamo state le prime (e uniche) a denunciare nel 2017 che in Italia i braccialetti elettronici anti-stalker erano previsti dal codice di procedura penale ma non si potevano utilizzare (per come era scritta la norma) per gli indagati/imputati di atti persecutori o maltrattamenti in famiglia se colpiti da divieto di avvicinamento alle vittime. Una vergogna. Dal 9 agosto 2019 non è più così.
E, dopo la legge, cos’altro c’è da fare, nella misura in cui il problema non può venir inquadrato nella sola cornice della responsabilità individuale, ma anche di quella sociale?
Formazione. A tutti i livelli. Ci vuole un approccio diverso alla violenza di genere.
Come affrontare il problema della violenza psicologica, più subdolo ma ugualmente canceroso rispetto a quella fisica?
Mi ripeto: formazione. Per creare una cultura diversa. Non si può pensare che dire a una donna: “Quella gonna ti sta da schifo”, “Sei una cretina” “Non capisci nulla” non sia violenza. Mi correggo: queste frasi sono violente nei confronti di chiunque. Devono capirlo i genitori. Non si devono permettere di pronunciarle nei confronti dei figli. Dire a un figlio “Sei un buono a nulla, sei un cretino” significa demolirne l’autostima. Si crea una persona destinata o a replicare il comportamento violento o a essere facilmente vittima di violenza.
Cosa consigliare a quelle donne che non riescono subito a dare il giusto nome al problema di un compagno violento?
Intanto di non colpevolizzarsi. I processi sono lunghi. La violenza non è mai colpa di chi la subisce. Direi di guardarsi allo specchio e provare a dirsi: “Non me la sono meritata”. E neppure me la sono cercata. Ma insieme ci metterei anche tutti quelli bravi che dicono: “Se l’è cercata”. “Se l’è meritata”. Facile dare giudizi dall’esterno. Non si capisce mai che alle botte, allo stupro, si arriva dopo anni di demolizione dell’autostima. Dopo anni di violenza psicologica, quando le difese sono azzerate.
Perché, a fianco di tanto giornalismo, hai deciso di fare un libro? In cosa differiscono questi due modi di informare?
Un libro ti consente spazi e possibilità di approfondimenti che un articolo di giornale non ti dà. Non sempre, almeno. E anche la possibilità di qualche giudizio che all’interno di un articolo di cronaca, giustamente, non deve trapelare. Per quello c’è il commento. Io sono ancora della vecchia scuola.
A cosa lavora adesso? Come continuerà a portare avanti il suo impegno, come giornalista e come donna?
Come donna spero a diventare una persona migliore. Come giornalista ad aiutare chi non ha voce. Non mi sono mai piaciuti i prepotenti. E più vado avanti e meno mi garbano.