copertina del libro La giudice

Paola Di Nicola, giudice presso il Tribunale penale di Roma, affida il suo libro di esordio a Ghena, giovane marchio romano che si segnala per l’attenzione all’attualità in ottica di genere. Dall’incontro tra donne su un terreno di impegno nasce così La giudice, un libro che informa come un saggio e scorre come un romanzo, in cui pubblico e privato volutamente si fondono per parlare a tutte e a tutti.

La giudice non racconta il percorso di una donna in magistratura e neppure la lotta per infrangere il cosiddetto tetto di cristallo, la barriera invisibile che impedisce a donne eccellenti negli studi e nel curriculum di arrivare a ricoprire gli incarichi più alti. Certo, questo tetto esiste: come ci ricorda l’autrice, nel 2012 le magistrate erano 4006, il 46% dei magistrati italiani, mentre ben diversa è la situazione nei luoghi in cui si esercita il potere o si è chiamati per scelta fiduciaria o nominativa. Per fare solo un esempio: nella corte di Cassazione ci sono attualmente 3 presidenti di sessione donne su 44 e 59 consigliere su 230. Allora le donne in magistratura ci sono, tanto che «se continua il trend che vede le colleghe vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini, nel giro di pochi anni la magistratura sarà quasi completamente femminilizzata, come la scuola». Ma il percorso è ben più complesso di quanto la stessa Paola Di Nicola non immaginasse all’inizio della carriera. Cresciuta e formatasi in un ambiente di magistrati uomini e spesso celebri, primo fra tutti il padre, Paola desidera orgogliosamente lavorare «per le istituzioni come Istituzione», con piena fiducia nella Costituzione, sicura dell’investitura che le fornisce la toga; una toga che accantona e nasconde il sesso del giudicante per dare la priorità a una funzione, a un ruolo. Solo la madre, nel donarle una pettina ricamata, clamorosamente femminile, sembra presentire che le differenze finiranno per riemergere, ed è ciò che accadrà.

Il libro racconta il percorso di acquisizione di una consapevolezza: non basta espugnare gli ambienti di lavoro tradizionalmente maschili, la propria differenza va assunta ed elaborata; da qui l’intuizione finale di firmarsi come la giudice, al femminile (con tanto di timbro, per lo sconcerto della tipografa). Questo percorso ha inizio quando, nel carcere di Poggioreale, Paola si trova a interrogare un boss dei rifiuti che cerca far leva su presunte e stereotipate debolezze femminili (l’emotività, il sentimento della famiglia), mentre è evidente che non le riserva la formalità che di certo avrebbe usato con un uomo. La giudice se ne accorge, tentenna: non avrebbe fatto meglio ad attenuare la propria femminilità, evitando i tacchi, dandosi un’aria più asessuata, più «dura»? Eppure non è lei a essere in difetto ma l’uomo che ha di fronte, prodotto portatore di stereotipi che non sa neppure di incarnare, tanto li ritiene naturali; gli stessi che fanno dire a un altro imputato: «Aund’è u magistratu?». Quella vulnerabilità che per un attimo ha fatto sentire la giudice in una situazione di svantaggio diventa leva per un percorso di studio, nella storia, nella legge, in se stessa.

Con una prosa fluida e diretta, Paola Di Nicola accompagna il lettore in questo suo viaggio che inizia ripercorrendo i lavori dell’Assemblea Costituente: «Lì trovai la chiave di volta del malessere che avevo provato guardando Gennaro; la zavorra che ci portiamo ogni giorno dentro. Uomini e donne». È noto, ma non abbastanza, che l’ingresso delle donne in magistratura è stato a lungo esplicitamente ostacolato. «Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna» così il magistrato democristiano Antonio Romano l’11 novembre 1947, «ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche». È un pregiudizio ormai superato, e tuttavia «nel codice penale la donna è sempre e solo la sua sessualità, il suo corpo, il suo ruolo sociale e famigliare: essere che crea desiderio, madre che genera figli, moglie che accudisce un marito». Analizzando la lingua della giurisprudenza, infatti, la si scopre ancora fortemente patriarcale, fino al paradosso per cui si definisce omicidio un uomo che uccide un altro uomo. Ancora un dato: al 31 maggio 2012, le donne detenute erano 2799 a fronte di 66.487 uomini, solo il 3,3% della popolazione carceraria e per la maggioranza colpevoli di reati contro il patrimonio, cioè furti. Perché una disparità così evidente? Perché «i reati, specie un certo tipo di reati, li commette chi ha potere economico, chi ha potere famigliare, chi ha potere politico-istituzionale. Basta che ci sia un rapporto di potere, a qualsiasi livello, e le donne spariscono. Sono fatte fuori».

Questi ed altri temi ‒ il percorso storico di accesso alla magistratura per le donne, il muoversi in una legislazione ancora fortemente sessista, il perdurare dei pregiudizi nelle fasi della carriera, la preminenza maschile nei ruoli decisionali, il «Risiko famigliare» di una madre separata ‒ sono descritti da un appassionante intreccio di episodi autobiografici e di dati, riportati con precisione e chiarezza, sulla realtà della giustizia in Italia. Si assiste, intanto, alla vita quotidiana di una giudice: da una parte la casa, con i suoi post-it colorati e i bambini che fanno i compiti; dall’altra la camera di consiglio in cui scrivere le sentenze con la cancelleria portata da casa. E la sentenza più difficile e più emblematica da scrivere: quella per un processo di violenza contro una donna. Su questo piano è possibile, ed è utile, prescindere dalla propria differenza sessuale?

Paola Di Nicola non rivendica alcuna presunta qualità femminile nell’esercizio della magistratura (antico argomento paternalistico e sessista, come appare dalle carte dell’Assemblea Costituente); ma rivela che l’ingresso delle donne e del loro punto di vista ha costretto la giurisdizione tutta ad ammettere le proprie ipocrisie: l’assenza del corpo, il mito della neutralità, un immagine di magistrato come superuomo che inevitabilmente le donne hanno fatto proprio. Ecco quindi l’esito del percorso umano e professionale tracciato nel libro: «È necessario sperimentare la propria finitezza, sentirsi continuamente messi alla prova, custodire e accettare la parzialità della propria storia umana e personale, dare forza al pensiero critico, distaccandosi dalle convenzioni e convinzioni, per disporsi all’attenzione e alla tensione necessarie ad apprendere, ascoltare, capire, valutare, tradurre, decidere».